15 Novembre 2019 | Senza categoria
Madre! di Darren Aronofsky è la storia di due coniugi i cui equilibri vengono sconvolti dall’arrivo di uno sconosciuto nella loro casa completamente isolata. Questa è, in breve, la trama (voglio evitare in ogni modo gli spoiler per questa prima parte della mia breve analisi sul film). Madre! è un gioiello sotto ogni punto di vista, dalla recitazione dei due protagonisti, Javier Bardem e Jennifer Lawrence, alla regia che mette in risalto le doti recitative della Lawrence, mai così in parte come in questo ruolo. L’unico difetto che ho trovato, dal punto di vista tecnico, sono gli effetti speciali che, per fortuna, sono pochi e non compromettono la qualità generale del film. Madre! è stato, ingiustamente dal mio punto di vista, massacrato dalla critica: addirittura, quando è stato presentato al festival del cinema di Venezia, molti critici hanno fischiato il film e abbandonato la sala. Per fortuna io, che non sono un critico, ho amato il lavoro di Aronofsky, che – ricordiamolo – ha diretto film del calibro de Il cigno nero o The wrestler, sicuramente non filmetti come Una notte da leoni (piccola frecciatina a Joker, di cui parlerò prossimamente).
Tornando al film, la storia si divide in due macro atti profondamente simili fra loro ma non per questo meno d’impatto sullo spettatore. La prima parte è più riflessiva, riuscendo comunque a tenere alta la concentrazione di chi guarda e permettendo alla nostra attenzione di concentrarsi solo sul personaggio della Lawrence. La macchina da presa, infatti, non si allontana mai dalla protagonista, dandoci il suo punto di vista per praticamente tutto il film e donando tensione a scene che altrimenti sarebbero risultate prive di mordente, se non addirittura comiche. La seconda parte mantiene il focus, ma cambia totalmente il ritmo, trasformando il film in una spirale di violenza e follia, e lasciando lo spettatore confuso e scioccato come la protagonista, fino a giungere a un finale molto criptico e surreale e per questo poco apprezzato dal grande pubblico, bisognoso di una chiave di lettura che possa spiegare un film altrimenti privo di senso per i più.
Madre! non è però un’opera da “capire”, il film funziona alla perfezione e riesce a intrattenere per tutta la sua durata: il fatto che l’opera si muova in un piano spazio-temporale proprio, e che non sia condizionata dalle leggi della fisica, ci rende più semplice accettare ciò che vediamo sullo schermo, e questa natura onirica dell’opera fa sì che “una visione chiara” risulti qualcosa di superfluo. La storia è comunque aperta a più interpretazioni, ma vorrei concentrarmi su quella che più mi ha convinto, di cui ha parlato anche il regista in alcune sue interviste, dunque considerabile più “ufficiale” [prima di andare avanti, però, una precisazione: spero che questa breve introduzione, priva di spoiler, abbia stuzzicato la vostra curiosità e il desiderio di recuperare il film, disponibile tra l’altro su Netflix; da adesso qualche spoiler ci sarà, per chi il film l’ha già visto].
La spiegazione dell’opera parte direttamente dal titolo e dall’inconsueta scelta di inserirci un punto esclamativo, che serve a dare un senso assoluto al termine “madre”, una moderna “madre natura” rappresentata dalla Lawrence. Se la nostra protagonista è l’umanizzazione della natura, la casa è una metafora del mondo, le due entità hanno un rapporto simbiotico, le sofferenze dell’una si riflettono sull’altra. Questa considerazione deriva anche dal fatto che la struttura del film è ciclica, con eventi che vengono riproposti in un evidente ciclo di vita, morte e rinascita come in natura.
Se la Lawrence assume il ruolo di madre natura, Bardem è, invece, qualcosa di molto diverso, l’unico elemento del film non condizionato dal ciclo vita e morte, eterno, un Dio. Nel film i riferimenti biblici si sprecano, come per esempio il fratricidio di Caino e Abele, e basta dare una rapida occhiata alla locandina del film per riconoscere riferimenti all’arte classica religiosa.
