Un esperimento: prendere due città a caso nel mondo e confrontare alcune delle loro particolarità. Due città che non hanno nulla in comune, tranne me.

Cuneo, nel cuore del Piemonte, e Iringa, nel cuore della Tanzania centro meridionale, sono posti che ho abitato, luoghi in cui ho vissuto. E ora mi ritrovo a cercare un po’ di Africa qui in Italia, mentre, quando ero là, mi scoprivo spesso alla ricerca di un po’ di Italia in Africa. Dopotutto, prima di fare proprio qualcosa di molto diverso da quello
a cui si è abituati, si tende sempre a ricercare ovunque ciò che sa di casa. Qualcosa che ci faccia sentire appagati come sanno fare solo le montagne che incoronano Cuneo nelle limpide giornate invernali, quando la nebbia tenta di nascondere le cime innevate ed i raggi di sole la sfidano con arroganza. Camminando nel centro di Cuneo mi sento innanzitutto
molto sola. Ho i miei spazi. Posso muovermi liberamente, senza scontrarmi con qualcuno ogni tre passi. A Iringa questa sensazione si prova solo a qualche kilometro fuori dal centro città. La gente, in centro, si riversa in strada, e se deve passare non chiede il permesso. Semplicemente passa. E saluta. Da quando sono a Cuneo, accolgo sempre con grande stupore i saluti di chi non mi conosce, ma mi dice ciao. Se per sei mesi la normalità è stata accennare qualche parola in swahili per augurare una buona giornata, adesso la normalità è passare accanto alle persone, come se la loro vita non mi riguardasse. Come se non avessi bisogno di un loro saluto. Come se, ormai, sentire di appartenere ad una comunità cittadina fosse un concetto medievale.

Il mercato è il luogo in cui avviene la vita, in Africa. È il luogo massimo del ritrovo, è dove si incontrano gli altri.
I mercati hanno un luogo fisso, con le stesse persone negli stessi banchetti, sempre. I prodotti venduti sono cibo e, in alcuni casi, utensili per la cucina o vestiti, ma solo nei mercati più grandi. In quelli di quartiere o di villaggio si trovano soltanto frutta e verdura. Le verdure sono perfettamente ordinate una sull’altra, per comporre piramidi di pomodori o di carote. I frutti sono minuziosamente posti uno accanto all’altro, arancia su arancia, avocado vicino ad avocado fino a formare una composizione circolare in un cesto di vimini. C’è cura nei prodotti esposti. Devono essere accattivanti, e poi si può discutere del prezzo. Va contrattato, non c’è niente da fare. Per quanto poco tu possa conoscere la lingua locale, in questo caso lo swahili, i numeri sono la prima cosa utile da imparare per non essere in una situazione di svantaggio nei confronti dei venditori. Il caos è una prerogativa del mercato, sia esso a Iringa o a Cuneo. Ma il caos di Iringa è un caos coinvolgente. Ti senti parte della vita che scorre, ti senti riempito dai colori delle stoffe che indossano le signore che vendono i propri prodotti. Forse perché sei ospite, forse perché sei bianco e sei guardato da tutti, forse perché tutti sanno che hai più soldi di un comune venditore di piselli e vogliono che tu, quel giorno, compri da loro. E sentirsi parte della vita che scorre nel mercato ha un significato preciso. Vuol dire che il giorno in cui hai deciso di cucinare le melanzane alla parmigiana e fai la spesa nel mercato del quartiere – se così si può definire – in cui vivi, che proprio quel giorno è sprovvisto di melanzane, finirai con l’attirare l’attenzione di tutto il mercato per trovare l’unico banchetto che ha qualche melanzana da parte.

E va proprio così: i venditori iniziano ad urlarsi da un banco all’altro, chiedendo se qualcuno ha le melanzane quel giorno oppure no. E ti prendono letteralmente per mano e ti portano da un angolo all’altro del mercato-labirinto in cui sei finito fino a trovare il ragazzo che, secondo il vicino di banchetto del venditore a cui ti sei rivolto per primo, ha le melanzane. E così le compri, per altro andate anche un po’ a male, e puoi cucinarti la parmigiana quella sera stessa.

