BARBONE

“Ho finito anche le lacrime”

Queste parole Guido (nome inventato), un senzatetto che vive per la strada a Cuneo, le ha ripetute più volte, ieri sera. Le ha ripetute quando parlava di Michele (nome inventato), uno dei suoi migliori amici, morto pochi mesi prima, anche lui in strada. Le ha ripetute parlando di altri suoi amici, che la morte ha preso con sé, alcuni anche sotto i suoi occhi. 

È stata la prima volta che sono andata a fare Unità di strada. E non sapevo che aspettarmi, se no che avremmo incontrato quelli che chiamiamo comunemente “barboni”, e avremmo offerto loro un po’ di conforto. E così è stato, se non fosse che, quando senti con le tue orecchie parole così dure e vere, allora cambia tutto. Non è più solo un sapere che a Cuneo c’è gente che non ha casa, che vive per strada. È conoscere quella gente: è conoscere Guido, che attualmente alloggia in una delle piazze di Cuneo, un po’ riparato sotto un tetto. È vedere i suoi occhi, i suoi denti tutto fuorché sani. È sentire le sue battute, perché avrà perso tante cose, ma non l’ironia. E quindi si scherza, si ascoltano le sue storie, che spesso sono molto fantasiose perché a parlare è anche (e in gran parte) l’alcool. L’alcool che ti aiuta a sconfiggere il freddo e a non pensare. Forse le due difficoltà più grandi di chi vive così. L’alcool che non manca mai tra gli averi di Guido, ma che ieri sera non sembrava parlasse troppo. Infatti Guido ci ha raccontato della sua famiglia, mescolando francese e italiano, lingue che mastica entrambe molto bene. Abbiamo così scoperto che proviene da una famiglia di artisti, e che tra di loro si è sempre trovato bene. A girare con gli artisti. E quando poi gli abbiamo chiesto se avesse bisogno di qualcosa, ci ha chiesto biancheria intima e coperte, ma non solo per lui: erano per lo più per i suoi amici. Questa solidarietà mi ha toccata nel profondo, questo pensare agli altri prima che a noi. Cosa per loro più che normale, perché chi vive in strada ha anche bisogno di avere persone fidate, a cui rivolgersi in caso di bisogno. E così ci ha detto che oggi un ragazzo gli ha portato il pranzo della mensa. E che un altro gli ha offerto le sigarette, e quindici euro. Ci ha detto che fatica a mangiare, che in questi ultimi giorni non ha mangiato quasi niente. Il suo “apparato intestinale”, come ha giustamente detto lui, fatica. Durante la notte è sempre più preda di dolori forti che, assieme al freddo invernale, gli impediscono di dormire. 

Io avevo i piedi ghiacciati, nonostante le calze spesse e le scarpe da montagna. E sentire lui, che in quella condizione ci vive, tutto il giorno, tutti i giorni, magari con l’eccezione di un pasto caldo in mensa, o di due orette all’interno di un bar, mi ha fatto pensare. A quanto abbiamo tutto. A quanto ci lamentiamo appena sentiamo un po’ di freddo, appena abbiamo un po’ male allo stomaco. Appena abbiamo un po’ fame e non possiamo soddisfare questo bisogno nel giro di cinque minuti. A quando non possiamo lavarci per un giorno. A quando ci sentiamo soli, non ascoltati, dimenticati. Ecco, tutto questo è la vita di chi è senzatetto. La vita quotidiana, le emozioni di tutti i giorni. 

Non ho potuto fare altro se non ascoltare. Gli abbiamo offerto una tisana calda, un po’ di calze spesse, che avrebbe dato a un suo amico, insieme a delle scarpe numero quarantacinque. Per lui abbiamo portato una coperta spessa. Ci ha chiesto anche lui delle scarpe, perché quelle che ha gli fanno male, e vorrebbe cambiarle. 

Prima di andarcene gli abbiamo detto di non mollare. Sembrava quasi una presa in giro, dopo tutte le sofferenze che ci ha raccontato. Ma cos’altro possiamo fare se non dargli la speranza? Speranza che, parole sue, sta esaurendo. Dice che non cambierà la situazione, che non lo ascoltano, che non lo aiutano. Che il SERT non lo prende in carico, che non gli rispondono, che lui non ha più voglia.  Più volte ha detto “Il mio fisico non ce la fa più, tra un po’ finisco pure io come gli altri”. E “come gli altri”, in sostanza, significa morto. Morto per strada, congelato, per infarto, o chissà per quali altri mille motivi. Come è possibile parlare così della morte? Me lo sono chiesta. E non lo so, so solo che le parole che ho sentito mi sono entrate dentro, e soprattutto la semplicità di come le diceva, come se fosse automatico. Senza paura, senza lasciare trasparire emozione, come fosse un’automatica causa-conseguenza. 