L’unico elemento che manca è l’umanità, che è rappresentata dagli, per così dire, “ospiti”, che invadono la casa/madre solo perché Dio l’ha permesso. L’uomo accecato dalla fede porterà morte e devastazione all’interno della casa, fino a condurla all’autodistruzione, metafora che risulta tristemente molto contemporanea. La natura, tuttavia, rinascerà ancora, con una nuova forma, e il ciclo ricomincerà. Il film si conclude con la morte della madre e il suo amore cristallizzato è l’ultimo tributo al suo Dio amante, altra meravigliosa rappresentazione di un concetto astratto come l’amore, indicato come un cristallo puro e trasparente ma con venature ardenti di passione, un sentimento ambito da tutti, tanto che chiunque lo veda ne rimane ammaliato; è proprio questo amore a spingere la nostra divinità a ricominciare ancora e ancora il ciclo per sempre.
17 Ottobre 2019 | Potevo farlo anch'io
Amedeo Modigliani (1884-1920), noto al secolo come il pittore dell’anima, è in realtà, ad uno sguardo più attento, l’artista del XX secolo che pose maggiormente attenzione sulla figura femminile, rendendola il centro del proprio lavoro.
Dedo, questo il soprannome affidatogli da amici e familiari, si trasferisce a Parigi a partire dal 1906; in quella città dove dolce come un respiro d’amante volò per la prima volta la parola maudit rivolta a quegli artisti sconvolgenti le cui vite erano all’insegna di alcool, droghe e donne. Quell’ambiente fecondo per la produzione del pittore, gli permetterà non solo di incontrare molti colleghi ed artisti dai quali trarre ispirazione ma anche le giovani donne che diverranno le famose femme fatales dai colli lunghi che caratterizzano la sua arte.Tutta la produzione di Modì è una riflessione sull’uomo, anche se spesso quell’uomo è una donna, che secondo la religione ebraica a cui apparteneva, è la creatura più bella di tutte e racchiude nella sua carne un duplice soffio divino. Jeanne, Simon, Elvira, le tante donne che popolarono la vita di Modigliani. Le loro anime furono colte e riversate dall’artista nei suoi ritratti in un’intimità quasi infantile. Prendendo in considerazione le due donne con le quali ebbe i rapporti più intensi e sconvolgenti, Simone Thiroux e Jeanne Hebuterne, ecco che si ha un’analisi più precisa del suo rapporto con le donne. Simone arriva a Parigi come studentessa di medicina all’età di diciannove anni ed incontra Modigliani per le vie di Montparnasse, dove il pittore era solito trascorrere tutto il suo tempo al Cafè de la Rotonde. Il loro amore: breve ma estremamente devastante. Simone rimase incinta e contrasse la tubercolosi, malattia di cui Modigliani soffriva dalla nascita. Questo italiano affascinante che la ritrasse in molte opere rendendone il ricordo immortale nei secoli, la condannò ad un’esistenza infelice e breve. L’amore di cui fu improvvisamente privata portò Simon ad infinite suppliche al pittore che non voleva sapere nulla di lei e del figlio illegittimo Sorge venuto alla luce nel settembre 1917. Jeanne Hébuterne, l’unica donna di cui riuscì a capire fino in fondo l’anima, sarà la sua ultima compagna di vita e morte. Conosciutisi durante il carnevale 1916, i due frequentavano la stessa accademia Colarossi, Jeanne aveva 19 anni, Amedeo 33. Magra, pallida, occhi grandi e a mandorla, lunghi capelli rosso castani in contrasto col viso pallido, caratteri per i quali fu chiamata noix de coco, noce di cocco. Il loro rapporto fu di immediata intesa tanto che i due affittarono un appartamento insieme ed iniziarono una breve ma intensa convivenza durante la quale per la prima volta dopo anni Modì trovò stabilità e sicurezza che gli permise di lavorare notevolmente soprattutto sulla figura dell’amata. La stabilità portò alla nascita di una figlia, subito dopo però il pittore si ammalò terribilmente e dopo giorni di agonia morì all’ospedale della Carità nel 1920. Due giorni dopo Jeanne si toglierà la vita gettandosi di spalle dall’ultimo piano dell’edificio in cui i due abitavano, incinta all’ottavo mese di un secondo bambino. In questo lasciarsi cadere di spalle, c’è chi vi legge un ultimo tentativo della donna di negare lo sguardo ad un mondo in cui il suo amato Modigliani non esisteva più. Più di altre donne Jeanne fu la musa di Modì, colei la cui anima fu resa immortale sulla tela. L’evolvere della figura di questa donna nelle opere del pittore dal 1916 al 1920 mostrano l’approfondimento della conoscenza dell’anima di questa giovane ragazza, che diventa sempre più chiara tramite gli occhi dell’artista di dipinto in dipinto.
