“L’importante è che ci sia meraviglia nello spettatore”. Intervista a Mago Trabük

Abracadabra? Sim Sala Bim? Bibbidi Bobbidi Bu? Macché! A noi cuneesi non servono queste formule magiche: noi abbiamo il mago Trabük con la sua magia in via di estinzione! Ebbene sì, i maghi, quelli veri, sono sempre di meno ma esistono ancora e tra i meandri della città di Dronero, ci si imbatte nella scuola di magia di Trabük che ci fa catapultare in un’altra dimensione. Alberto Del Negro, in arte Trabük, è riuscito a farsi trasportare dall’arte della magia e dal divertimento che ne segue, tanto che ora ammette di “non riuscire a smettere”. Nessuna bacchetta magica in mano, nessun cappello a punta e nessuna tunica a stelle, bensì un basco, una t-shirt e un sorriso luminoso: questo è il mago Trabük. Allora, ecco a voi la sua intervista per conoscere più da vicino un mago di oggi! Nessuna paura, non vi farà scomparire con un incantesimo!

Aggiornamento: questa intervista è stata scritta nell’estate 2018. Recentemente, Alberto Del Negro, ha deciso di ritirarsi dalla scena nonostante la magia resti il suo hobby principale. Lo ha annunciato in un post del 6 gennaio. Noi proponiamo questa intervista anche per ringraziarlo e salutarlo calorosamente.

1. Come e quando hai conosciuto il mondo della magia?
Mi è venuto a trovare a casa! Mi sono trovato un libro nella buca delle lettere in una busta senza il mittente… È stata la cosa più magica della mia vita: magia vera! Probabilmente questo libro me lo aveva regalato qualche casa editrice o qualche negozio online ma non potrò mai saperlo perché si è dimenticata di mettere il mittente! Fatto sta che il titolo del libro “Il grande libro dei maghi” di Olaf Benzinger mi ha incuriosito e anche se non mi piacevano i maghi (e non mi piacciono tuttora), l’ho letto tutto. In pratica racconta la storia della magia, dagli Egizi in avanti e l’ho trovato curioso. Così, esattamente dieci anni fa nel 2008, ho iniziato a fare dei giochetti e poi ho continuato a “torturare” amici e parenti sempre per divertimento.

2. Cosa ti piace di quest’arte?
Mi piace il pubblico. Certo, mi piace la magia e lo stupore che ne deriva, però ho scoperto qualcosa che mi affascinava di più dell’arte magica, cioè la comunicazione con il pubblico. La magia è un ingrediente, uno strumento con cui metterti davanti alla gente e farli divertire.

3. Qual è la prima magia, il primo trucco che hai imparato?
Difficile ricordarselo! Il primo trucco che ho studiato veramente è il gioco di bussolotti che è il mio preferito: è il classico gioco dei tre bicchieri o delle tre campanelle in cui si fa scomparire una pallina. Io ne faccio una versione magica dove le palline scompaiono, appaiono, si mescolano, cambiano di colore e alla fine c’è una produzione di oggetti. Mi sono sbizzarrito in questo gioco: ne ho fatte ben tre o quattro versioni che ho portato in giro nei concorsi. Tuttora ne faccio una versione stupida che chiamo “pisellaboli” e che è molto simpatica e piace al pubblico.

4. Come si impara un trucco?
Ci sono mille strumenti e modi per imparare: puoi comprare un libro di magia (esistono dal 1400, data del primo libro di magia); dagli anni ’50-’60 si sono sviluppati i circoli magici che sono dei gruppi di appassionati che si incontrano e condividono. Adesso la magia si può imparare su Youtube.
E se fallisce?
Chissenefrega! Ah, ah, ah! Mica sono un mago vero, faccio solo finta! Anche se di solito non fallisce perché c’è un bell’esercizio dietro e non improvvisi. Comunque, non si tratta di fallire il gioco: l’obiettivo non è ingannare, ma è meravigliare; sono due cose diverse poiché l’inganno deve essere scontato e se qualcuno ti scopre è il meno! L’importante è che ci sia meraviglia nello spettatore e la devi creare, l’inganno è solo la base.

5. Cosa vuol dire essere mago al giorno d’oggi?
Beh, un mago o un prestigiatore nel passato aveva un’immagine molto più forte e aveva più credito, esattamente come i sacerdoti per esempio: ricordo con quali occhi vedevo il sacerdote del paese quando ero bambino! Oggi i giovani non hanno più quell’ammirazione mista a quel timore ma sono quasi amici. Credo che rispetto alla magia, molti prestigiatori abbiano perso il loro fascino mettendosi in mostra pur non essendo in grado di fare magia vera. Dunque, per divertire il pubblico svelavano trucchi oppure rendevano la magia “clownesca” nel senso peggiore del termine, a volte anche sciatta. Oggi il mago viene visto come un maghetto, un intrattenitore da bimbi, mentre in realtà ci sono tanti prestigiatori che non sono così e che rientrano in una delle tante branche dei maghi. Purtroppo, oggi, quando la gente pensa ad un mago, pensa subito ad un mago per bambini, invece un mago può essere per adulti e anche riuscire a far pensare ed emozionare.

6. Perchè affermi che il tuo è un genere di mago “in via d’estinzione”?
È così: il mio genere di magia è veramente in via d’estinzione. Questo perché il mio genere è quello presente nel Medioevo nelle piazze, ad esempio come si vede raffigurato nei tanti quadri di Bosch, uno dei più famosi nel mondo dell’illusionismo. Si trattava di un prestigiatore che girovagava nei paesi e con pochi oggetti intratteneva il pubblico attraverso una forma di spettacolo che oggi è in via d’estinzione perché si tende a dare un tocco di tecnologia e a creare una magia che sfrutta la rete ma che di per sé non fa spettacolo. Quindi io conosco quasi tutti i maghi del mondo come me dato che sono pochi, infatti in Europa ci sono solo tre festival di magia di strada e dunque siamo sempre i soliti alla fine! Perché? Beh, forse perché è difficile: il mio genere di magia è uno dei generi più difficili poiché con poco devi fare tanto!

7. Da dove arriva il nome Trabük?
In realtà io ho rubato il nome a un signore che non lo usava non essendoci più e che ho conosciuto da bambino. Era un personaggio fantastico all’epoca: girava con un cavallo e un carretto allestito per vendere generi alimentari e altro di borgo in borgo. Partiva da Caraglio (tutti gli anziani e i meno giovani di Caraglio se lo ricordano) e ogni giorno compiva il suo giro e il sabato mattina passava davanti casa mia. Io lo aspettavo per comprare la polvere di cioccolato, per vedere le gabbie dei conigli… Quando ho iniziato a fare il prestigiatore e partecipare alle gare in giro dovevo trovarmi un nome d’arte meno serioso, così ho rivangato nel mio passato e mi è venuto in mente questo nome. Poi ho scoperto diverse cose sul nome Trabük e la più simpatica è che la radice di Trabuk è “inganno”, infatti si usa nel termine “trabocchetto” oppure nei trabucchi che sono degli strumenti per pescare basati sull’inganno. In più l’ho trovato anche su un dizionario d’epoca con tutti i vari significati basati sulla radice inganno (perfetto per me!). Inoltre, trabuc in Piemonte era un’unità di misura e non a caso quel signore a cui ho preso il nome si chiamava così: i trabuc erano dei personaggi tipo Forrest Gump, un po’ con la testa fra le nuvole e difficili da inquadrare. Ma perché si usava dire trabuc? Perché il trabuc era un’unità di misura che, quando hanno iniziato a comunicare tra i vari paesi, hanno capito che era variabile, da una parte valeva un po’ di più e dall’altra un po’ meno. Dopo che è stata soppiantata dal metro hanno continuato ad usarla per indicare un qualcosa di approssimativo: “dare una trabucà” ancora oggi si dice per dare una misura alla buona, all’incirca. Simpatico, no? Non me lo sarei aspettato quando l’ho scelto come logo (se metti due puntini sulla “u” viene uno smile!).

8. La magia ha bisogno di regole?
Domanda impegnativa! Non saprei… La magia avrebbe bisogno di regole ma in realtà non ne ha perché essendo una forma d’arte, ognuno fa quello che gli pare, come gli pare. Se invece intendi dire regole come principi magici, allora non vale quello che ho detto: ora i principi magici non sono più esplorabili, sono già stati esplorati tutti e ogni effetto si basa su quei principi che sono undici.

