Quell’Africa misteriosa e il bisogno di salvarsi da soli

Con L’amante silenzioso, romanzo pubblicato in Italia nel 2019, l’autrice spagnola più letta ed apprezzata nel nostro Paese, Clara Sanchez, trasporta il lettore non più nella sua Spagna, ambientazione fissa di gran parte delle sue storie, bensì nell’affascinante Africa dal sole abbagliante. E ci racconta una storia piena di mistero, esotismo e suspence, che tiene il lettore incollato alle pagine fino alla fine.

La protagonista è Isabel, una giovane donna di Madrid che ha perso il fratello a causa delle vessazioni psicologiche compiute da una setta in cui il giovane si era inserito durante una grave depressione. Isabel viene ingaggiata da una famiglia molto benestante spagnola che le propone di condurre una specie di missione di salvataggio in Africa, precisamente a Mombasa, in Kenya, per tentare di far ragionare e riportare a casa il loro figlio, Ezequiel. Infatti, dopo la rottura del fidanzamento con la sua ragazza Marta, il giovane è partito per ritrovare sé stesso e si è inserito nell’Orden Humanitaria a Mombasa, una comunità da cui tuttavia non è più tornato. Dal momento della sua partenza non ha più fatto sapere nulla di sé.

La motivazione che spinge Isabel ad affrontare una missione del genere potrebbe sembrare forse un po’ debole per dare input alla vicenda: il fatto di poter in qualche modo, con questo viaggio, salvare l’anima di suo fratello ed alleviare quel senso di colpa che la attanaglia dalla sua morte. È anche vero, però, che la ragazza probabilmente parte per un atto di altruismo ed egoismo allo stesso tempo: salvando qualcun altro, libera anche sé stessa. «Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno». Così recita il frontespizio del romanzo: bellissima citazione da Lavorare stanca di Cesare Pavese.

E quindi Isabel parte, fingendosi una fotografa di livello internazionale che deve fare un reportage in Africa, travestendosi da clone di Marta, per far sì che in Ezequiel si risvegli qualcosa e che il ragazzo possa rinsavire. Ben presto Isabel scopre che il giovane è diventato un affiliato molto intimo di quella che si può definire in tutti i sensi una setta, a capo della quale incombe Maína, un personaggio che la Sanchez ha saputo rendere estremamente intrigante. Manipolatore e approfittatore, Maína ha saputo creare attorno a sé un circolo di persone disperate come Ezequiel, dei relitti distrutti dalla vita, approdati in Africa in cerca di salvezza. Ha fatto loro il lavaggio del cervello e ora li costringe a vivere secondo le sue regole che comprendono il totale e netto distacco con la vita passata. I ragazzi dell’Orden Humanitaria credono veramente di essere totalmente liberi da qualsiasi vincolo che li possa ancora legare alla vita terrena e metropolitana quando invece sono totalmente succubi di questo loro capo che considerano alla stregua di un dio sceso in terra, un modello esemplare e irraggiungibile. La Sanchez ha delineato con chiarezza il fortissimo condizionamento psicologico che si innesta in questi casi, ben osservato dal punto di vista di un personaggio esterno come Isabel, che pian piano entra a far parte del gruppo. Per questi ragazzi dell’Orden tutta la vita ruota attorno a Maína e l’unica cosa che davvero conta è compiacerlo e seguire le sue regole, ripetute spesso come mantra tra le mura di questa casa-comunità in cui Maína svolge anche pratiche rituali con i suoi adepti.

Man mano che la storia procede, Isabel deve affrontare diverse prove che mettono anche a rischio la sua incolumità, senza sapere che si sta inserendo in qualcosa di molto più nascosto e molto più insidioso che un semplice salvataggio di un ragazzo spagnolo. Ezequiel infatti ad un certo punto viene rapito, probabilmente da alcuni terroristi, ma il suo rapimento sarà solo l’ombra di un progetto ben più vasto che Isabel riuscirà a smascherare grazie anche all’aiuto di un personaggio altrettanto misterioso, Said.

In un paesaggio tipicamente africano, tra hotel di lusso e villaggi poverissimi, in una natura benigna e maligna nello stesso momento ma sempre lussureggiante, si snoda una storia che è costruita dalla Sanchez in modo da essere sempre avvincente, andando a sondare gli oscuri anfratti della manipolazione mentale, senza che il lettore possa comprendere, fino alla fine, quali siano veramente i buoni e quali i cattivi. Tutto è incerto e non ci si può fidare veramente di nessuno: bisogna, ancora una volta, salvarsi da soli.