I ritratti spogliano queste femmes fatales, ne mettono a nudo l’anima con pennellate passionali, cariche di forza e ardore. Modigliani più di chiunque altro fu in grado di instaurare un legame profondo con i propri soggetti la cui anima fu messa a nudo sulla tela.
Giulia Pelassa
23 Maggio 2019 | Vorrei, quindi scrivo
Dicono che la ricerca della felicità duri tutta la vita, che, per quanto ci si possa trovare vicini, questa ci sfuggirà ancora e ancora; più che una ricerca, da come lo descrivono, sembra un inseguimento. Bene, Paolo aveva corso veloce, perché era ad ormai pochi centimetri da essa.
Ma, prima di raccontare ciò che stava per accadergli, è necessaria un’introduzione appropriata.
Paolo era il classico ragazzo di paese con poche storie da raccontare. La sua famiglia si era disgregata con il passare della sua tenera età: i suoi litigavano sempre e, pensando che sarebbe stato meglio per il bambino, sua madre si allontanò da lui e dal padre. Questi però lavorava parecchio, dalle sei di mattina alle sette di sera. Ed ecco la combinazione perfetta perché Paolo, crescendo, si facesse attrarre dalla vita di strada. Paolo però aveva un pregio: non era condizionabile, era testardo come un mulo. Nessuno riusciva a modificare i suoi modi di fare o il suo pensiero. Fu così che si salvò la vita, schivando proiettili che gli si presentavano sotto forma di piacevoli passatempi o di lavoretti innocui per persone poco raccomandabili. Paolo era molto più forte di quanto si rendesse conto, era un adolescente con la consapevolezza di un adulto, ma con gli occhi innocenti di un cucciolo.
Il suo comportamento così al di fuori della norma per un ragazzo della sua età aveva incuriosito un sacco di persone, ma poche erano rimaste davvero. Solo due tra queste potevano considerarsi suoi amici intimi, anzi, amiche: Greta e Lucia. La sensibilità di Paolo si sposava più facilmente con quella dell’altro sesso: era malinconico ma simpatico, molto più socievole quando ci si trovava da soli con lui che quando si era in gruppo. Uno a cui affidare i propri segreti con la sicurezza che se li sarebbe portati fin nella tomba. Non che non avesse amici maschi, ma era pessimista rispetto alle qualità del genere maschile, era remissivo ad intrattenere conversazioni particolarmente serie con essi. Anche se non sempre era stato così, fino alla terza media aveva rivolto la parola a due persone appartenenti l’altro sesso, una delle quali era la sua insegnante di musica, che lo aveva preso in simpatia. Poi era arrivata la prima cotta, non ricambiata, che gli aveva permesso di scoprire quanto fosse importante per lui confrontarsi con le ragazze.
Immaginatevelo: bruttino, non particolarmente muscoloso, a combattere per non abbandonarsi alla strada. Era tentato, ma sapeva che suo padre si sarebbe sentito responsabile e lo rispettava troppo per causargli un simile dolore. E poi suo padre aveva sempre fatto il possibile perché Paolo fosse felice e perché non gli mancasse nulla, a costo di sacrificare del tempo che avrebbero potuto trascorrere insieme lavorando. Così facendo aveva però rischiato che il ragazzo si buttasse via, ma era troppo stressato per rendersene conto.
Quando iniziò la meravigliosa stagione delle prime volte, Paolo conservò, in qualche maniera, la propria innocenza. Era spesso preso in giro per questo suo trovarsi in una sorta di bolla, ma non gli importava. Era felice, lo era davvero. In Greta e Lucia aveva trovato qualcosa che lo stimolasse, senza che venisse giudicato. Poteva dare sfogo a ciò che aveva da dire, e ne aveva parecchio. Però, parlando, non era in grado di esprimerlo appieno. Così decise di provare a scriverlo, e fu una benedizione: le parole sgorgavano così spontaneamente da fargli sembrare di essere un’altra persona. La frase di Ernest Hemingway che aveva schernito tempo prima gli tornò in mente, e si rese conto che aveva ragione. “Scrivere non è difficile. Basta sedersi davanti ad un foglio e sanguinare per un paio d’ore”. E Paolo sanguinò parecchio. Sanguinò per mesi senza quasi fermarsi, e compose un libro.