9. Spostiamoci sul personale. Qual è il tuo vero nome? Alberto Delnegro.
– Età? 43, quasi 44
Hai sempre fatto il mago o hai svolto altri lavori? Ho sempre fatto tutt’altro! Solo adesso faccio il mago per professione da quattro o cinque anni. Prima potavo alberi di grandi dimensioni.
Come sognavi la tua vita da bambino? Non so, non mi ricordo! Non avevo un sogno, non ho mai detto cosa volessi fare da grande… In realtà ero molto affascinato da un personaggio di Paschera San Carlo che chiamavano “l’eremita” e che non ho mai visto. Questo tipo se ne stava in una casetta vicino ad una chiesa nei boschi, era molto misterioso e io ne ero affascinato, tanto che dentro di me c’era il desiderio di vivere così appartato.
Sei sposato? Hai figli? Giacche! Sono sposato da 22 anni e ho due figli: uno di 16 anni e una di 18 ma nessuno dei due, fortunatamente, è interessato a diventare mago!
Sei credente? Se sì, come concili la religione con la magia? No, non sono credente ma non perché snobbi la religione, tutt’altro: sono sempre stato affascinato, ho un’educazione cristiana cattolica, mi piace e rispetto la religione… Però ho riflettuto troppo sulla spiritualità e la mia conclusione è che noi non abbiamo le capacità di concludere una ricerca spirituale vera, non siamo fatti per conoscere queste cose, per cui vedo tutte le religioni un po’ come delle favolette. Si dice essere agnostici: di fronte al mistero mi arrendo, non lo so ed è impossibile sapere.
Ci racconti qualche curiosità su di te? Mmm…aiutami… Beh, prima di fare il mago mi sono espresso in vari sport estremi tra cui il monociclo di montagna dove in pratica usi un monociclo come quello dei clown ma con le ruote delle mountain bike per pedalarci sopra in montagna. Bello sport, bizzarro, anche se ti rovina la salute e ho dovuto smettere di farlo seriamente.
Che progetti hai per il futuro? In realtà sono dibattuto tra lo smettere e il continuare. Il motivo per cui sono diventato prestigiatore è per spirito di ricerca anche personale; adesso non ce l’ho più e mi sto divertendo e basta… Perciò mi dico: dovrò continuare o no? Forse dovrei cercare di smettere: questo è il mio obiettivo ma non so se riesco ah, ah, ah! Per quanto riguarda altri progetti, mi piacerebbe organizzare un festival di artisti di strada a Dronero, ma è solo un’idea e prima o poi magari lo farò! Inoltre, ho messo in piedi a Dronero una scuola di magia, Blink, e sta andando molto bene, diventando il riferimento della provincia Granda per la magia. Si trova nei sotterranei di una struttura di Dronero dove abbiamo creato un teatrino di cinquanta posti e lì ci troviamo per gli spettacoli. Facciamo i corsi ogni anno per ragazzi dai 14 anni in su e adulti e proponiamo spettacoli per tutti i tipi di pubblico, specificandolo prima.

10. Oggi, con Internet e la tecnologia, è ancora possibile stupire i giovani o predominano il disincanto e la sfiducia nei confronti del mondo della magia?
Ho avuto una grandissima soddisfazione pochi mesi fa quando ho partecipato come ospite ad un evento di youtuber appassionati a Varese, dove si sono esibiti tanti ragazzi ma…brutalmente li ho fatti divertire più io! Questo perché i giovani come loro non sono abituati a fare spettacolo vero, a trovarsi in scena con cinquecento persone davanti, cosa che per me è normale e per loro no. Quindi sì, è difficile ma è super possibile stupire i giovani.

11. Credi che esista un’età in cui bisogna smettere di volare con la fantasia per diventare responsabili e maturi? Perché?
Ognuno ha la sua strada. Per esempio, io ho avuto un percorso un po’ al contrario: di solito il bighellonaggio si fa nella fase giovane, invece io sto bighellonando adesso! Da giovane mi sono “fatto un mazzo tanto”, mi sono costruito una casa e messo da parte i risparmi. Sono arrivato a trent’anni e non sapevo più cosa fare e dunque ho iniziato a divertirmi (non nel senso che sto vivendo di rendita), avendo molto più tempo libero e più spazio per lo svago. È come la favola della formica e della cicala: se uno se ne frega da giovane senza concludere niente, poi si ritrova a doversi rimboccare le maniche dopo per ottenere qualcosa. Invece io preferisco giocare d’anticipo. Faccio un esempio che mi hanno insegnato alla scuola materna: quando c’era la portata doppia alla mensa, come la bistecca con gli spinaci, e a me non piaceva la verdura, la maestra o la bidella mi dicevano di mangiare prima la cosa che non mi piaceva così dopo mi gustavo l’altra. La mia vita è stata così: mi sono impegnato faticando da giovane e adesso è tutto più in discesa!

12. Cosa vuol dire per te crescere, maturare, insomma diventare grandi?
Che domande!!! È un casino rispondere… Fammi ragionare… Forse il fatto di non dipendere da qualcuno vuol dire crescere. Magari dipende molto dal carattere: ci sono persone che tendono ad essere più materne o paterne nei confronti degli altri, e persone che al contrario sono più egoiste… Comunque gli “eterni Peter Pan” non mi piacciono perché credo che uno prima debba prendersi le responsabilità e crearsi le basi e dopo giocare. Ad esempio, prima viene la famiglia e dopo il resto. Crescere vuol dire quello, vuol dire non dover rompere le scatole a nessuno!
– E invecchiare? Invecchiare è un bel casino… Io giro le case di riposo con la scuola di magia e posso dire che si inizia ad invecchiare dai vent’anni in avanti fisicamente. Il vero vecchio che trovo nelle case di riposo è un anziano che si prepara ad andarsene e non c’è nulla da fare. La mia domanda è: quando diventi di una certa età, hai la maturità per affrontare la morte? No, mai, nel momento in cui lasci questo mondo, ti disperi perché non sai cosa c’è oltre e vai in panico. Però non ho paura di invecchiare: ci sono dei vecchi belli! Piuttosto la mia paura è quella di invecchiare male, senza più nessun interesse e nessuna voglia. Viceversa, se invecchi con molti interessi e con curiosità, è un bel invecchiare nonostante il fisico se ne vada… Ma io mi tengo in forma, eh!!! Ah, ah, ah!

13. Adesso parliamo di Cuneo.
– Cuneo è una città magica?
Allora, le città sono tutte magiche nella parte storica. Secondo me la città magica per eccellenza è Dronero: è meravigliosa ed è fiabesca, tra i suoi scorci, le sue piazzette, i suoi panorami che sono magia pura! Per questo che vorrei fare un festival lì. Cuneo anche ha qualcosa di magico e misterioso nella parte storica.
– Quali sono gli aspetti che ami e che odi della città? La parte vecchia la amo e la parte nuova la odio.
Se avessi la bacchetta magica con te, cosa cambieresti? Cosa cambierei di Cuneo…beh, io non la conosco veramente bene ed è difficile dirlo. Forse metterei a posto il faro della stazione che è storto! Ah, ah, ah! Cuneo è una bella città, molto ricca e ha una piazza, Piazza Galimberti, che è veramente stupenda, galattica, che dà l’idea di spazio.
I cuneesi credono nella magia o sono un po’ scettici? Premetto che non ho mai fatto spettacoli a Cuneo: ho girato diciotto Paesi ma mai qui…Mettiamola così: se ti devo dire se i piemontesi si divertono facilmente, allora no, faticano a divertirsi molto più di altri come i toscani, i meridionali o anche quelli dell’est. Trovo che i piemontesi non siano un gran bel pubblico, non perché non mi piacciano, semplicemente poverini loro, sono oppressi dalle preoccupazioni, dalla paura di lasciarsi andare e forse un pochino chiusi e diffidenti. Ad esempio, il cuneese è benestante, tende a mettersi in mostra, fare il “fighetto” e dunque questo tipo di persona ha paura a ridere sguaiatamente, fregarsene e lasciarsi andare.
Quali differenze hai riscontrato tra il pubblico della zona e quello estero? Più facilità nel divertirsi e fregarsene. Il pubblico più bello è quello dell’est Italia ma anche quello di una regione tedesca, la Saarland, che è una regione felice, anche se uno pensa che la Germania sia un Paese chiuso e terribile, al contrario, i tedeschi sono molto felici, sciolti e con molte voglia di divertirsi. Comunque, al primo posto ci sono sicuramente gli spagnoli. In Spagna si divertono di più e io, girandola tutta, ho notato come si divertano facilmente perché ne hanno voglia!

14. Videomessaggio

 

 

 

 

 

 

Daniele Cassioli: come il vento contrario mi ha portato in alto

“Perchè fare tutta questa fatica? Per il piacere della libertà”

“Il vento contro”, Daniele Cassioli

È una grigia mattinata di novembre. I ragazzi dell’istituto De Amicis sono seduti assonnati e distratti in una sala della Provincia. Io e le mie colleghe, alla nostra prima intervista pubblica, ci chiediamo se riusciremo a mantenere alta la loro attenzione… Ma il compito non è difficile, perché quando entra Daniele Cassioli, che sta presentando il suo libro, Il Vento contro, in giro per l’Italia, gli occhi sono tutti fissi su di lui. È un atleta e fisioterapista, non un giornalista né un insegnante, ma per tutta la mattinata riesce a catturare e incuriosire con le sue storie questi ragazzi.