Il lunghissimo e inquieto sabato di McEwan

Per leggere “Sabato” di Ian McEwan bisogna tornare indietro di diciassette anni, in quel lontano 2003 in cui a Londra il governo Blair stava per appoggiare l’invasione americana dell’Iraq, a seguito dell’attentato dell’11 settembre 2001. Bisogna entrare in quello spirito, in quella dimensione di attesa e di angoscia. Quando si è sull’orlo del precipizio, e si sta a vedere se questa volta il mondo cadrà per mano dell’uomo o meno. E chi forse meglio di noi come siamo adesso, in una situazione così incerta e oscillante, in attesa di un possibile ritorno di un virus letale che devasterebbe di nuovo la vita di chiunque, potrebbe comprendere meglio questo romanzo, che diventa dunque così terribilmente moderno?

“Sabato” si snoda lungo un’unica lunga giornata. Henry Perowne, neurochirurgo londinese di una certa fama, si aspetta di passare un normale sabato di riposo dal lavoro, ma tutto prende una piega diversa quando si sveglia in piena notte in preda ad una strana euforia e vede per puro caso un aereo in fiamme nel cielo di Londra. Questa immagine funesta lo accompagnerà per il resto della giornata. Da quel momento, la sensazione di un’imminente catastrofe che possa devastare non solo la città, ma anche la sua famiglia, pervade Henry fino alla fine. Tuttavia, il protagonista non ha nulla da temere: ha un bel lavoro, una casa lussuosa, una moglie in carriera e dei figli fantastici che lo rendono un padre orgoglioso. Si prospetta per di più una serata festosa, in quanto dopo sei mesi di assenza torna a casa la figlia Daisy, che sta per pubblicare il suo primo libro di poesie. Tutto sembra prevedere una giornata tranquilla: Henry giocherà a squash con il suo collega, come ogni sabato mattina; nel pomeriggio passerà a trovare la madre malata in casa di riposo, poi farà un salto ad ascoltare il figlio, chitarrista di un gruppo blues, ed infine cucinerà la cena, aspettando tutti i parenti, compreso il suocero, per trascorrere la serata assieme. Eppure, la notizia dell’incidente aereo che rimbomba nei telegiornali, oltre a quella del corteo di protesta contro l’appoggio inglese all’invasione americana dell’Iraq che si svolge proprio quella mattina in città, invadono con forza la vita privata del protagonista. Tra l’altro, Henry si comporta in modo ambivalente con le notizie dal mondo esterno: da una parte è avido di sapere assolutamente quale fine abbia fatto l’aereo in fiamme che ha visto durante la notte, e si scalda in una discussione con la figlia Daisy prima di cena riguardo all’imminente guerra; dall’altra, non vuole rimanere schiavo dell’informazione e delle news, e quindi tenta comunque di trascorrere una giornata tranquilla. Ogni sua singola azione, però, viene intervallata da continue e profonde riflessioni che spaziano dai ricordi della sua vita e dei suoi affetti, alle considerazioni sull’attualità e alla presa di coscienza dei suoi stati d’animo.

Non è un caso che il primo grosso intoppo della giornata capiti proprio a causa del corteo cittadino: è il segnale di come gli eventi pubblici entrino prepotentemente nella sfera privata del protagonista, per rivoluzionarla del tutto. Henry infatti ha un incidente con l’auto mentre si sta recando alla solita partita di squash, e pur avendolo risolto per le sue competenze da medico, non si sente per niente tranquillo, anzi, ha paura di una possibile vendetta del tizio poco raccomandabile con cui ha dovuto avere a che fare (vendetta che infatti verrà attuata nella serata).

Senza dubbio, “Sabato” racconta una storia molto lenta, con poca azione e pochi colpi di scena. Con una precisione assoluta anche per argomenti molto settoriali e con un amore spassionato per il dettaglio, McEwan riesce comunque a tenere viva l’attenzione del lettore fino alla fine, e anzi, gli fa sviluppare anche inconsapevolmente una trepidante attesa per la serata del sabato, che d’altronde rappresenta il climax di tutta la narrazione. Sarà in quel momento che il protagonista saprà rimediare al danno fatto in mattinata e, mosso da pietà e compassione, riuscirà a compiere il suo dovere di medico fino in fondo. Per McEwan, Henry Perowne è un simbolo: il simbolo dell’uomo affermato e in carriera del nuovo millennio, che possiede tutto ciò che un essere umano potrebbe desiderare. Nello stesso tempo però ha il terrore, recondito ma non troppo, che tutto gli possa venire improvvisamente tolto per questioni che esulano dal suo diretto controllo, poiché davanti a queste è assolutamente inerme, un semplice spettatore. Eppure, anche se in una sola giornata si sono susseguite diverse peripezie capaci di modificare un’intera esistenza, alla fine ciò che conta è che anche questo sabato si sia concluso: “e alla fine, in caduta lieve: questo giorno è passato”. E il domani può cominciare.