Come tutte le belle storie, deve per forza esserci un intoppo da qualche parte. Il suo fu scoprire di essere gay. So cosa starete pensando e, no, non sono omofobo. Lasciate che vi spieghi. Per lui non era un problema, come avrebbe potuto. E nemmeno per Greta e Lucia. Per suo padre lo era eccome, invece: si era spaccato la schiena perché fosse “normale” (parole sue, Dio me ne scampi) e come ricompensa lui era diventato “Uno di loro”. Non la pronunciava nemmeno la parola gay, gli provocava ribrezzo solo il suono che questa assumeva. Non giudicatelo, non era un uomo cattivo. La sua famiglia lo aveva avvelenato con quest’ideologia, e ormai era troppo tardi per estirparla. Il rapporto tra i due di conseguenza andò gradualmente scemando: Paolo, giustamente, non sopportava il pensiero stereotipato del padre, e quest’ultimo era convinto di aver sbagliato qualcosa nell’educare il figlio, e se ne vergognava atrocemente.
In una situazione del genere non esiste una scelta corretta né, tantomeno, una errata. Quella di Paolo, però, fu parecchio avventata: scappò di casa. Aveva poco più di diciassette anni. Si trasferì momentaneamente nell’abitazione del suo ragazzo, ma poco dopo si lasciarono; si trovò improvvisamente senza un luogo in cui trovare rifugio e con una manciata di spiccioli nel portafoglio. Fu la settimana più lunga della sua vita: dopo un giorno e mezzo terminò i risparmi, ma il suo orgoglio gli vietò di tornare strisciando dal padre. Era solo contro il mondo, che allo stesso tempo si stava però mobilitando per cercarlo. Suo padre si era pentito dal momento esatto in cui aveva messo piede fuori da casa e, per provare a trovarlo, denunciò la sua scomparsa.
Ma, come si dice, non tutte i mali vengono per nuocere: mentre Paolo cercava di rubare un pezzo di pane dentro un supermercato, fu scoperto da un giovane commesso dall’accento ispanico; avete presente il tanto desiderato amore a prima vista? Tra loro andò più o meno in questo modo, con l’eccezione che il primo appuntamento fu un inseguimento attraverso il parcheggio del supermercato. Come terminò? Ovviamente in modo romantico: il commesso placcò Paolo, che lo pregò di lasciarlo andare. E così fu, e il fuggitivo, essendo in debito, offrì un caffè al benefattore, pur essendo cosciente di non potersene permettere nemmeno una goccia. Il commesso, che per informazione si chiamava Miguel, non sembrò particolarmente stupito della storia di Paolo, cosa che disturbò in qualche maniera il ragazzo. Venne il turno di Miguel di raccontare la propria vita: ed ecco che, con una semplicità inaudita, tutti i pezzi del puzzle che componevano l’esistenza di Paolo iniziarono a combaciare. Si innamorò subito, e in quel momento capì davvero che cosa avrebbe voluto e dovuto essere. Erano entrambi timidi, ma avevano un disperato bisogno di contatto fisico. Spero non sappiate di cosa parlo, ma è quella sensazione che si scatena quando ci si sente persi e si ha bisogno di aggrapparsi fisicamente a qualcosa, di stringerlo abbastanza forte da impossessarsene. Quella sera stessa finirono a letto insieme, e, per quanto sembrasse affrettato, la sintonia tra di loro era evidente.
Fu un nuovo inizio. Il giorno seguente Paolo tornò a casa, e il padre lo abbracciò come non lo aveva mai fatto prima. Si scusò, ma era così felice da non riuscire a scacciare via il sorrisetto da ebete che gli si era scolpito sul volto. Ricordava molto bene quel momento, in cui, nonostante non avesse dormito per due notti di fila, si sentì forte; ma non una forza descrivibile, piuttosto qualcosa di così intenso e fugace che, una volta scomparso, ti lascia senza forze e con il fiato corto.
Nonostante il suo talento, Paolo pensava che non sarebbe mai diventato uno scrittore. Era discontinuo in tutto, e, seppur la sua passione fosse considerevole, la costanza era quella spinta in più che gli era e gli sarebbe sempre mancata. Tranne che in un aspetto: aiutare gli altri. Aiutare gli veniva così bene che sarebbe stato uno spreco non sfruttare questo suo talento in modo che gli permettesse di vivere in modo dignitoso. Aiutare ed essere aiutati. Si era sentito solo abbastanza e non gli era piaciuto.