Nato a Roma il 15 agosto del 1986, Daniele è ventidue volte campione del mondo nella sua disciplina, lo sci nautico.

E’ un atleta paralimpico e un fisioterapista, ma, nonostante una vita già decisamente intensa, ha deciso di riscoprirsi anche scrittore, regalandoci un libro che fa lo slalom tra le sconfitte, delusioni d’amore, successi e la scoperta dell’amicizia, quella vera.

Insomma, tra le pagine de Il vento contro conosciamo un ragazzo con una forza fuori dal comune, ma al tempo stesso incredibilmente normale.

A soli 32 anni, Daniele è stato capace di guardare oltre e rendere possibile l’impossibile. Non vede con gli occhi, ma con il cuore: cieco dalla nascita, ha dovuto cercare un modo alternativo di vedere al di là della superficie e dei pregiudizi, dei limiti e delle critiche di chi ha creduto non ce la facesse, raggiungendo traguardi al di là di ogni aspettativa, distinguendo i colori nel suo buio.  E in quel buio, la sua guida è stata lo sport. Insieme a buona dose di testardaggine e autoironia.

Conoscetelo insieme a noi!

Perché hai scelto di scrivere un libro?

Il libro parte da un’esperienza di qualche tempo fa: mi sono rotto una spalla e mi è stato imposto del tempo libero. In quel momento ho iniziato ad affiancare bambini non vedenti, mi sono reso conto di quanto poso si sappia della cecità, Ho iniziato a pensare e, quando i pensieri sono diventati troppo ingombranti per stare dentro la mia testa, ho iniziato a scrivere. Forse un po’ per gioco. Ho incontrato DeAgostini e a quel punto è nato il progetto. Con loro ho scelto come impostare la copertina, lo stampo che volevo dare al libro. E così è nato Il vento contro.

Il titolo “Il vento contro” può essere interpretato in vari modi. Sia dal punto di vista sportivo che come metafora della vita. Perchè lo hai scelto?

Il vento contro, elemento essenziale nello sci nautico è anche un qualcosa che ci può ostacolare. Per me questo ostacolo è stata la cecità. Di fronte a un limite, possiamo prendere due strade. Possiamo proiettarci in quel che non abbiamo, dimenticandoci di noi, di ciò che abbiamo. Oppure  scegliere una strada che passa attraverso sofferenze, cadute e momenti difficili. Capita a tutti di farsi domande, di chiedersi cosa sarebbe la nostra vita se fossimo più alti, più ricchi, se avessimo altri genitori. Ci proiettiamo in qualcosa che non siamo, in ciò che non abbiamo, pensiamo che, forse saremmo meglio. Ma , come nello sci nautico, la stessa aria che ci frena ci porta in alto e può diventare l’occasione della vita.

Come hai trasformato la cecità da condanna a opportunità?

E’ successo grazie allo sport. Prima ero “Daniele che non vedeva”, “Daniele che non poteva fare alcune cose”. Il bello dello sport in generale è che permette di considerare le persone per quello che sanno fare; chiaramente bisogna allenarsi. Il mio libro parte da una sconfitta, perché è bello imparare dai punti deboli. E’ il modo migliore per crescere. Con l’allenamento, quel cieco che gironzolava sull’acqua è diventato ventidue volte campione del mondo. E’ grazie alle sconfitte che sono arrivato a vincere.

 Ad oggi, se esistesse un intervento capace di darti la vista, lo faresti?

Se vedessi non sarei io, non sarei qui, non avrei scritto  questo libro. Voi sareste in classe a fare storia, quindi diciamo che conviene un po’ a tutti che io non veda (ride, mentre fa passare tra il pubblico il bracciale con la scritta in breille).

Un capitolo del libro è introdotto da una bellissima citazione di Calvino: “Alle volte qualcuno si crede incompleto, ma è soltanto giovane”. E ti chiedi, poi, cosa sia la normalità, sapendo che una risposta definitiva non c’è. Sentirsi diversi, al di là della disabilità fisica, è una sensazione comune a tutti i giovani. A distanza di anni, come spiegheresti al Daniele delle scuole superiori il tema della diversità?

Da piccolino mi sentivo un po’ diverso, me ne sono accorto a scuola. A differenza dei miei compagni, avevo i libri in breille, un “alfabeto di puntini” ed è molto più voluminoso dei libri in nero, alla fine un vostro libro da duecento pagine per me si componeva di 4 o 5 volumi. La mattina non facevo la cartella ma la carriola.

E’ difficile combattere il pregiudizio del diverso, perché fa paura, ma, grazie alla curiosità, si può sapere che dietro la diversità ci sono persone. La diversità è sempre una ricchezza.  Anche nello sport la diversità fa la forza, è alla base della formazione di un gruppo vincente basato sulle competenze di ognuno. E, poi, mi viene in mente il pulmino degli atleti paralimpici: la gente vedeva scendere prima quello in carrozzina, poi quello senza una mano, poi quello cieco… E pensava  “Ma questi qui cosa fanno, vanno a Lourdes?!?!”

Perchè consiglieresti di leggere il tuo libro?

L’idea è quella di abbattere il tabù della disabilità, di “rendere meno ripida la montagna del pregiudizio” Il mio libro parla di tante tematiche, dal dolore di una storia finita alle avventure con gli atleti durante il viaggio in Norvegia. Il bello della lettura è avere un rapporto intimo con noi stessi. E poi ci sono io per autografare le copie, non so scrivere le dediche ma il nome sì e ho anche portato una penna multicolore!

Cosa vorresti dire a questi ragazzi, magari immaginando che tra loro sia seduto il Daniele del liceo?

Tante volte, soprattutto tra i ragazzi, il problema non è la mancanza di talento, ma la paura… La paura di sbagliare, del giudizio, di mettersi in gioco, di deludere qualcuno. La paura impedisce alle persone di esprimersi. Io quando ho iniziato a sciare ho bevuto litri e litri di acqua, prima di imparare quello che so fare. Il mio allenatore diceva che se non si fanno sbagli, non si impara. Non bisogna avere paura di sbagliare.

E’ fondamentale chiedere aiuto, perché è una grande dimostrazione di forza.

Perchè hai scelto proprio lo sci nautico?

Quando io ho iniziato c’erano ancora le cabine telefoniche, nel 1995. Vent’anni fa eravamo considerati degli handicappati, non erano tanti gli sport per disabili. Io ho scelto lo sci, ma anche lo sci ha scelto me.

In quei tre secondi di salto, quando sono da solo, mi viene restituita con gli interessi quella libertà che nella vita di tutti i giorni non ho.

Ciò che colpisce del tuo romanzo, è la spontaneità con cui parli di amicizia e amore. I sentimenti sono universali, ma com’è innamorarsi quando si è ciechi?

Alcune ragazze non si sono sentite di intraprendere una relazione con un cieco. All’inizio è stata dura accettare che la persona con cui stai bene nutra dubbi sul rapporto a causa della mia disabilità. L’importante, alla fine, è volersi bene.

Come immagini il mondo?

Il mondo lo vivi. Siamo portati a pensare che tutto passi attraverso le immagini. Nel libro, c’è un passaggio in cui parlo con una mia ex del concetto del bello. Si vive l’energia di un posto, il mondo passa anche dalle esperienze. Al ritorno da un viaggio, ciascuno di noi racconterà esperienze diverse, il bello è bello perché ci emoziona e le emozioni passano attraverso tutti i sensi. Ciò che si vede non è tutto. E’ come la copertina di un libro. Non perdere la voglia di aprire il libro.

Veniamo alla domanda che più ti sarà stata posta dai vedenti: come sono i tuoi sogni?

E’ il nostro vissuto che forma i sogni. Una persona che è diventata cieca, sogna di riuscire a vedere. Così come chi ha perso una gamba sogna di camminare, di essere in piedi. Non vedere non vuol dire fare sogni diversi. Avevo gli stessi incubi di tutti i ragazzi prima della maturità, perché si sognano le emozioni, le realtà che siamo abituati a vivere.

In un’epoca in cui siamo condizionati dall’immagine, dall’apparenza, quanto conta davvero il primo sguardo?

L’immagine è tanto e fa tanto, ma spesso pensiamo che sia tutto. Dietro c’è sempre una persona, e stiamo perdendo la curiosità del conoscere gli altri. Le nostre consapevolezze sono molto più importanti dell’immagine che diamo.