Sono grata di aver avuto la possibilità di trascorrere due ore fuori questo mercoledì sera. Se penso che da anni c’è gente che ogni mercoledì si trova a fare il “giro dei senzatetto”, o in termini più giusti, a fare “unità di strada”, allora ieri sera ho fatto pochissimo. Penso inevitabilmente a quanto sono fortunata. A quanto inutile sia ogni mia lamentela, ogni mia polemica, ogni mia difficoltà, se comparata alla loro. So che non serve fare paragoni e confronti. Sicuramente però conoscere aiuta ad essere più consapevoli. E aiutare, anche solo ascoltando e chiacchierando mezz’ora una sera con uno come Elia, è sempre meglio che non fare niente. Serve a ricordare loro il loro valore, perché ne hanno, nonostante siano considerati gli ultimi della società. Queste vite umane, sono vite come la nostra. 

Ringrazio Christian, e Ilaria, che fanno parte ormai da anni dell’Unità di strada, che ogni mercoledì sera esce a Cuneo e fa il giro. E ogni domenica mattina, dalle sette alle nove, offre colazione ai senzatetto. Senza il loro coraggio, la tenacia, la frequenza, la voglia, nessuno si disturberebbe di provare a conoscere e trovare soluzioni a questo problema, che a Cuneo affligge un numero contenuto di persone, ma che solo a Torino interessa ottocento persone. Ottocento persone che vivono per strada. 

“C’è bisogno di silenzio, c’è bisogno di ascoltare, c’è bisogno di un motore che sia in grado di volare”, diceva una canzone di Guccini e dei Gen Rosso, non a caso intitolata “Lavori in corso”. Possiamo essere noi i protagonisti, anche se in piccolissima parte, di questi lavori, perché i senzatetto non si sentano invisibili, ultimi, la feccia della società. 

Possiamo fare qualcosa, anche nel nostro piccolo, perché tutto è meglio dell’indifferenza.

 

ABBI DUBBI

Della compagnia di circo “Treggì” della scuola “Fuma che n’duma”

 

Abbi dubbi! Spesso associamo l’essere indecisi, il non saper compiere una scelta, ad una debolezza. 

Abbi dubbi è il titolo di uno spettacolo di circo, che poi, di solo circo proprio non è, ma è anche un invito per chiunque stia leggendo queste parole, me compresa. 

Chi non è determinato, chi non è sicuro di ogni sua decisione, chi, dopo una domanda, resta lì, titubante, a pensare ad una possibile risposta, è qualcuno che probabilmente giudicheremmo come insicuro. 

Ma spesso e volentieri, siamo noi stessi che non ci diamo la possibilità di avere dubbi. Ci lasciamo trasportare dall’idea del “si è sempre fatto così”, senza mettere in dubbio il modo in cui trascorriamo la nostra esistenza. Perché, se vissuta così, forse è proprio un trascorrere la vita, non un viverla. Nella quotidianità andiamo avanti col pilota automatico. Siamo convinti di essere sempre noi ad avere ragione, sicuri in ogni nostra scelta, e non mettiamo più in dubbio nulla. O forse, semplicemente, è molto più comodo non mettere in dubbio nulla, e continuare come si è sempre fatto. 

Ma è anche la società in cui viviamo ad assumere questo atteggiamento. E questo è un messaggio chiarissimo che ci urlano i protagonisti di questo spettacolo. Siamo abituati ad assumere per vero tutto quello che ci è stato insegnato, tutto quello che la tradizione, ogni giorno, ci tramanda. 

Sei una sposa… devi trovare l’abito perfetto. Sei una segretaria… è meglio che tu abbia i tacchi. 

Sei un imprenditore… devi mettere giacca e cravatta”.

Queste alcune delle parole di uno dei momenti in cui gli artisti fanno sentire la loro voce, che ci portano a pensare: ma noi, davvero, cosa vogliamo? Io, sotto tutto, nonostante tutto quello che mi dice la società, mia mamma, il mio fidanzato, la mia comunità, i miei professori: io, cosa voglio? Che scelta faccio? 

Tutto parte in chiave ironica, fil rouge di molti spettacoli della compagnia, l’ironia, e in ciò che porta in scena: il “dubbio amletico”: a maggio, la sera a cena con gli amici, prendo la giacca o no? Il dubbio, che può apparire superficiale, dà la possibilità di introdurci in quello che i ragazzi hanno elaborato nei mesi di preparazione dello spettacolo, e in ciò che vogliono esprimere. Ogni scelta, piccola o grande che sia, fa parte di noi, fa parte della nostra storia. È una grande responsabilità! Ci identifica, fa capire chi siamo, e ci rende unici. Nessuno ha fatto tutte le scelte che abbiamo fatto noi, fino a questo momento della nostra vita.