La sintonia tra i due amanti non si scalfì con il passare del tempo. Ogni secondo che passava si rendevano conto di quanto fossero indispensabile l’uno per l’altro, e per loro non esisteva nulla di meglio. Paolo convinse Miguel a riprendere gli studi, e questi si diplomò dopo un anno circa.
Volevano costruirsi un futuro stabile, concedersi la sicurezza che a loro, per motivi diversi, non era spettata. Ma trovarono qualche intoppo, anzi, trovarono un muro di cemento armato ad aspettarli. La discriminazione a cui gli omosessuali sono sottoposti non è una novità; certo, nel 2019 nessuno si osava criticare ancora apertamente gli omosessuali, si sarebbe ritrovato contro uno tsunami di falsa indignazione. La verità è che la battaglia contro l’omofobia non era stata nemmeno iniziata checché se ne dicesse. La tolleranza era quasi nulla, figuratevi il rispetto. Non potevano sposarsi senza che in tutto il paese si scatenassero un’indignazione ed un distacco totali.
Si trovavano davanti ad un bivio, ma entrambe le strade erano pericolanti: nascondere il loro orientamento sessuale e nascondersi, provando a vivere come le persone “Normali”, come le definiva il padre di Paolo; oppure esporsi, senza rinnegare la loro indole, correndo di fatto il rischio che le poche porte che la vita gli avrebbe aperto si sarebbero rivelate basse e strette. Avevano venticinque anni ormai, e dovevano compiere quest’ingiusta scelta. Paolo, testardo com’era, non dubitò mai del fatto che si sarebbe esposto; Miguel, meno coraggioso, aveva paura. Paura di amare, ecco a cosa si era dovuto ridurre. E la paura gioca brutti scherzi, è risaputo. Passarono mesi, e il rapporto dei due si raffreddò sempre più. Litigavano sempre senza un vero motivo. Un giorno Paolo trovò un biglietto sul proprio comodino: “Non ti ho mai meritato. Sii tutto quello che vuoi e puoi essere”. Fu un colpo duro. Ma Paolo lo era di più.
Scrisse, guidato dalla rabbia, pagine e pagine di critica contro un mondo razzista e oppresso dalla paura del “Diverso”, anche se di diverso non aveva un bel niente: aveva un naso, due occhi, due braccia e due gambe. E un cuore enorme. Ecco, quello era il suo difetto: avere un cuore troppo grande per una gabbia così piccola.
Avrebbe potuto rassegnarsi, ma non ne volle sentir ragione. Il suo essere così testardo lo salvò di nuovo. Scrisse per mesi senza praticamente fermarsi. Chiamò il suo libro “Tutti sbagliano”, in cui perdonò tutti coloro che avevano avuto pregiudizi nei suoi confronti, a condizione che si impegnassero nell’ampliare la loro elasticità mentale. Lo presentò ad un suo vecchio amico, che era diventato editore, e questi lo pubblicò senza indugiare. Fu la seconda più grande soddisfazione della sua vita, la prima ve la racconterò a momenti. Ebbe un discreto successo, e poté così formare un’associazione che rappresentava i diritti degli omosessuali, riuscendo, con il tempo, a sensibilizzare parzialmente la considerazione nei confronti dei gay. Ovviamente si fece dei nemici, ma era inevitabile. Li ignorò sempre, lasciando che gli insulti ricevuti si ritorcessero contro gli accusatori.
Aveva però tralasciato la sua vita sentimentale. Ma sentiva di non essere pronto ad impegnarsi prima di poter amare senza che ciò avesse ripercussioni negative sulla sua vita. Gli mancava, però, qualcuno in cui riporre il suo spropositato amore.
Ed è qui, amici, che possiamo ricongiungerci a ciò che vi ho narrato nelle prime righe. Vi ho detto che Paolo stava per provare una felicità che mai avrebbe pensato gli fosse stato concesso di provare. Ed è così: decise di adottare un bambino. Sebbene le normative sull’adozione non fossero molto definite, il suo gesto, essendo ormai una sorta di personaggio pubblico, sarebbe stato forte. Dovette lottare anche per quello, ma alla fine vinse. Il tragitto che dalla macchina lo portò ad incontrare il suo futuro figlio gli rimase scolpito nella mente: il vento, che trascinava pigramente le nuvole con sé, l’odore della pasticceria accanto al centro adozioni, e la macchia di caffè che si stagliava fiera sulla sua camicia a quadri.