Grazie a Chiara ed Eliana. E a Daniele, alla professoressa Montemurro e ai suoi splendidi ragazzi, che hanno partecipato con entusiasmo ed educazione all’intervista. Auguro a tutti loro di riuscire a sfruttare il loro vento contrario per volare in alto.

 

Intervista a Riccardo Balestra

“Dipingere è un mezzo per farti conoscere e per conoscere gente”

L’arte è tutto: da sempre è considerata una terapia, un modo di esprimersi, un appagamento per gli occhi e per l’anima… Sarà per la sua azione catartica, sarà perché l’uomo ha bisogno di bellezza, sarà perché è parte di ognuno senza distinzione, sarà perché non ha età… Ce lo dimostra Riccardo Balestra, pittore cuneese che da autodidatta ha appreso l’arte della pittura e la porta in giro con costanza e con passione.


In che modo si è avvicinato ed appassionato alla pittura?
 

Io ho cominciato per caso circa trenta anni fa quando un giorno, in mutua dal lavoro, ho deciso di dipingere: mi sono comprato una dozzina di colori e pennelli e ho iniziato. Proiettavo le diapositive di Venezia contro il muro e dipingevo. Questi miei primi quadri non li ho mai esposti e li ho tenuti.  In seguito non ho più dipinto preso dal lavoro e dalla famiglia, fino a quando sono andato in pensione e ho ripreso in mano il pennello, ho frequentato un corso di pittura a Cuneo senza ambizioni e ho visto che i miei risultati erano discreti e mi sono iscritto ad un’associazione iniziando ad esporre. In pratica sono un autodidatta in tutto e i miei quadri si evolvono a seconda del momento e delle esigenze: dai paesaggi sono passato alla figura…

 

  • L’arte per lei è un lavoro?

No, non posso considerarlo un lavoro perché se non fosse per la pensione faticherei…La mia visuale dell’arte è un po’ diversa rispetto ad altri: è una passione ma è anche un’affermazione personale. Questo perché io non mi sono mai risparmiato e ho sempre dato il massimo in ciò che faccio per arrivare a degli obiettivi e dei traguardi personali. Quindi dipingere è una tra le attività che faccio: lavoro intorno alla mia casa, al giardino, vado in montagna… Comunque dipingendo ho sempre puntato a farmi conoscere e all’affermazione: dipingere è un mezzo per farti conoscere e per conoscere gente, anche se è un mondo non facile, in cui c’è molta concorrenza.

 

  • Perché predilige la figura femminile nei suoi quadri?

Se devo essere accompagnato, voglio una donna accanto, è fisiologico! Credo che le donne e gli uomini siano uguali ma comunque ci siano delle differenze a livello di discorsi. Mi sono orientato sulla figura femminile perché mi piaceva, ma c’è stato un percorso prima che mi ha portato alla mia tecnica attuale che sta andando bene. Un conto è dipingere qualcosa e poi doverti inventare una scusa sul motivo della scelta, un altro è puntare su soggetti specifici con cui sai di andare sul sicuro. All’inizio avevo dipinto anche donne nude ma ho notato che la figura intera è più complessa e sei molto più criticabile, senza togliere il fatto che destava scalpore tra i bambini e mi dava fastidio. Allora ho dipinto solo più visi e donne o bambini in base alla collana che vado a presentare.

 

  • Sceglie modelle in carne ed ossa o è tutto frutto della sua fantasia?

Né uno, né l’altro: io scelgo figure in Internet. A volte penso che la mia sia diventata una mania, nel senso che appena vedo qualche immagine che mi interessa, sui social o sulla mail, la metto da parte e creo un archivio in base alla dimensione e al tipo di quadro. Ho uno schedario solo per paesaggi, uno per visi e così via, li metto su cd o su chiavetta per poi utilizzarli come soggetto di pittura.

 

  • Tra i grandi pittori, ha un pittore che preferisce e a cui s’ispira?

Di storia dell’arte io ne so poco e non mi appassiona. Però ho un file word in cui inserisco tutti i pittori che mi interessano, sia famosi, sia meno. L’unico pittore da cui ho preso spunto è Andy Warhol.

  • Spostiamo l’attenzione sul personale. Chi è Riccardo Balestra oltre ad un artista?

Sono un tuttofare! Sono sempre stato abbastanza autonomo e mi piace ragionare con la mia testa e non sentire il parere degli altri. Ad esempio, ho passato tre anni a lavorare per costruirmi casa mentre lavoravo, poi, una volta in pensione ho cominciato a dipingere a ad andare in montagna (ho fatto tutti i 3000m che ci sono in zona!). Ancora oggi mi dedico alle mansioni della casa che unisce me e la mia famiglia.

  • Dove vive e con chi?

Vivo a San Pietro del Gallo con mia moglie e due figli di 37 e 34 anni. Loro non dipingono, hanno provato ma non sembra faccia per loro… ma mai dire mai.

  • Quali sogni nel cassetto ci può svelare?

Ne ho pochi perché sono uno molto pratico e penso che alla mia età sia difficile averne: se si è vissuti nelle nuvole, allora si hanno ma se si è vissuti sulla terra, hai molta esperienza di vita. Se parliamo di sogni in ambito artistico, posso dire di essere arrivato al dunque, ho la strada chiusa alla mia età e continuo con la mia pittura.

  • E’ vero che si interessa molto all’astrologia e ai segni zodiacali?

Sì e no. Ho realizzato delle elaborazioni grafiche ma la mia è stata una scusa per portare avanti il discorso delle donne e per dipingere qualcosa di nuovo. Non sono esperto: se mi chiedono il mese e il segno, io non lo so! Con i quadri realizzati dei segni zodiacali ho allestito una mostra e ho scelto di abbinare un volto di un personaggio famoso femminile al segno zodiacale a cui appartiene. Comunque, anche se non sono appassionato, ne ho trovato dei riscontri positivi e ho scoperto curiosità e verità interessanti. Dovrei proprio cercare una persona esperta che sappia spiegare lo zodiaco durante una mia futura mostra e anche un bel luogo dove allestirla, devo pensarci…

  • A proposito di pittura. Quali sono i tempi e le tecniche di realizzazione?

Le tecniche sono semplici: olio su tela o olio su tavola. All’inizio preferivo la tavola perché era più facile reperirla e limitare le spese. Solitamente non guardo le ore di lavoro dall’intelaiatura all’asciugatura del quadro ma un’opera di misura 50×60 cm può richiedere circa 25 ore, però dipende…Vado a occhio!

  • Riguardo alle donne che occupano la maggior parte delle sue opere, quanto è diversa la donna oggi rispetto a quella del passato?

È una domanda che non mi sono mai posto. Ritengo mia moglie una donna del passato perché è un po’ all’antica… Riguardo alla donna moderna credo che ci sia un limite: non deve essere troppo in vista o troppo superficiale se questo vuol dire essere moderne. A me piace la donna interessante, anche non bellissima ma interessante dentro.

  • Perché esiste ancora la disparità di genere secondo lei?

La disparità esiste da una parte per colpa degli uomini ma dall’altra anche per colpa delle donne: il femminismo esagerato incentiva troppo questo discorso. Faccio l’esempio delle quote rosa: sinceramente, se una donna fa politica come tutti gli altri, senza modifiche alla legge, potrebbe essere votata lo stesso! È una forzatura! Certo, è logico che la donna ha impegni famigliari non indifferenti e fa fatica però anche l’uomo lo farebbe al posto suo. Se devo dirla tutta, c’è un tipo di donna che non mi convince molto ed è quella donna che vuole vivere sempre sopra alle righe, far festa, truccarsi sempre e che magari usa l’uomo per divertirsi e nient’altro…

  • Infine allarghiamo lo sguardo al cuneese. Cuneo è una città aperta?

Non so, ho poca esperienza però credo che a Cuneo si facciano molte cose ma non sul piano artistico ed espositivo, c’è poca organizzazione e un po’ di menefreghismo.

  • Ci indichi i pregi e i difetti del cuneese

Non sono all’altezza, dovrei fare il confronto con altri posti e io ho girato poco: la mia vita è casa- mostre locali. Del cuneese mi piace la montagna, anche altro ma non ho il tempo di godermelo.

  • Se dovesse dipingere una zona di Cuneo, quale dipingerebbe?

Non lo so, non faccio più paesaggi. Fosse stata una volta, avrei sicuramente dipinto  Viale degli Angeli. Mi piacerebbe dipingere Cuneo vista dall’alto con la Bisalta sullo sfondo, vista da Madonna dell’Olmo, così da vedere il ponte e tutto il profilo.