Quegli eroi bugiardi chiamati adulti

“Bugie, bugie, gli adulti le vietano e intanto ne dicono tante”. Questi i pensieri della giovanissima Giovanna, protagonista dell’ultimo romanzo di Elena Ferrante, “La vita bugiarda degli adulti”, pubblicato nel 2019.

La Ferrante, scrittrice che ancora latita nell’ombra, anche in questa storia sceglie come ambientazione la sua cara Napoli: una Napoli ben diversa, tuttavia, da quella che i suoi lettori hanno imparato a conoscere con la quadrilogia de “L’amica geniale”. Infatti, se lì prendevano vita i quartieri più degradati e poveri della Napoli degli anni Cinquanta e Sessanta, ora lo sguardo si amplia e si sposta al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Un quartiere per bene, dove vivono famiglie agiate: e in effetti, i genitori di Giovanna appartengono alla Napoli intellettuale. Entrambi professori di liceo, menti finissime, lavoratori assidui e pensatori un po’ troppo inquadrati nelle loro idee. I due sono fermamente convinti che nella vita l’unica cosa che conta davvero è studiare, e quindi inculcano nella figlia una certa severità e costanza nello studio. Giovanna cresce con l’idea che i genitori siano persone perfette, modelli unici da seguire in tutto e per tutto: innamorati da sempre, devoti uno all’altra, e tremendamente intelligenti (soprattutto il padre, per il quale la figlia mostra una devozione senza limiti). Quando inizia la vicenda, Giovanna ha dodici anni, si sta affacciando all’adolescenza e sta vivendo un momento difficile e delicato. Il lettore la osserva mentre a poco a poco conosce la propria personalità e ne prende coscienza, mettendosi anche a confronto con il proprio corpo che cambia.

Tutte le poche certezze che Giovanna possiede in questo periodo crollano quando all’improvviso ascolta per sbaglio una conversazione tra i suoi genitori, e il padre si lascia sfuggire che la figlia sta diventando più brutta e anzi, sta “facendo la faccia di Vittoria”. Vittoria, il lettore lo viene a sapere subito dopo, è la pecora nera della famiglia: una zia che Giovanna ha conosciuto solamente attraverso le parole dei genitori, che l’hanno sempre dipinta come una persona spregevole, maligna e molto brutta. Dopo questa dichiarazione così terribile, la protagonista non sa darsi pace, perché ha il terrore di aver deluso i genitori e, soprattutto, teme di diventare una brutta persona. L’unica soluzione che ritiene valida per placare la sua angoscia è quella di andare a trovare sua zia, e di vederla in faccia, finalmente.

L’incontro con Vittoria è decisivo per Giovanna. Per la prima volta, la ragazzina conosce un mondo adulto che va ben al di là di quello dei suoi genitori e degli amici dei suoi: Vittoria è brutta ma è anche bellissima, è volgare ma allo stesso tempo molto affettuosa, è molto diretta e senza peli sulla lingua, e infine è passionale ed energica in qualsiasi cosa faccia. Ma soprattutto, Vittoria apre gli occhi a Giovanna. La zia ha molto da raccontare; le espone la sua versione dei fatti in famiglia, e consiglia alla nipotina di ampliare il suo sguardo, e scavare a fondo nelle vite dei suoi affetti più cari. E così, in poco tempo, Giovanna non riesce più a fare a meno di Vittoria: deve vederla sempre più spesso, nonostante la ritrosia dei genitori. Ben presto, la protagonista scopre la seconda vita di entrambi, la loro “vita bugiarda”, appunto. L’immagine dei suoi infallibili genitori che Giovanna si era costruita anno dopo anno crolla come un castello di carte. Il suo sguardo sulla vita diventa estremamente più profondo, e molto più maturo rispetto ai suoi tredici anni di età: è già uno sguardo da adulta che è stata sopraffatta dalla vita, una volta che ha compreso i meccanismi e gli ingranaggi che muovono le cose e le persone. Lei stessa inizia a comportarsi in modo diverso, proprio come se dovesse dimostrare a qualcuno che non per forza deve diventare come mamma e papà hanno sempre voluto. Giovanna scopre così lati del suo carattere che non conosceva, impara a gestire le voglie dei maschi, e passa a osservare ed imitare altri modelli, altre persone che entrano nella sua vita, più o meno per caso.