Ed eccolo lì, giunto al momento che si sarebbe rivelato il più felice della sua vita. Nessuna sensazione raggiunse mai quel grado di intensità, mai quella forza spiazzante che rende un uomo invincibile e completo. Lo chiamò Miguel, per non scordarsi da dove tutto era iniziato.
Forse, se sono stato sufficientemente abile nel farvi apprezzare la sua storia, sarete curiosi di come questa possa essere terminata. Ma io non lo ritengo importante. Credo che, in qualsiasi modo questa vicenda possa essersi conclusa, Paolo sarebbe stato felice. Aveva combattuto per gran parte della sua vita e aveva vinto, tutto il resto si poneva in secondo piano. Ed è questo che deve aver insegnato a suo figlio, a non aver paura di mostrarsi per come si è, senza curarsi di essere accettati, perché è così che si trova la forza di apprezzarsi davvero.
Simone Arciuolo
22 Maggio 2019 | Vorrei, quindi scrivo
“Il bello è ciò che cogliamo mentre sta passando. È l’effimera configurazione delle cose nel momento in cui ne vedi insieme la bellezza e la morte.”
(Muriel Barbery)
“Car*, fa abbastanza caldo lì da voi? Perché ora comincia il nostro # Bodyliberationfront. Quando ti dicono che tu non dovresti/potresti indossare short, costumi da bagno, magliette scollate e vestitini corti e aderenti perché non hai le forme “giuste” (giuste per chi?) puoi serenamente rispondere con un bel vai a quel paese. Siamo qui, come ogni primavera/estate (e non solo) a svolgere il nostro bel corteo di corpi liberati. Comunque tu voglia vestire, qualunque peso e misura tu abbia, vogliamo vedere le tue cicatrici, le tue smagliature, la tua panza e la cellulite. Vogliamo vedere le tue ferite autoinferte e la tua voglia di far respirare la pelle troppo oppressa da canoni estetici insopportabili. Vogliamo invitarti a uscire, prendere il sole e a non nasconderti perché siamo insieme, tutte quante, ciascuna con il proprio corpo da liberare. Inviaci la foto che ritrae la parte di te che vuoi mostrare e raccontaci la tua storia. Scrivi a abbattoimuri@gmail.com e noi pubblicheremo tutto :*.
ps: ovviamente tuteleremo il tuo anonimato e la tua privacy. a meno che tu non voglia mostrare il tuo viso.”
E’ questa la call lanciata dalla pagina Facebook “Abbatto i muri”. Più che una call, forse un vero e proprio arruolamento spontaneo nell’Esercito per la Liberazione dei corpi.
La campagna, che sta colorando la pagina in questo inizio di bella stagione con colori, storie e vite diverse, si svolge nel massimo rispetto della sensibilità di tutti (e sarebbe così bello poter interagire con la stessa educazione, lo stesso rispetto e la stessa stima per la storia degli altri su tutto l’internet). Spesso sono giovani donne con un passato difficile, ma anche ragazze perfettamente a loro agio con il corpo, con quel meraviglioso mezzo che permette loro di esprimersi con i loro i simili.
Sono le storie di chi quel corpo l’ha odiato, torturato, perdonato, accettato e, forse, anche imparato ad amare.
Le Breton scrive che “Senza il corpo a donargli un volto, l’individuo non esisterebbe. Vivere significa ridurre costantemente il mondo al proprio corpo, attraverso il simbolico che esso incarna. L’esistenza dell’individuo è corporea. Passa attraverso il corpo. E l’analisi sociale e culturale di cui è oggetto, le immagini che ne rivelano le profondità nascoste, i valori che lo distinguono, ci forniscono informazioni anche sulla persona e sui cambiamenti sperimentati dalla sua definizione e dai suoi modi di esistere, da una struttura sociale a un’altra”. E dunque perché, date le mille variabili che entrano in campo se parliamo di società, individui e valori, dovremmo essere felici di ridurre la nostra espressione estetica (che è un’esperienza del tutto personale) a una retorica del bello tacitamente imposta dai media?