Intervista a Marta Bassino

“Credo che la passione nasca dal divertimento”

 

Lo sport può cambiare la vita e può diventare la vita stessa, come nel caso della “principessa delle nevi” cuneese: Marta Bassino. Una ragazza normale che ha reso lo sci la sua passione nonché il suo lavoro. Da bambina allenata dal padre, è riuscita a diventare una delle sciatrici più conosciute e promettenti sia nella zona, sia a livello internazionale, partecipando addirittura ai giochi olimpici invernali di Pyeongchang. Nonostante il successo, Marta rimane con i piedi per terra e la sua determinazione e la sua semplicità le si leggono in faccia.

Scopriamo insieme chi è Marta Bassino in questo slalom di domande e risposte!

  • Come ti senti quando scii?

Quando scio sento molte sensazioni e quella che sento di più è la sensazione di libertà che provo anche al di fuori delle gare, quando scio in campo libero. Mi piace sentire me stessa, i miei piedi, gli sci sulla neve e quella sensazione di velocità che il vento sulla faccia mi fa provare.

 

  • A che età hai iniziato? Ti ricordi ancora quel giorno?

Allora, non mi ricordo perché ho delle foto in cui avevo meno di due anni e avevo già gli sci ai piedi! Ho iniziato a sciare ad Entracque con mio papà che è maestro di sci e che ha insegnato ai miei fratelli e a me. Mi ricordo che vedevo il mio fratello maggiore sciare e volevo copiarlo e così ho iniziato. Dopo Entracque per un periodo ho sciato a Lurisia e di quegli anni ho alcuni ricordi e poi sempre a Limone.

 

  • Quante gare hai già vinto e a quante hai partecipato?

Mmm..questo non lo so! Cioè, da piccolina vincevo spesso le gare provinciali, poi man mano sono salita di livello. L’anno che ho partecipato alla Coppa Europa ho vinto a Sestriere, poi ho vinto i mondiali junior a Jasna ma ancora nessuna vittoria di coppa del mondo…

  • Ti definiscono “principessa delle nevi” per via della tua maestria sugli sci, ma pratichi altri sport?

Adesso no, perché è tutto concentrato sullo sci e sulla preparazione atletica d’estate: tra palestra, campo d’atletica per la corsa, bici e tennis. Ma non sono “altri sport”, poiché mi servono come preparazione per lo sci. Comunque da piccola ho praticato ginnastica artistica fino alla seconda media e mi ha dato le basi per gestire il mio corpo.

 

  • Parlaci di te. È’ vero che ti identifichi in Dory, il pesciolino de “Alla ricerca di Nemo”?

Ah, ah,ah! Sì, mi hanno soprannominata così perché sono un po’ smemorata: non mi ricordo tutto precisamente (vedi la domanda sul numero di gare). C’è chi sa tutto e si ricorda tutto di tutti ma io proprio no, sono un po’ sbadata ogni tanto e quando mi chiedono qualche cosa di preciso io rispondo: “Non mi ricordo!” e da lì è nato il nomignolo di Dory.

 

– Com’è stata la tua infanzia? Hai rimpianti o nostalgie?

No, sono contentissima della vita che ho fatto finora, non la cambierei per nulla al mondo, anche se spesso mi dicono che ho rinunciato a tante cose (uscite con amici…) e ho fatto sacrifici. La mia non è una vita normale, perché sto via da casa per molto tempo, però io non la cambierei mai e così è fin da bambina: ho sempre sciato come fosse un divertimento e non un obbligo. Ancora oggi mi porto dietro questa filosofia, perché credo che la passione nasca dal divertimento e poi, come nel mio caso, è diventata un lavoro sempre e comunque divertente e mai pesante.

– Come ti descriveresti, sia fisicamente che emotivamente?

Mi piaccio: sono bionda, sono una ragazza normale… Di carattere sono molto solare, di buon umore, un po’ distratta quando esce fuori la Dory che c’è in me. Sono anche timida, infatti all’inizio ho fatto molta fatica a relazionarmi con le telecamere e scappavo dai giornalisti, poi con il tempo ho imparato che se ti intervistano, ad esempio dopo una gara, vuol dire che sei andata bene ed è un buon segno!

– Se ti dico studio, scuola, cosa mi rispondi?

Ho studiato a Limone al liceo sportivo e sono molto contenta di aver scelto quella scuola e di essermi impegnata a portare avanti lo sport e lo studio. Devo dire un grazie enorme alla mia scuola che mi ha permesso di conciliare il tutto, cosa che non sarebbe possibile altrove a causa delle tante assenze, invece lì i professori mi capivano e mi lasciavano il tempo per recuperare.

Adesso non ho più intenzione di studiare poiché voglio dare il meglio con lo sci: la carriera sportiva non dura tantissimo. Tra una decina di anni, se avrò voglia, tornerò a studiare. L’unica cosa che mi sento di studiare ora è l’inglese perché mi serve molto e ho il rimpianto di non averlo studiato bene prima.

– Quali sono i tuoi punti di riferimento sia sportivi, sia personali?

Ho molti riferimenti personali di cui mi fido ciecamente, in particolar modo due: uno è Marco Giordano, il mio preparatore atletico privato che mi conosce da quando ero piccola e forse mi conosce meglio di come mi conosco io e sa come sto appena mi guarda in faccia. L’altro è Fabrizio Martin, l’allenatore di squadra che è stato il mio allenatore in comitato. Se ho dei dubbi chiedo a loro che sono le mie basi dal punto di vista sciistico e personale. Infine, non posso non dire che mio padre è il mio punto di riferimento da sempre, essendo papà e allenatore sempre disponibile.

  • Una domanda di gossip: sei fidanzata?

Sì, sono fidanzata e da poco viviamo insieme e stiamo bene.

  • Cosa hai riscontrato di diverso nella tua carriera sportiva dagli esordi fino ad oggi?

In me non è cambiato niente, sono sempre uguale. È’ cambiato un po’ l’interesse per me: se “vai forte” la gente ti segue dal punto di vista mediatico, degli sponsor…Quindi adesso io vivo di sponsor legati allo sci, ai social…

  • Ti spaventa il successo a soli 22 anni?

No. Devo dire che sono abbastanza fortunata perché mi hanno sempre insegnato a stare con i piedi per terra e quindi vivo la realtà.

  • Spesso gli atleti a livello agonistico vengono incitati ad andare oltre i propri limiti anche attraverso l’ausilio di sostanze energizzanti o droghe: è il caso del doping. Tu cosa ne pensi? Perché nel mondo dello sport è così diffuso? 

Allora, questo è un argomento interessante di cui ci sarebbe un mondo da dire. Si sa che il doping si usa nello sport: io ho letto un libro di Hamilton, gregario di Lance Armstrong che mi ha aperto un mondo sul doping. In questo libro, che altro non è che una confessione dello stesso Hamilton, si parla di ciclismo che è uno degli sport che necessita di più resistenza e quindi si fa di tutto per riuscire a gestire la fatica. Il mio sport, invece, ha una grande componente tecnica e dunque se non sai sciare, anche se fai uso di doping, non vai da nessuna parte. Tornando al libro, la cosa che mi ha colpito di più è la descrizione della fatica di accettare i propri limiti e il desiderio di andare oltre ad ogni costo. Ricordo un capitolo in cui Hamilton descrive la sensazione di essere superati durante una gara da alcuni ciclisti che sembrano avere una marcia in più. Allora inizi a chiederti cosa succede e perché…Le possibilità sono due: o smetti o ti droghi. Personalmente, io sono contro il doping anche se so che nel mio sport è presente. Forse è quasi meglio non pensarci, non farsi abbattere da quelli che sembrano più forti e continuare per la tua strada. Certo, so che il doping potrebbe cambiarmi tanto specialmente nell’allenamento, come quando in una mattina facciamo dieci giri sul ghiacciaio a più di 3000 m di altitudine: è impossibile fare i giri tutti con lo stesso tempo e la stessa velocità, mentre con il doping si fa ma non è normale…

  • Come gestisci la fatica? Qual’è la tua arma vincente?

Come gestisco la mia fatica? Beh, faticando! Ah ah ah! Continuando ad allenarmi sempre.

Riguardo a questo, il doping non mi è mai stato proposto, anche perché siamo controllati attraverso un sistema anti-doping: io devo dire ogni notte dove dormo e in qualunque momento potrebbero arrivare e farmi un controllo. Quelli che si dopano non so come facciano e fatto sta che su questo argomento c’è davvero tanto da scoprire e tanto mistero. Io cerco di non pensarci e continuo ad essere contro nonostante tutto.

  • Ora parliamo di Cuneo e del cuneese. Ti piace Cuneo?

Molto! Cuneo è bellissima, soprattutto via Roma di adesso, tutta ristrutturata!

– E Borgo San Dalmazzo?

Sì, sono contentissima di vivere a Borgo nella casa della mia famiglia. Ho sempre detto di voler vivere qui, non più in su di Borgo perché a me piace il caldo. Andavo a scuola a Limone ma per me era già troppo montagna.

Comunque sono orgogliosa di essere cuneese!