Ma anche il mercato di Cuneo ha il suo fascino. Attira persone da tutto il Comune, e non solo. I pullman di francesi che ogni martedì approdano nell’altipiano non mancano mai. E quindi si cammina tra i diversi banchi sentendo parlare un po’ italiano, un po’ piemontese e un po’ francese. Se penso al mercato mi vengono in mente le giornate estive dell’adolescenza, in cui andarci in bici era una specie di rituale di passaggio verso il mondo dei grandi. E provare vestiti su vestiti, tutti uguali da un banco all’altro, e non trovarne neanche uno che stesse bene. Passeggiare in via Roma scortati sui due lati dai banchi dei venditori trasmette un senso di protezione, nonostante anche lì ci sia del caos, ma è un caos piemontese, stazionario, ordinato, rispetto alla corrispondente versione africana. E se proprio si vuole evitare il contatto con la marea di gente che si riversa in via Roma nei martedì di sole autunnale, basta camminare sotto i portici. Vanto sabaudo, elemento tipico piemontese, porto franco per i camminatori seriali nei giorni di pioggia. Anche i portici sono un luogo di incontro, e sono quanto di più lontano esista da una città tanzaniana come Iringa. I portici nascono dall’esigenza di edificare abitazioni sopra le botteghe, sviluppando verticalmente la vita sociale, che andava a mano a mano crescendo, costruendo piani su piani negli edifici di via Roma, prima, e corso Nizza, poi.

Anche i mezzi di trasporto meritano un confronto. La prerogativa dei pullman nelle ore di punta, sia a Cuneo sia a Iringa, è l’essere sempre completamente pieni. Da non riuscire a muoversi e respirare. Nei pullman arancioni si sta schiacciati, ma si respira. A Iringa i pullman sono dei pulmini con nove sedili dietro e due davanti, di fianco al guidatore. I posti totali sono 12, autista compreso, ma mediamente si sta sopra in 25. Le regole della fisica non valgono per gli spazi africani. In posti dove mai avrei immaginato potesse starci un essere umano, gli africani riescono a farne stare almeno due e un sacco da 25 kg di patate. Ovviamente si rinuncia al proprio spazio vitale. E si rinuncia alla comodità e a qualsiasi possibilità di movimento. Se sei seduto, tre volte su quattro qualcuno ti appoggia sulle gambe una borsa oppure un bambino. Se sei in piedi, puoi fare lo stesso tu con chi è seduto, mettendo il tuo zaino sulle cosce del malcapitato vicino a te, senza chiedere niente. Si fa così. Molto spesso mi è capitato che fossero proprio le persone sedute a offrirsi di tenere la mia sacca oppure le mie borse della spesa. E le fermate esistono, ma se hai bisogno di scendere in un posto lontano dalle solite fermate, basta chiedere. L’autista si fermerà. E lo stesso concetto vale per quando si vuole prendere il pullman. Bisogna solo accertarsi che vada nella direzione desiderata, e poi è sufficiente un cenno con la mano per far fermare il mezzo di trasporto anche lungo la strada principale, dove macchine, camion e autobus sfrecciano piuttosto veloci. Più di una volta i pulmini, che in Tanzania si chiamano daladala, hanno fatto un pezzo di retromarcia per farmi salire. E per pagare il prezzo del trasporto si aggiustano i conti direttamente  sopra. Infatti c’è sempre un ragazzo che si occupa di aprire e chiudere la porta, chiedere alle persone lungo la strada, urlando, se hanno bisogno di un passaggio, riferire ad alta voce le fermate principali, dicendo all’autista se e dove fermarsi. È sempre lui che chiede i soldi della tariffa, senza proferire parola ma soltanto usando il ticchettio delle monete che tiene in mano e che porta sotto gli occhi dei passeggeri, i quali conoscono quante monete devono lasciare e le tengono preparate in tasca o in un pezzo di stoffa nascosto nella gonna.

Ma anche i pullman arancioni o blu che girano per la provincia Granda hanno il loro fascino. Maestosi, un po’ scassati, pieni nelle ore di punta e deserti nel resto della giornata. Uno ogni ora, all’incirca. Sono nate e morte amicizie al loro interno, nei viaggi di ritorno a casa dalle superiori. Perennemente con l’ansia di aver dimenticato l’abbonamento, che, in realtà, viene controllato al massimo tre volte in tutto l’anno scolastico. Il timore di dimenticare lì sopra la sacca delle scarpe da ginnastica o il dizionario di latino dopo la versione in classe. Questi pullman finiscono per essere un rifugio per gli studenti, un vero e proprio momento rituale quotidiano. Insomma, sono molto più di un semplice mezzo di trasporto. E questo è molto diverso dal corrispondente tanzaniano, perché sotto l’equatore i pulmini non sono altro che un modo come un altro per arrivare più velocemente a casa, ma il mezzo di trasporto preferito restano i piedi.

*Questo articolo è stato tratto dal decimo numero del magazine di 1000miglia, scaricabile al link https://www.1000-miglia.eu/wp-content/uploads/2017/11/1000MIGLIA-MAGAZINE-NOVEMBRE-2017.pdf

Foto di Chiara Ragno e Alessia Actis