Quando si avvicina alla conclusione, trainato dalla prosa sempre conturbante e molto espressiva della Ferrante, il lettore, forse abituato ai romanzi fiume della quadrilogia de “L’amica geniale”, si aspetta una prosecuzione della storia. Invece la protagonista, proprio alla fine della vicenda, compie un rito di passaggio, un atto fondamentale per entrare davvero nella vita adulta. Ed è proprio lì che il lettore la perde: l’innocenza dell’infanzia e dell’adolescenza è scomparsa. Giovanna non ha più ragione di esistere tra le pagine di un romanzo, è diventata esattamente come tutti gli adulti bugiardi.

Casa, la gabbia dorata dove adesso si impara a stare da soli

«È peggio della guerra». Spesso negli ultimi giorni si è sentita ripetere questa frase, nei commenti del popolo italiano sui social network riguardanti la dura battaglia contro il Coronavirus che il nostro Paese sta combattendo. E perché sarebbe peggio della guerra? Cosa ci sarebbe di così diverso rispetto ad una guerra vera, con eserciti ed armi e bombardamenti?

Riprendo una considerazione che ha fatto il filosofo Umberto Galimberti in un interessante video pubblicato su Youtube ( https://www.youtube.com/watch?v=-OMKYw-XaGg ). La guerra come la conosciamo noi, come l’abbiamo studiata, è qualcosa di visibile, di concreto. La guerra suscita paura: una paura reale per qualcosa che si conosce bene e che si sa che porta solo morte e distruzione. Ma l’angoscia è una sensazione peggiore della paura: dice Galimberti che l’angoscia nasce invece per qualcosa che non si conosce, qualcosa di invisibile, e che proprio per il suo essere invisibile è ancora più terribile. L’angoscia induce spesso ad azioni irrazionali, dettate dal puro terrore. E in questo senso non possono non venire in mente tutti quei gesti degli Italiani di poco tempo fa che sono sembrati decisamente sconclusionati: l’assalto ai treni notturni, la corsa ai supermercati per il terrore che potessero chiudere da un momento all’altro…Quando il nemico è sconosciuto, l’uomo perde la testa.
E quindi, è necessario mantenere la lucidità quanto più possibile. Informarsi bene, non farsi prendere dal panico per una notizia un po’ più scioccante, leggere sempre tra le righe. In questi giorni, oramai si sa, l’invito primario è quello di stare a casa. «Come state, ragazzi?» ho chiesto l’altro giorno ai miei alunni in videoconferenza. Mi hanno risposto, con tono ironico: «Prof, sembra di stare agli arresti domiciliari». Ho spiegato loro che bisogna avere pazienza ancora per un po’, ma purtroppo non ho saputo dare loro informazioni certe su quando avrebbe riaperto la scuola, che manca molto a tutti, anche a noi professori. Eh sì, dobbiamo sentirci tutti un po’ prigionieri; ma in senso positivo. Innanzitutto, ci troviamo in una gabbia dorata, in cui possiamo avere qualsiasi diversivo subito a portata di mano. Fortunatamente, abbiamo la tecnologia dalla nostra parte, che non ci lascia mai da soli, se glielo permettiamo. A mio parere, tuttavia, in questi giorni è giusto stare un po’ da soli con se stessi, finalmente. Dopo la frenesia di tanti giorni tutti uguali che ci sono scivolati dalle dita senza che ce ne rendessimo conto, ora, non per volontà nostra, abbiamo tirato il freno a mano.

Chissà se questa nuova condizione di stasi, di routine azzerata, di silenzio, di vuoto (consiglio a riguardo un bellissimo articolo di Luca Molinari su Doppiozero, dal titolo «Il rumore del vuoto»: https://www.doppiozero.com/materiali/il-rumore-del-vuoto ) ci consentirà di fermarci davvero, di chiudere gli occhi e sentire come stiamo dentro. Staccarci un po’ dai social network, ricominciare a respirare. Fare alcune domande a noi stessi: chi siamo, se siamo contenti della nostra vita, se ci piacerebbe cambiare qualcosa. Non c’è occasione migliore come quella che ci capita adesso per rallentare e renderci conto che stiamo vivendo. Non potremo che ripartire molto più consapevoli di noi stessi, e soprattutto, quando tutto questo sarà finito, saremo in grado di apprezzare molto di più la nostra vita, e tutto quello che la circonda.