  • Con quali aggettivi descriveresti il cuneese? E i cuneesi?

Ehmm…Beh, siamo fortunatissimi a vivere qui: abbiamo la montagna a pochi passi, le Langhe a un’oretta, il mare a qualche ora di viaggio (ci vuole sempre di più con i semafori e tutto quanto…un incubo!). Nonostante tutto il cuneese è in una posizione favorevole.

I cuneesi…Credo non ci sia differenza tra i cuneesi e altri abitanti. Forse la differenza è di più per quanto riguarda il nord e il sud.

  • Sappiamo che i tuoi fans sono molti, così tanti da formare un Fan Club ufficiale. Come è nata quest’idea? Sei felice dell’affetto che dimostrano i cittadini nei tuoi confronti?

L’idea del Fan Club l’hanno creata grazie a Bruno Moncalero, l’attuale presidente del club, che è molto amico di mia zia, mentre io non lo conoscevo. Una sera ci siamo incontrati, ero piccola, prima ancora della coppa del mondo e lui mi ha colpita perché sapeva tutto di me. Ricordo che mi faceva domande sui miei tempi senza che io sapessi rispondere, invece lui sapeva veramente ogni mio tempo e ogni mia gara! Da lì è nata l’idea di creare un Fan Club che tuttora ha tanti iscritti e per me è bellissimo sapere che c’è tanta gente che mi segue, che tifa per me, che viene a vedermi gareggiare…E’ importante sentire il calore di casa!

  • Parli il dialetto?

Lo capisco ma non so molto parlarlo. Ci provo, anche perché i miei nonni parlavano in piemontese, i miei fratelli lo sanno parlare bene mentre io parlo principalmente in italiano.

 

  • Ultima domanda. E’ vero che odi farti intervistare? Dunque…ci odi?

Ah ah ah! Sì, come ho detto non amo le interviste…Ma non vi odio ah ah ah!

Intervista a Giorgio Giordanengo

“Credo che sia giusto portare le conoscenze personali agli altri e per gli altri.”

 

Questo mese si va al Polo Sud, grazie al racconto dell’esperienza intrapresa da Giorgio Giordanengo, ingegnere e ricercatore robilantese. Nel 2016 ha avuto la possibilità di trascorrere un periodo tra i ghiacci dell’Antartide, grazie ad un progetto sulla meteorologia spaziale, in compagnia di monitor, sonde, attrezzi tecnologici e…pinguini! Giorgio ci racconta il suo lavoro con passione e con un enorme sorriso ci parla della sua carriera, dell’esperienza vissuta e della sua vita. Tra le tante risate, scopriamo un mondo nuovo e rimaniamo affascinati dal suo racconto, ma soprattutto dalla modestia con cui narra, tipica di un uomo che ama il suo lavoro e che non ha paura di sperimentarsi.

 

  • A quando risale la tua passione per l’ingegneria?

Dalle elementari: mi sono sempre piaciute le materie tecniche. Ho scelto di fare l’ITIS indirizzo elettrotecnico e dopo la scelta più adeguata era quella di continuare in quell’ambito, così ho frequentato la triennale di ingegneria a Mondovì che adesso non c’è più,  poi sono andato a Torino per la specializzazione in telecomunicazione. La tesi l’ho fatta all’estero, in Canada, sulla navigazione satellitare e una volta tornato non ne volevo più sapere di studiare. Così ho iniziato a lavorare in Alenia aeronautica (aerei militari) per due anni, per poi essere richiamato al Politecnico per entrare nel mio attuale gruppo di ricerca e tuttora sono sette anni che lavoro nell’ambito dei campi elettromagnetici e delle antenne. Non solo: nel frattempo mi hanno chiesto di fare il dottorato di ricerca e così ho preso anche quello.

  • Avresti mai pensato di raggiungere livelli così alti nella tua carriera?

Non so. In realtà non ci penso mai: io inizio, intraprendo cose nuove e poi vedo come va. Diciamo che per ora sono soddisfatto, ho sempre fatto quello che mi piace fare e nonostante il lavoro sia tanto, non mi pesa, è la passione quello che serve.

  • Come è nata l’idea del progetto di ricerca che ti ha portato al Polo Sud?

È nata un po’ per scherzo (come quasi tutto!). Praticamente abbiamo partecipato a un bando del Miur con un gruppo che conoscevamo dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia di Roma che studia l’alterazione dei segnali satellitari. Così si è deciso di iniziare un progetto tramite il gruppo nazionale di ricerca in Antartide che stanzia dei soldi ogni anno per le ricerche. Io e il mio gruppo stavamo sviluppando una tecnologia per stazioni di monitoraggio generiche che fossero controllabili, consumassero poco e richiedessero l’intervento umano. Tale idea è piaciuta molto, essendo trasferibile in Antartide, dove le condizioni sarebbero state ideali. Allora abbiamo scritto il progetto nel 2014, è stato finanziato ed è stato messo in pratica nel 2016. Personalmente, sono partito di mia volontà anche perché nessuno ci voleva andare e non c’era concorrenza, allora io mi sono proposto subito!

  • Quanto è durata la permanenza?

Per quanto riguarda la permanenza ed il viaggio, sono stato circa due mesi (dal 17 novembre 2016 al 6 gennaio 2017).

Il viaggio è stato tutto sommato corto, in aereo: si va fino in Nuova Zelanda in aereo, poi si prende un altro aereo militare adatto per l’atterraggio sul ghiaccio, e si atterra direttamente sulla base in Antartide. Il ritorno è stato decisamente più lungo siccome siamo atterrati prima sulla base francese, poi in elicottero abbiamo attraversato il mare ghiacciato, per prendere poi una nave e viaggiare dieci giorni e ritornare…Questa è stata la parte più brutta!

  • Ci puoi descrivere brevemente in cosa è consistito?

Io sono andato giù per montare una stazione di monitoraggio della cosiddetta scintillazione ionosferica, cioè l’alterazione nell’atmosfera dei segnali satellitari. Quindi dovevo montare un apparato fuori dalla base, a mezzo chilometro circa, affinché funzionasse in uno spazio “remoto” mandando i dati direttamente alla base, in maniera autonoma. Questo è stato il primo obiettivo che ho realizzato affiancato ad un altro ragazzo dell’ INGV già stato al Polo sud. Noi due eravamo in totale autonomia e le nostre giornate erano abbastanza monotone: a scandirci il tempo, in mancanza della notte, era l’ora dei pasti e nel mezzo lavoravamo dal lunedì al sabato. La domenica era dedicata alla pulizia e il pomeriggio era libero tra passeggiate, relax, film, chiamate a casa con Skype. Certo, la monotonia si è fatta sentire, per il resto non ho avuto nessuna delusione, nemmeno il freddo dal momento che la temperatura di -20, -25°C era secca e non umida come da noi; comunque dovevamo restare idratati e coperti sempre.

  • Quale è il tuo più bel ricordo di questa esperienza?

Beh, forse quando ho visto i pinguini. È stato unico e impressionante, non te lo immagini finché non lo vedi dal vivo! Erano pinguini Adelia (quelli comuni e piccoli) e pinguini Imperatore.

  • Descrivici il Polo Sud con cinque aggettivi.

Freddo, immenso, unico, isolato e disabitato (per tutto l’anno ci vivono 1000 persone, ma non ne ho incontrate, gli unici sono stati piloti, soprattutto neozelandesi).

  • Spostiamo l’attenzione sul personale.
    • Dove vivi attualmente? Vivo tra Torino e Robilante. A Torino per lavoro ma cerco di tornare spesso nel mio paesino. Appena posso scappo da tutto il traffico torinese e vengo a sciare nella mia zona.
    • Sei sposato? Hai figli? No entrambe.
    • Il tuo sogno per il futuro? Il mio sogno sarebbe quello di tornare in Antartide oppure mi piacerebbe portare questa esperienza al Polo nord dove sarebbe più facile, dato che il centro di ricerca sarebbe sulle isole norvegesi: sempre isolato, ma meno dell’Antartide.
    • I tuoi pregi e i tuoi difetti? Ahahah! Sono puntiglioso, preciso, critico verso me stesso e di conseguenza verso gli altri. Sono uno che si dà da fare per tutti senza problemi. Ad esempio, adesso sto lavorando per installare il wifi per tutti a Robilante e mi sta occupando molto. Credo che sia giusto portare le conoscenze personali agli altri e per gli altri.

  • Sappiamo che hai vinto il bando internazionale sulla meteorologia spaziale, di cosa si tratta?

