Le ricchezze di Stefano Benni: amore, natura e letteratura

Un romanzo d’altri tempi, quello scritto da Stefano Benni nel 2012 e intitolato Di tutte le ricchezze

Come è d’altri tempi il protagonista, un certo Martin B., professore universitario settantenne in pensione, ancora molto stimato nel suo ambiente, che ha mollato tutto e tutti per ritirarsi nella solitudine della vecchiaia in una casa isolata al di fuori del piccolo paese di Borgoconio, sull’Appennino.

Martin è l’unico studioso dell’opera di Domenico Rispoli, detto Il Catena, un poeta naïf morto in manicomio, che ha scritto numerose poesie leggibili all’inizio di ogni capitolo del romanzo, intervallate alla narrazione vera e propria; questi componimenti rivelano la sua pazzia, ma allo stesso tempo la sua profonda genialità.

Tuttavia, il professore non è completamente solo: con lui c’è il suo fedele compagno Ombra, un grosso cane nero, e poi ci sono tutti gli animali del bosco (il gufo, la capra, la volpe, il tasso) con cui il professore intrattiene discussioni filosofiche a fine giornata. Le telefonate di Umberto, suo figlio che abita lontano, e le visite di alcuni amici, sia recenti sia di vecchia data, riescono ad allietare le piatte giornate del protagonista.

La rottura di questo equilibrio iniziale avviene quando, nella casa azzurra di fronte a quella del professore, disabitata da tempo, arriva una giovane coppia proveniente dalla città: lui è un pittore e un gallerista, lei una ballerina e attrice. Entrambi sono fuggiti dal caos della metropoli per ritrovare l’ispirazione. Presto il professore li conosce e li soprannomina Il Torvo e La Principessa del grano (per via dei capelli biondi della giovane donna, che ricordano a Martin un antico amore perduto).

La vita del protagonista viene dunque scombussolata in vari modi, dal momento che i tre personaggi diventano sempre più intimi, fino a quando emergeranno ricordi dolorosi del passato, litigi e inevitabili separazioni, che porteranno Martin a riflettere sul suo presente, ma soprattutto sulle scelte del suo passato.

Questo è senza dubbio un romanzo che parla della solitudine, e nello specifico quella di un anziano che, per diversi motivi, ha scelto di vivere da solo. Questa condizione viene messa in mostra con una luce tutt’altro che negativa, anche se si evidenziano le varie ombre che inevitabilmente compaiono di giorno in giorno. Nello stesso tempo, la ventata di novità e giovinezza portata dalla coppia metropolitana riempie e arricchisce la vita del professore, facendogli rivivere sentimenti non più provati da tempo. 

È anche un romanzo che parla di letteratura: frequenti sono i riferimenti letterari (ad esempio, ci sono alcuni rimandi a Le notti bianche di Dostoevskij), e  il volume stesso è una sorta di mélange tra prosa, poesia e teatro, dal momento che oltre alla storia compaiono le meravigliose poesie del Catena e alcune scene vengono raccontate dall’autore sotto forma di copione teatrale.

Dunque solitudine, letteratura, e amore, tantissimo amore: per la natura e i suoi animali, per la cultura, e per la bellezza delle piccole cose della vita, anche nella vecchiaia. 

La sfortunata Stella Fortuna: quando erano gli italiani ad emigrare in America

Negli ultimi anni sul mercato editoriale hanno avuto e stanno avendo particolare successo alcune saghe familiari; si pensi ad esempio ai libri dell’italiana Stefania Auci, che spicca per la celebre Saga dei Florio. Sono saghe che raccontano di generazioni e generazioni di una famiglia, spesso povera, che cresce e matura nel tempo. Leggendo questi volumi si sente l’eco di alcuni grandi classici del passato, forse de I Viceré di De Roberto (anche se in quel caso si trattava di una famiglia nobile), ma anche dei libri di Isabel Allende.

Proprio il realismo magico della Allende si ritrova nelle pagine del romanzo d’esordio di Juliet Grames, che si situa in questo filone: Storia di Stella Fortuna che morì sette o forse otto volte, pubblicato in Italia da HarperCollins. La scrittrice è italo-americana, vive in Connecticut e si è documentata con precisione recandosi di persona in Calabria, a Ievoli, prima di narrare la bellissima epopea della famiglia Fortuna.