L’estetica è, appunto, “sempre un’esperienza privata. Ogni nuova realtà estetica rende ancora più privata l’esperienza individuale; e questo tipo di privatezza, che assume a volte la forma del gusto (letterario o di altro genere) può già di per sé costituire, se non una garanzia, almeno un mezzo di difesa contro l’asservimento.”
La mia idea di bellezza non sarà mai legata a una fotografia, a un corpo vuoto, né, platonicamente, alle idee di una persona… La bellezza la troverete nel modo di toccarsi i capelli di una persona, nella sua voce o nel profumo della sua pelle.
Carlotta Firinu
29 Marzo 2019 | Music Pills
Eh sì, prima o poi doveva succedere. È giunto il momento per la nostra amata rubrica di parlare di qualcosa che ci scalda più dei gas serra in questi ultimi anni: le canzoni d’amore.
Le canzoni d’amore sono da sempre un pilastro del mercato musicale nazionale e nonostante la loro terribile banalità riescono sempre a spuntarla e a catturare l’attenzione delle nostre orecchie indifese. Dopotutto, la cosa non dovrebbe nemmeno sorprenderci. Che c’è di più banale dell’amore? Nulla probabilmente, ma è indubbio che ne siamo sempre completamente ossessionati e lo desideriamo in tutte le forme in cui si possa manifestare. La banalità dell’amore viene un certo senso mascherata dalla sua libertà di espressione (vera o presunta) e dalla sincerità con cui solitamente questo sentimento si manifesta. Nella musica questo è avvenuto molto raramente. La verità nei sentimenti amorosi è spesso edulcorata da enormi cliché narrativi, pronti a cullarci e a farci sentire compresi da qualcuno, sempre con lo stesso scopo: far percepire la nostra storia come qualcosa di straordinario e irripetibile. Ahimè, se è questo che state cercando, le canzoni d’amore non fanno al caso vostro (o almeno, non dovrebbero). Aldilà della propria identità, la storia si ripete sempre allo stesso modo, secondo uno schema di una prevedibilità sconcertante, tanto che sentiamo la necessità di renderlo speciale per nasconderci dalla sua scontatezza.
Nonostante tutto, nell’oceano immenso delle false sicurezze, vi sono sparse anche piccole gemme di originalità che trattano l’amore da prospettive realmente speciali o anche solo dimenticate. Ad esempio, posso citarvi un caso in cui l’amore in musica raggiunge un livello di raffinatezza ed elaborazione difficilmente eguagliabili. Sto parlando di Love of my life dei Queen. Qui, l’elogio alla propria amata sublima nella musica e nel canto di Mercury che mantengono magistralmente l’attenzione per tutta la sua durata del brano. Poco dirò sulla canzone poiché dopo anni e anni di recensioni sui Queen praticamente è rimasto nulla da raccontare. Come ogni opera dei Queen la canzone composta da Mercury deve la sua straordinarietà all’interpretazione di Mercury stesso e si manifesta come una delle inesauribili proiezioni del suo immenso talento.
Osservando l’amore da una visione completamente opposta troviamo invece Immanuel Casto, noto cantante di musica elettronica da sempre attivo per i diritti LGBT. Tra le sue svariate produzioni dai nomi sessualmente esilaranti, spicca il brano Alphabet of Love. Qui l’amore si fa carnale, buffo, esagerato ma estremamente attuale e reale. Come buona parte della musica di Casto, la risata è lo strumento fondamentale per abbattere l’invalicabile muro del pregiudizio e del perbenismo (come potrebbe dire ipoteticamente lui, distrutto “a colpi di dildo”).
Tuttavia, l’amore può essere ancora di più, inglobando tutto ciò che viaggia tra la feroce banalità e la magica casualità. Ce lo insegnano i Beatles, con il celebre brano All you need is love. Il titolo è già eloquente nello spiegare l’immenso potere dimenticato dell’amore, con un’accezione così ampia da risultare quasi religiosa. La semplicità del concetto si fa così folgorante che immaginarne tutte le manifestazioni pare impossibile. L’arrangiamento ricco di romanticismo e fiati completa una breve esperienza di orientamento verso la pace universale.
Insomma, le occasioni per combattere la piattezza politically correct dei singoli radiofonici certo non mancano e non mancheranno. Inoltre, mentre siete in attesa del nuovo messia dell’amore potete sempre gettarvi nella frustrazione e nell’odio quotidiano. Lì il mercato non ha mai conosciuto crisi ed è sempre ricco di succose (e merdose) sorprese.