Era l’oggetto del progetto che abbiamo vinto e grazie al quale sono andato in Antartide. Prima ho accennato alla scintillazione ionosferica, l’analisi dell’alterazione della ionosfera che permette di condurre studi sulla meteorologia spaziale (space weather). Non è il meteo come lo intendiamo noi, ma è la previsione di come si evolverà l’atmosfera nel tempo, con previsioni anche a ungo termine. Questo perché gli effetti della scintillazione ionosferica non sono visibili sulla vita normale ma, ad esempio, al seguito di una tempesta solare si creano problemi riguardo la trasmissione dei satelliti con ripercussioni sui segnali, le telecomunicazioni e i navigatori satellitari (soprattutto in aereo). Dunque con la meteorologia spaziale si lavora specialmente sulle situazioni critiche e di sicurezza che riguardano le comunicazioni e la navigazione.

  • A proposito di meteorologia, sistemi a basso consumo, tecnologia e comunicazioni, qual è la tua opinione sull’innovazione scientifica?

Credo che si debba sempre innovare: l’innovazione scientifica è importantissima, con i suoi pro e i suoi contro. L’esempio più banale è Facebook: utilissimo, inclusivo, ti permette di riallacciare i contatti e sentire gente dall’altra parte del mondo; dall’altra c’è tutto il problema della sicurezza dei dati, basti pensare ai recenti scandali…

  • Cosa ne pensi del cambiamento climatico strettamente connesso allo sviluppo?

Premetto che io non sono un esperto di clima. Però, da ciò che ci raccontavano al Polo sud, il cambiamento climatico, specie agli estremi del globo, è palese. Infatti, rispetto a dieci anni fa, il ghiaccio è rientrato molto e lo si può vedere. Comunque, che tutto questo sia dovuto solo o in gran parte all’uomo è in discussione, poiché ci sono state fasi nella storia dove si verificarono situazioni simili. Dunque può darsi che ci sia una doppia congiuntura: da un lato il naturale processo climatico, dall’altro l’accelerazione causata dall’uomo. Sicuramente il cambiamento climatico è in atto, anche se magari non lo subiremo noi, chissà.

  • Pensi che il progresso porterà l’uomo ad avere una vita migliore?

Il progresso porta quasi sempre ad un miglioramento, poi dipende sempre dall’uso che se ne fa. La bomba atomica è l’esempio più estremo che ci mostra a che punto può arrivare il progresso se usato male: dall’uso utilissimo in medicina nucleare, all’uso micidiale in guerra.

Dal mio punto di vista il progresso serve, pensiamo ai passi avanti fatti in medicina o in biotecnologia, togliendo molte barriere. Però, se usato male, può portare all’incomunicabilità anche tra persone sedute vicine ed è assurdo! Bisogna cercare di farne un buon uso.

  • Parliamo ora di Cuneo.
    • Come giudichi la città? Cuneo è Cuneo. È una città che aspetta, è poco attrattiva rispetto ad altre più piccole ma più vive (come Saluzzo), comunque è bella e tranquilla: una città a misura d’uomo. Forse avrebbe bisogno di un po’ di…rispolvero!
    • Cosa ti piace e cosa vorresti cambiare? (Scherzando: la ztl in via Roma è bellissima, ah ah ah!!!). Bisogna cambiare un po’ l’animo dei cuneesi, far uscire di più la gente, c’è troppa chiusura. Essendo di questa zona, alla fine, mi piace stare qui e ogni volta che vado via, vorrei ritornare.
    • Cuneo è una città 2.0? Lo potrà diventare? Non lo è ma lo potrà diventare. È necessario prendere l’esempio di altre città europee e portare il meglio che c’è altrove anche dove si vive. Per questo bisogna conoscere, andare in giro, per poi copiare da Amsterdam o da Berlino quelle idee 2.0 che innovano la vita di tutti (pali della luce interconnessi ed intelligenti, così come le info meteo a disposizione di tutti, il wifi…). Serve la connettività.
    • Tra Robilante e Cuneo noti differenze e/o somiglianze? Beh, Cuneo per noi di Robilante era considerata La città. Io ho vissuto poco Cuneo ma più che una grande città mi dà l’impressione di un insieme di piccoli paesi e quartieri molto simili, anche a livello di mentalità.

 

Intervista a Chiara Gribaudo

“Impegnarsi in prima persona è un bisogno”

Febbraio 2018

Chiara Gribaudo è una donna socievole, determinata e affabile prima di essere una politica e parlamentare italiana. Prima assessore a Borgo San Dalmazzo, poi eletta alla Camera dei Deputati ed infine responsabile del Dipartimento del lavoro, Chiara non ha mai dimenticato la sua Provincia ed è fiera delle sue origini. La sua personalità spicca già da un primo sguardo: non c’è malizia in quei bellissimi occhi azzurri, ma solo tanta buona volontà e tantissima grinta. La stessa grinta che l’ha accompagnata in questi anni di successi politici e personali, tra studio, impegni, interviste e molta soddisfazione.

Chiara ama relazionarsi con le persone: ha scelto di diventare educatrice per stare a stretto contatto con loro, e perciò la politica sembra proprio la sua strada. Perché la vera politica non è fatta di urla e violenza, al contrario, non è altro che l’arte del dare la parola ai cittadini, coinvolgendo ogni singolo individuo per trovare un dialogo comune; in poche parole essere capaci di relazionarsi. Chiara Gribaudo ha dimostrato di esserne capace e la ringraziamo ancora per questa intervista.

 

  • Cosa l’ha spinta ad entrare in politica?

Direi la voglia di dare una mano per contribuire a migliorare la nostra società a partire dalle nostre piccole comunità. E’ stata la necessità di rispondere ai miei principi e mettersi a disposizione degli altri non solo con il volontariato (che reputo molto importante).

  • Se dovesse spiegare il suo lavoro da parlamentare…

E’ un lavoro complicato perché è su più livelli. Anzitutto all’interno delle commissioni, nel mio caso la commissione del Lavoro, dove si decidono gli emendamenti, gli atti, si correggono gli scritti…Ma il lavoro più faticoso è quello rispetto alla mediazione politica, alla ricerca delle alleanze al fine di ottenere risultati concreti. Inoltre c’è il lavoro d’aula. Infine il lavoro “non misurabile”, cioè quello svolto da ciascuno di noi sul territorio: essere presente sul posto, tenere relazioni con i concittadini e impegnarsi prima nel piccolo con senso di appartenenza e senso di comunità, anche se spesso non succede.

 

  • Crede che fare politica sia una passione o un dovere?

Per farla bene deve necessariamente nascere da una passione. Io ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno ispirato e permesso di crescere con valori forti e radicati, quei valori ispirati soprattutto da chi tornava dalle guerre, chi dalla Russia, chi dai venti mesi della Resistenza, da chi era sfuggito dalle guerre, chi aveva salvato la vita a chi fuggiva dalla persecuzione nazista e razzista…Insomma, coloro che mi hanno fatto capire che impegnarsi in prima persona è un bisogno. Dunque fare politica è una passione che mi ha portata a diventare rappresentante di istituto, entrare in Consulta, essere volontaria, far parte dell’ANPI, per poi candidarmi… Ma anche un dovere civico, soprattutto nei confronti dei cittadini nel momento in cui si viene eletti: bisogna avere rispetto delle istituzioni senza urlare, sbraitare o insultare; mai come oggi in politica abbiamo bisogno di avere persone che diano il buon esempio fino in fondo. Poi ricordiamoci che in realtà non esiste l’università per diventare buoni politici!

 

  • Secondo lei perché la gente pare aver perso fiducia nella politica? C’è rimedio?

Credo che la gente abbia perso fiducia quando si sono evidenziati soprattutto fenomeni di corruzione nelle istituzioni: da Tangentopoli in avanti c’è stata una profonda disillusione, altrettanto dopo il superamento delle ideologie che davano sicurezza…Ovviamente oggi viviamo in una situazione in cui i corpi intermedi sono più deboli e c’è una spinta all’individualismo molto forte (uno vale uno vuol dire che non valiamo niente!). All’interno di questo meccanismo sembra vincere chi urla più forte ed è per questo che ho deciso di stare dalla parte di chi ha meno voce, di chi soffre di più e di chi è in difficoltà (che è il compito della sinistra). Sì, penso ci sia rimedio: c’è bisogno di politica vera ed è necessario non farsi spaventare da questa disaffezione, altrimenti la politica diventa lo strumento per avanzare di carriera, che è inaccettabile, poiché non è un lavoro ma un impegno pro-tempore. Infine bisogna smetterla con la demonizzazione interna tra partiti e presentare ai cittadini progetti di qualità che permettano la creazione di rapporti di fiducia. Non è facile fare questo “salto”, immediatamente sei etichettata come di destra o di sinistra senza cercare un minimo dialogo: parliamoci! Proviamo a cercare un accordo tra idee diverse per costruire un clima sereno e dare soluzioni ai problemi della gente! Ciascuno deve fare la sua parte, altrimenti si rischia di dare il potere decisionale a chi è contrario alle nostre idee e usa la politica come fonte di guadagno.