Ma procediamo con calma: l’arco cronologico della vicenda è alquanto ampio, perché va dai primi anni del secolo scorso fin quasi ai giorni nostri. La prima parte del romanzo è ambientata nella Calabria del primo Novecento, e in particolare in un paese sperduto in cima alle colline di nome Ievoli, dove i compaesani sono poverissimi, si conoscono tutti e si sposano tra cugini. 

La protagonista è una famiglia, quella dei Fortuna, creata da Assunta e Antonio, detto Tonnon e poi Tony. Dal loro matrimonio per niente felice nasceranno comunque quattro figli, due femmine e due maschi: Maria Stella detta Stella, Concettina detta Cettina, Giuseppe e Luigi. Antonio abbandona molto presto la famiglia per andare a cercare fortuna in America, lasciando Assunta da sola con quattro figli piccoli, senza nessun aiuto economico. 

Stella e Concettina sono le vere eroine di questa storia, dato che l’autrice esamina nel dettaglio il loro percorso di crescita, dalla più tenera infanzia alla vecchiaia. Il legame affettuoso tra le due sorelle si mantiene forte e solido per gran parte della loro vita: hanno pochissima differenza di età, sono due ragazze bellissime, gran lavoratrici e invidiate da tutta Ievoli, oltre che fortemente corteggiate. Stella tuttavia è particolarmente sfortunata, forse preda del malocchio, perché fin dall’infanzia è sopravvissuta a numerosi incidenti che l’hanno quasi uccisa (da qui il titolo del romanzo). 

La Grames si sofferma molto nel delineare la condizione della donna nella società del Sud Italia di quel periodo: senza voce in capitolo su ciò che riguarda la sua vita, viene data in sposa giovanissima con un matrimonio di pura convenienza ed è costretta a fare figli esaudendo tutti i desideri del marito-padrone. 

Tutto cambia quando, a ridosso dell’entrata in guerra dell’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, la famiglia Fortuna raggiunge Antonio in America, precisamente ad Hartford, nel Connecticut. L’America è tanto diversa da Ievoli, e i Fortuna vivranno anni estremamente difficili; poverissimi, ridotti a fare lavori faticosi e sottopagati, diventano “stranieri ostili” nel momento in cui anche gli Stati Uniti entrano in guerra. È impossibile non pensare all’evidente somiglianza dei Fortuna e dei loro simili con gli immigrati di oggi, che giungono in Italia nella stessa loro condizione ad inizio del secolo scorso. In America le sorelle Fortuna saranno alle prese con usi e costumi completamente nuovi, con più libertà e frivolezze, tra corteggiamenti, matrimoni, lavoro e figli.

Estremamente interessante è il modo con cui l’autrice tratteggia la personalità di Stella, che è totalmente opposta a quella delle ragazze e donne della sua età: Stella appare agli occhi degli altri come un’aberrazione, come una ragazza troppo cocciuta che andrebbe domata, ma in realtà rappresenta la donna indipendente, che non vuole sposarsi né avere figli, che vuole andare a vivere da sola, lontana dalla sua famiglia, per costruirsi la sua vita. La protagonista rappresenta un barlume di modernità in una società ancora estremamente ottusa, radicata negli ideali antichi dell’Italia del Sud, portati anche oltreoceano. 

Riuscirà Stella a imporre la sua personalità e la sua intraprendenza o dovrà, ancora una volta e per sempre, sottomettersi alla sua famiglia?

Storia di Stella Fortuna è un libro brillante, una sorta di grande documentario romanzato, che narra la storia di una famiglia più unita che mai, nonostante tutti i dissapori e i litigi. E alla fine si resta commossi, come spesso accade quando si concludono quelle grandi epopee che raccontano il trascorrere del tempo, il quale, lento e inesorabile, solca le linee degli alberi genealogici.

 

Arianna abbandonata e l’amore che fa male

L’isola dell’abbandono, libro di Chiara Gamberale pubblicato nel 2019, si apre con una dedica: “a chi resta”.

E questa fa sorridere una volta che si conclude questo intenso romanzo psicologico che parla prevalentemente della paura di essere abbandonati.