Se Achille è deforme e Ulisse non sa più scrivere

Se si prende voglia di rispolverare un po’ di epicità ma in chiave moderna e comica, non c’è libro migliore di Achille piè veloce, romanzo pubblicato da Stefano Benni nel 2003. Premettendo che chi scrive era totalmente digiuna di opere di Benni, il fatto di aver iniziato a leggere la sua produzione con questo volume è stato un gesto che si è poi rivelato furbo, anche perché Achille piè veloce divenne velocemente un best-seller in Italia, e fu poi tradotto in diverse lingue.

Ulisse Isolani è il protagonista del romanzo: già il suo nome la dice lunga sul tipo di personaggio che pian piano si andrà a conoscere. Lavora nella casa editrice Forge, che è oramai verso il fallimento, e di mestiere legge i dattiloscritti (o «scrittodattili», come li chiama lui) degli scrittori in erba, giovani e meno giovani, che tentano il successo. Ulisse è scrittore anche lui, ma, dopo aver pubblicato un primo romanzo, non è più riuscito a scrivere nulla, perché gli manca sempre l’ispirazione. Ulisse inoltre, esattamente come l’Odisseo omerico, è «polutropos»: dall’ingegno multiforme e versatile. È un uomo del nostro secolo, che sa destreggiarsi in vari problemi della quotidianità grazie alla sua proverbiale abilità oratoria e grazie anche ad un po’ di fortuna. Tuttavia, spesso si addormenta nei luoghi più improbabili della grigia e anonima metropoli in cui vive, che viene però trasformata da Benni in un paesaggio epico, pieno di insidie e avventure. Il protagonista è anche poligamo, proprio come l’eroe dell’Odissea: alterna la sua vita amorosa tra una fidanzata di origini sudamericane che ama profondamente, Pilar, spesso soprannominata Penelope, e un’amante occasionale, la sua provocante collega Circe.
Fin dall’inizio, non appena il lettore si immerge nella prosa avvolgente di Benni, ha la sensazione di leggere un poema epico, ma in chiave molto moderna; ed è forse questo aspetto che rende particolarmente affascinante il volume. Si intuisce d’altronde come sia i personaggi, sia le modalità della narrazione ricordino molto chiaramente lo stile epico, pur con evidenti e spesso comiche differenze. Ad esempio, la vita di Ulisse subisce una svolta quando conosce Achille, il quale però è ben lontano dal suo corrispettivo personaggio epico. Achille, anziché essere «kalòs kai agathòs», ossia bello e valoroso, è brutto e deforme, costretto su una carrozzina elettrica da una malattia contratta alla nascita (tra l’altro la carrozzina, a rigor di logica, è della marca Xanto, nome di uno dei cavalli immortali dell’eroe omerico). Il ragazzo resta rinchiuso in una casa molto grande all’interno di un palazzo antico, in cui abitano anche la madre e il fratello Febo, uomo di successo e pronto ad entrare in politica, che sopporta a fatica la presenza del fratello malato.
Achille riesce ad incuriosire Ulisse con una lettera molto eloquente, e così il protagonista si reca a casa del ragazzo. I due iniziano presto a frequentarsi e ad instaurare un rapporto di amicizia, molto strano, in quanto ovviamente Achille e Ulisse sono estremamente diversi, ma anche molto profondo. Il legame che si crea è dettato soprattutto dalla profonda passione di entrambi per il racconto e la scrittura. Infatti Achille (che non riesce quasi più a parlare a causa della sua malattia, e comunica con l’amico attraverso un computer) inizia a scrivere al posto di Ulisse, e racconta la vita del protagonista, rivisitandola completamente, spesso in modo comico. Il romanzo di Benni prosegue poi alternando gli incontri tra i due, sempre in casa di Achille, e le vicissitudini di Ulisse come uomo moderno nella metropoli, alle prese con il permesso di soggiorno di Pilar e i vari problemi nella casa editrice sull’orlo del fallimento.

Senza svelare nulla della conclusione, il rapporto tra Achille e Ulisse, simbolo di un’amicizia senza pudori e senza barriere, è in continuo climax durante il susseguirsi della storia, e finirà in modo malinconico e delicato, grazie ad un gesto generoso di Achille, che permetterà ad Ulisse di spiegare finalmente le ali verso la felicità e la libertà di scrittura, sempre «con la spada di una matita».

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