 

  • In politica è necessario essere opportunisti o si diventa opportunisti per necessità?

Si può anche non diventare opportunisti! Certo, c’è chi lo è, però credo che l’opportunismo non sia la chiave, bensì l’ambizione che permette di ottenere i risultati a cui si ambisce. Non bisogna però esagerare con il cinismo, serve che quest’ambizione cresca dal basso, dai valori e da esperienze. E mi dispiace quando vedo intendere la politica come un casting di un talk-show: la politica è molto più seria.

 

  • Come ha scelto il partito da rappresentare (il PD)?

E’ stata una scelta che veniva da lontano: il PD incarna le tradizioni e i valori che più mi rappresentano, quelli di una sinistra attenta al sociale, cattolico-sociale e progressista, derivata anche da quello che fu il partito comunista Italiano, il cattolicesimo di sinistra da Aldo Moro a Berlinguer. Ecco questo è il mio “pantheon” di riferimento che sicuramente deve essere adattato ai tempi. Mi riconosco nelle forze progressiste e socialiste di sinistra, attente ai bisogni delle persone e non a interessi personali.

 

  • Spostiamo l’attenzione sul personale:

– Si definisce “battagliera”, per quale ragione?

Come noto, sono una testona “montagnina” che non ha mai smesso di combattere, anche in un’esperienza complicata come la XVII Legislatura (dove nessuno aveva vinto le elezioni). Devo dire con onore di aver raggiunto obiettivi davvero importanti grazie al mio essere battagliera, testona che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno.

 

– Che scuola ha frequentato?

Ho frequentato l’Istituto Bonelli di Cuneo su volere di mio padre, poi ho lavorato per un breve periodo in uno studio di commercialisti, per capire che non era la mia strada e allora ho studiato per diventare educatrice.

– Dove vive attualmente?

Domanda difficile, ah ah ah! Vivo tra Borgo san Dalmazzo e Roma, facendo avanti e indietro.

– Parla il dialetto?

Sì, parlo un mix: mia madre è della Valle Stura, mio padre è originario di Busca ma trapiantato a Borgo, sono cresciuta a Valdieri, per cui so un misto di occitano e piemontese. Infatti il dialetto varia da frazione a frazione, ad esempio, mi ricordo che a Valdieri il latte si diceva “lait” e ad Andonno “let”, e al contrario, il letto a Valdieri si chiamava “let” e ad Andonno “lait”.

-E’ sposata?

No, sono fidanzata ma sorvoliamo sulla mia vita privata.

 

-Cosa si aspetta dal futuro? Sogni, mete, ambizioni…

Intanto credo di essere già stata molto fortunata perché ho un lavoro che mi piace. Sto aspettando il prossimo concorso per insegnare: vorrei lavorare sulla disabilità come insegnante di sostegno, oppure continuerò ad occuparmi dell’ambito della cooperazione sociale. Per ora provo a farmi rieleggere in Parlamento per poter mettere a frutto le esperienze di questi anni e cercare di migliorare. Un ultimo sogno è quello di diventare mamma ma per il momento faccio la zia.

 

– Sappiamo che è molto affezionata alle nostre Alpi e alle Valli, in particolare quali zone?

Potrei parlarvi per ore! Sono molto affezionata a tre valli: la Valle Gesso, perché ci sono cresciuta; la Valle Stura perché è casa e storia da cui ho ereditato il mio essere antifascista, e la Valle Maira, dove ho affetti e legami e dove amo camminare. Se dovessi dirvi la mia zona preferita, questa andrebbe dalla Bisalta al Monviso che considero impropriamente le mie montagne. Cosa mi piace? Amo camminare appena posso e godermi la libertà di andare in montagna (infatti in macchina porto sempre con me lo zaino e gli scarponi, non si sa mai!).

 

  • In che modo è possibile avvicinare i giovani all’attività politica?

Con il buon esempio e creando momenti di confronto che sono spesso difficili, poiché si tende a sostituire gli incontri di persona con i social, invece penso invece che sia fondamentale parlarsi faccia a faccia. Poi credo che bisogna avvicinare le tematiche politiche ai giovani per suscitare interesse, magari attraverso l’associazionismo o laddove i giovani possono mettere a frutto i valori e le passioni, ma anche attraverso una visione più ampia, ad esempio impegnandosi in realtà grandi come Libera ecc…

 

  • Viviamo in una società pragmatica dove proteste, scioperi, movimenti razzisti, o peggio, neofascisti stanno prendendo sempre più piede. Perché? Come affrontare tutto questo?

E’ un fenomeno che viene da lontano e che spesso è stato sottovalutato nel corso dell’ultimo decennio. Questo crescere di fenomeni razzisti, neofascisti e talvolta xenofobi credo sia dovuto all’assenza di una corretta comunicazione: spesso vengono usati toni violenti che allontanano le persone dalla politica e fanno emergere il carattere negativo di questa. Per affrontarlo serve il giusto esempio, la capacità di punire le azioni sbagliate e chi le compie; non si deve lasciar passare il concetto per cui tutto è possibile, tutto è lecito perché tanto non c’è una punizione. Anzi, credo che quando si sbaglia si debba pagare e non dobbiamo nasconderci di fronte a coloro che compiono atti violenti e sbagliati: le regole ci sono e devono essere rispettate e applicate. Sicuramente gli strumenti repressivi sono da applicare come soluzione estrema, prima è sempre meglio fare sensibilizzazione preventiva ed educazione usando la ragione.

 

  • La democrazia è in pericolo?

Da noi direi proprio di no. Penso che la democrazia sia in difficoltà nel momento in cui l’astensionismo è alto e continua a crescere. Ricordiamoci, come ci ha insegnato Hannah Arendt, che anche i malvagi non erano stupidi, ma non avevano idee…Da questo punto di vista per una democrazia forte è bene farsi idee su quali siano le proposte politiche ed esercitare  il proprio diritto di voto; se non lo si esercita le democrazie sono a rischio, perché, se non c’è la partecipazione reale dei cittadini alle scelte democratiche, queste saranno sempre meno democratiche! È anche vero che abbiamo un sistema di voto consolidato tale per cui, onestamente, non vedo la democrazia occidentale in pericolo, più che altro è necessario ammodernarla alle esigenze che cambiano (ad esempio democratizzare la rete).

 

  • Parliamo di Cuneo e dei cuneesi:

-Cosa ne pensa della città?

Penso sia una città estremamente vivibile che si è ridata una vocazione più turistica- culturale attraverso le opere pubbliche e gli interventi nel centro storico che hanno trasformato la città in senso molto positivo: più luoghi di aggregazione, ristoranti, locali… Mi piace molto Cuneo, però capisco anche che per i più giovani non offra molte possibilità ed è un problema da anni. È più una città a misura di famiglia e di anziani (come confermano i dati Istat siamo un Paese di anziani)… Mancano gli spazi per potersi esprimere e serve uno scatto e mi auguro che, grazie al nuovo mandato dove sono presenti giovani, si possa lavorare rispetto alla realtà giovanile. Lo si è fatto nelle Langhe, a Torino, a Bra e lo si può fare anche qui!

 

-Cosa cambierebbe e cosa no?

Più che cambiare io migliorerei alcune cose. Darei più opportunità per i giovani lavorando con un’ottica transfrontaliera: abbiamo la fortuna di essere la capitale delle Alpi e il primo riferimento attraversato il confine francese. Perciò credo si debba lavorare affinché le opportunità non manchino e affinché si faccia quel salto di qualità tanto atteso: Scrittorincittà deve cambiare passo, si deve investire nella cultura, imitare le città che l’hanno fatto (Alba per esempio) e soprattutto smuovere la mentalità statica e diffidente tipica delle nostre zone che è il punto debole.

Dunque incentiverei: politiche a favore dei giovani, della cultura e di valorizzazione del territorio a livello paesaggistico, storico e enogastronomico.

Cosa non cambierei è la qualità della vita che è molto alta.

 

-Come descriverebbe i suoi abitanti?

“Muntagnin” nel bene e nel male. Ah ah ah!

 

-C’è un clima di fiducia o sfiducia rispetto alle istituzioni?

Tutto sommato qui c’è una discreta fiducia proprio perché, da buoni cuneesi, abbiamo un alto senso dello stato, del rispetto e delle istituzioni, oltre ad una buona collaborazione che permette di trovare un punto d’incontro anche laddove ci siano posizioni diverse (con le dovute eccezioni).

-Ha mai pensato di diventare sindaco di Cuneo?

Mmm…No. Forse perché non l’ho mai preso in considerazione anche se negli anni mi è stato proposto. Certo è che la dimensione amministrativa mi manca molto, però non ho mai pensato di diventare sindaco, anche se sarebbe un onore.

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