Secondo la versione più accreditata del mito di Teseo e Arianna, si racconta che Teseo, figlio di Egeo, re di Atene, riuscì a sconfiggere e uccidere il Minotauro solo grazie all’aiuto di Arianna, la figlia del re di Creta, Minosse. La fanciulla, innamorata di Teseo, gli aveva strappato la promessa di portarla via con sé, in cambio di un filo da dipanare lungo il labirinto dove era rinchiuso il Minotauro in modo che l’eroe ne uscisse sano e salvo. Tuttavia Teseo, una volta compiuta l’impresa, non rispettò la promessa e quando giunse con le sue navi sull’isola di Nasso per far rifornimento, abbandonò Arianna sulla spiaggia mentre dormiva. Ad oggi si crede che l’espressione “piantare qualcuno in asso” – nel senso di abbandonare qualcuno – derivi proprio da qui: la formula “in Nasso” si sarebbe trasformata, per semplificazione fonetica, nell’attuale “in asso”. 

Questo mito è il fulcro del romanzo stesso, perché Arianna, la nostra protagonista, verrà davvero abbandonata dal suo grande amore sull’isola greca di Naxos.

Ma procediamo con ordine: Arianna è diventata da poco madre di Emanuele, ed è, per ora, single (o gengle, cioè “genitore single”). Ha scelto di non continuare la sua storia con Damiano, padre di suo figlio e psicoterapeuta molto più vecchio di lei, e decide di scrivere ad Emanuele una lunga lettera in cui gli racconta tutto quello che è successo nella vita di sua madre prima del suo arrivo. Il romanzo non è però, come potrebbe sembrare all’inizio, una riflessione sulla maternità (tema comunque rilevante ma che viene affrontato lateralmente, all’inizio e alla fine della storia) ma è una lunga e profonda analisi di un amore sconfinato e totale, ma letale, dipendente e tossico.

Si torna, quindi, indietro nel tempo e si scopre che Arianna è stata fidanzata per anni con Stefano, un giovane architetto che soffre di una forma abbastanza grave di bipolarismo e che non è in grado di tenere sotto controllo la sua vita. Arianna vive gli alti e bassi del fidanzato come se fossero suoi, gli fa “da madre”, annullando completamente la sua personalità per adeguarsi alla sua. La ragazza è un’illustratrice per bambini e inventa storie che ricalcano effettivamente l’umore del suo fidanzato. Soffre per i continui tradimenti e ricadute di lui ma non riesce a mollare la presa. Stefano, infatti, la convince sempre a restare dicendo che per lui lei è essenziale, che non potrebbe vivere senza di lei e così il peso della malattia e dell’incapacità di stare al mondo di lui diventano anche di lei. Parafrasando una frase del libro: è come se si considerasse una vittima la persona che in realtà fa male proprio a noi. Ma Arianna questo non lo capisce, finché non viene abbandonata. 

In una vacanza sull’isola greca di Naxos, Stefano la pianta definitivamente in asso: fugge di punto in bianco a Londra con una turista incontrata lì sul posto, senza dare spiegazioni. L’abbandono è brutale proprio perché improvviso; Arianna si sente privata di una parte di se stessa e non capisce come il mondo possa sembrare sempre esattamente lo stesso, nonostante tutto il dolore che lei stessa sta patendo. 

Dallo strappo inevitabile che segue all’accaduto, Arianna inizia un lungo percorso di introspezione in se stessa: in questo nuovo viaggio la accompagneranno altri due uomini (uno è un certo Di, che Arianna conosce sempre sull’isola, e l’altro è appunto Damiano) che le faranno capire che il suo attaccarsi morboso ad una persona come Stefano deriva solo dal suo terrore di essere abbandonata, tanto che infatti una delle sue paure più grandi è sempre stata quella di perdere le persone care attorno a lei. Non era capace di vivere una fine, di amarsi in primis e di venire ricambiata come si meritava. 

La nostra Arianna, dunque, non è l’Arianna del mito: non è un’eroina ma è piena di contraddizioni e paure. È una persona molto ansiosa per il figlio e sempre insoddisfatta di se stessa, come donna e come madre. Ci si può identificare facilmente con lei perché soffre, patisce, ama disperatamente qualcuno che non può offrirle nulla e la fa soffrire a sua volta, cade e si dispera ma si aggrappa alla vita con tutta se stessa. E poi, con un figlio e quindi con una nuova vita che fa ricominciare tutto da zero, prova definitivamente a far ordine attraverso la scrittura e a ritrovare, una volta per tutte, la sua identità. 

L’abisso in ognuno di noi

«Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro». Così recita un celebre aforisma di Friedrich Wilhelm Nietzsche e chissà se Donato Carrisi si sia ispirato proprio a questa frase per intitolare il suo ultimo romanzo, Io sono l’abisso (Longanesi, 2020). Parrebbe proprio di sì, poiché spesso e volentieri di abisso si parla in questo nuovo thriller, sempre inquietante e pieno di suspense, come ogni storia orchestrata da Carrisi. L’abisso è quello del lago di Como che fa da sfondo alla vicenda, «il posto più tranquillo della Terra», o almeno così viene definito dai giornali; in realtà spesso rigetta sulle sue rive parti di cadaveri (suicidi o forse no) dispersi da chissà quanto. L’abisso è anche quello di una piscina nera, putrida e abbandonata, nella quale il protagonista, ancora bambino all’inizio del romanzo, rischia di affogare.

Proprio quest’ultimo, infatti, è un vero mostro umano. Un reietto, un emarginato dalla società; un essere invisibile che vive nell’ombra. L’autore lo chiama «l’uomo che puliva», senza mai rivelarne il nome. Apparentemente, infatti, sembra un semplice netturbino, silenzioso e molto meticoloso, forse troppo. È in realtà un uomo che ha vissuto violenze psicologiche e fisiche fin da bambino e che matura una mente turbolenta, malata, posseduta. Ed è anche lui, in effetti, un abisso: un pozzo senza fondo, un mostro imprevedibile, capace di fare del male e nello stesso tempo del bene. Capace di uccidere (e uccide, quasi subito all’inizio della vicenda) ma capace anche di salvare la vita ad altri.

Infatti, in una mattina come tante altre, sceglie di soccorrere una ragazzina, «la ragazzina col ciuffo viola», quando questa si getta volontariamente nelle acque turbinose del lago, rischiando di affogare. L’uomo la vede, la salva e poi fugge, senza lasciarsi identificare; ma la sua esistenza da quel momento cambia per sempre. Un istinto irrefrenabile lo attrae verso di lei, vuole sapere di più della sua vita; inizia a seguirla, a spiarla, ma solo con l’intento di proteggerla. E tutte le volte che «la ragazzina col ciuffo viola», viziata e piena di problemi, figlia di una ricchissima famiglia che abita sulle sponde del lago, avrà bisogno di lui, «l’uomo che puliva» sarà sempre pronto a intervenire, esponendosi sempre di più e rischiando di farsi scoprire.

C’è qualcuno infatti che nel frattempo sta facendo delle indagini, e sta per arrivare proprio a lui; questo a causa del ritrovamento di un braccio, che il lago ha fatto riemergere dai suoi abissi, e che appartiene ad una signora non ancora ben identificata. La donna che sta indagando sulla vicenda è la «cacciatrice di mosche», un personaggio con un passato denso di sofferenze, che aiuta le donne vittime di violenza domestica tramite un linguaggio segreto: ogni volta che una fidanzata o una moglie ha bisogno di aiuto, deve lasciare «un barattolo di sottaceti fra i surgelati» di un noto supermercato, e la «cacciatrice di mosche» saprà intervenire.

Il ritrovamento del braccio di questa donna sconosciuta non convince la cacciatrice per certi dettagli, e quindi si spingerà ad indagare a fondo, sempre più a fondo, fino a scoprire tutta la verità.

Io sono l’abisso si rivela ancora una volta un thriller psicologico di grande intensità. Al di là della suspense che riesce a mantenere nelle pagine, la storia va a toccare diverse tematiche sempre attuali: la psicosi maturata dopo un’infanzia turbolenta, la depressione adolescenziale, la violenza sulle donne. Carrisi riesce a mescolare con maestria tutti questi ingredienti per dare vita ad un racconto che ci fa riflettere, ma che soprattutto ci fa guardare inevitabilmente nel nostro, di abisso; per riemergerne in seguito più sicuri, o forse ancora più incerti di prima.

Si rinasce anche cambiando l’acqua ai fiori

Se si va a cercare su Wikipedia il nome di Valérie Perrin, non si scopre molto della sua vita. Scrittrice, fotografa e sceneggiatrice francese, classe 1967, sposata a sua volta con uno sceneggiatore e regista francese, la Perrin ha scritto due romanzi nella sua vita, che hanno ottenuto entrambi numerosi premi: il primo è stato pubblicato nel 2015, con il titolo italiano Il quaderno dell’amore perduto (bellissimo il titolo in francese: Les Oubliés du dimanche), mentre il secondo è uscito in Francia nel 2018, Changer l’eau des fleurs, in italiano Cambiare l’acqua ai fiori, che ha riscosso un notevole successo nel nostro Paese di recente.
Senza dubbio questa scrittrice sa il fatto suo: il romanzo racconta una storia bellissima, mai monotona, tipicamente francese e malinconica al punto giusto. Sicuramente, l’anima da sceneggiatrice permette alla Perrin di avere un occhio più attento ai dettagli, alle piccole cose, alle descrizioni precise e vivide dei luoghi e dei personaggi del romanzo. Anche perché Violette, la protagonista, è proprio così: una donna che vive per la cura dei dettagli, e che sa gioire per qualsiasi gioia quotidiana. Violette d’altronde fa un lavoro che oggi pare quasi dimenticato, poiché è una guardiana di un piccolo cimitero in Borgogna. La sua vita è scandita da una sequenza di azioni giornaliere, quasi dei riti, che vengono praticati da anni: pulire le tombe, assistere alle sepolture, vendere i fiori e cambiarli sulle lapidi, offrire un caffè o qualcosa di più forte ai parenti e agli amici affranti dei defunti che vengono a trovare conforto nella sua piccola casetta. Violette è sempre gentile e ha sempre una buona parola per tutti; bada al suo piccolo orticello, tiene un registro dove riporta tutte le sepolture che avvengono nel cimitero, con i dettagli della cerimonia funebre. Riporta persino il tipo di legno utilizzato per la bara del defunto di turno.
Eppure, questa apparente vita tranquilla e ripetitiva nasconde dietro di sé molto altro. Infatti, Violette ha un passato tremendamente difficile alle spalle, che pian piano, con grande grazia e forza di volontà, ha saputo lasciar andare. Orfana fin dall’infanzia, Violette è passata da una famiglia affidataria all’altra, senza poter dire di aver mai avuto una vera famiglia. Ha conosciuto giovanissima un ragazzo più grande di lei, Philippe, che l’ha tirata fuori dal circolo degli affidi facendola sua troppo presto, e rendendola madre altrettanto prematuramente. Tuttavia, la gioia di poter accudire una figlia, Léonine, è stata più grande di qualsiasi altro sentimento provato da Violette in tutta la sua vita. I due giovani genitori diventano poi guardiani di un passaggio a livello (lavoro, questo, che oramai non esiste più); in realtà, è Violette che lavora, mentre Philippe esce sempre più spesso a «fare i suoi giri». E così la ragazza vede, giorno dopo giorno, la vita dei pendolari scorrerle davanti, in tutte le sue sfaccettature. Sogna anche lei di avere una vita diversa, più movimentata, piena di sorprese e soddisfazioni. Di lì a poco, invece, Violette sarà costretta a sopportare un vortice di eventi che la getteranno nella più totale disperazione e depressione.

Come ne uscirà? Cambiando l’acqua ai fiori. Accudendo una terra, un orto, quello del cimitero di cui successivamente diventerà guardiana. La vita di Violette diventa allora esemplare: è quella di una donna che ha sofferto tantissimo nella vita, e che però ha saputo rialzarsi, con grande fatica ma nello stesso tempo in silenzio, con estrema eleganza. È ripartita proprio da lì, dallo stretto legame che ci unisce alla terra, da cui veniamo e nella quale ritornano i defunti che la stessa Violette accoglie nel suo piccolo cimitero.

Cambiare l’acqua ai fiori è uno di quei libri per cui dispiace quando si arriva all’ultima pagina. Si sente immediatamente la mancanza di Violette, mancano la sua pacatezza e la sua gentilezza, qualità che ha mantenuto nel tempo nonostante la vita difficile che ha avuto. Senza dubbio, si tratta di uno di quei romanzi che comportano una riflessione successiva: sul valore degli affetti che ci circondano, sulla qualità della vita rispetto al momento della morte (tra l’altro, bellissimo il fatto che ogni capitolo del romanzo inizi con una specie di epitaffio che si potrebbe ritrovare su una tomba), ed infine, sulle innumerevoli possibilità di rinascere sempre e comunque, nella nostra esistenza, aggrappandoci con tutte le nostre forze a ciò che ci rende davvero vivi e presenti a noi stessi.

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