Lo spettacolo non è un susseguirsi di numeri ed esibizioni, come un comune spettacolo di circo. È molto di più. È la storia di adolescenti, dai quattordici ai diciannove anni, che si sono messi in dubbio. Che si sono chiesti, ciascuno, quale fossero le scelte più difficili. Quali sono, ogni giorno, le difficoltà da affrontare. Senza giudizio, senza definirle piccole o grandi, perché è troppo soggettivo e dipende da persona a persona. 

È la storia, urlata, cantata, danzata, narrata. È la storia raccontata in alto, sul trapezio (in cinque), o in aria, sui tessuti. È la storia di quando sei da solo e nessuno ti ascolta. È la storia di chi non ha paura di lasciarsi cadere nel vuoto, magari perché non ha altra possibilità. È la storia di chi ha bisogno degli altri per vivere. Di chi, in fondo, solo non è mai. È una storia di fiducia, di chi regge qualcuno sulle proprie spalle (letteralmente e non), perché riesca a stare in piedi. È la storia di chi è costretto per tutta la vita a sottostare alle scelte degli altri, fino ad un certo punto in cui no. In cui si chiede cosa vuole davvero, in cui ha dubbi. In cui si ribella, in cui scopre sé stess* e allora, improvvisamente, tutto inizia ad essere colorato, tutto inizia ad avere senso. 

È una storia scritta, pensata, interpretata e raccontata interamente da venti ragazze e ragazzi, diversi tra loro ma che si muovono assieme. Che ci dicono in faccia che si, è necessario avere dubbi, sempre. Che chi non ha dubbi non vive davvero. Chi non si mette in discussione. Chi non fallisce mai, chi sembra sempre far tutto giusto, ha già perso in partenza. 

Non è una debolezza mettersi in discussione, è la più grande forma di crescita personale che ognuno può provare. È la dimostrazione del nostro essere vivi, umani e, come tali, fallibili. 

 I corpi sono immobili, alle volte. Più spesso, in posizioni scomode, con i muscoli tesi per lo sforzo di lanciarsi in aria, o di sostenersi con la sola forza delle braccia. Sono corpi scattanti, vivi, liberi, forti e deboli insieme, potenti e dolci, corpi giovani e pieni di energia, instancabili. Sono corpi in cui si legge tutto quello che siamo noi, e cioè un mucchio di incertezze. Perché solo così possiamo scoprire chi siamo davvero, solo essendo elastici mentalmente. Senza alcuna rigidità, senza alcuna cosa data per certa, per scontata. Ponendoci in una condizione di dubbio continuo. 

Abbi dubbi, allora, è l’augurio che faccio ad ognuno di noi. E se ancora avete dei dubbi (il che è positivo, a questo punto!), lascio che siano le parole che arrivano direttamente dalla canzone scritta per lo spettacolo, e che gli dà anche il titolo: 

Abbi Dubbi di Angelica

abbi dubbi quando il sole scompare

abbi dubbi quando sai già di esitare

abbi dubbi quando vedi un cambiamento da affrontare 

abbi dubbi quando pensi di lasciare stare

abbi dubbi se il tempo non ti aspetta

abbi dubbi quando esprimi una certezza

abbi dubbi quando pensi di essere imperfetta

abbi dubbi quando senti una promessa eterna

 

scelte come note in un tempo senza fine

questo cammino incerto mi rende un po’ più vile

 

scegliamo il destino a passi leggeri 

le piccole scelte, i nostri pensieri

ma dietro le semplici cose

si creano le nostre storie

 

abbi dubbi quando non sai come amare

abbi dubbi quando non ti puoi fidare

abbi dubbi quando pensi di essere banale

abbi dubbi quando premi troppo quel pedale

abbi dubbi quando doni una carezza

abbi dubbi quando corri troppo in fretta

abbi dubbi quando scegli tra sinistra e destra 

abbi dubbi quando avanzi verso la tempesta

 

scelte come note in un tempo senza fine

questo cammino incerto mi rende un po’ sottile 

 

scegliamo il destino a passi leggeri 

le piccole scelte, i nostri pensieri

ma dietro le semplici cose

si creano le nostre storie

 

tra il chiarore dell’alba e il buio della sera

la melodia della scelta sempre contesa

dubbi si dissolvono come una candela 

ad ogni passo incerto sto una vita intera

 

Prossima replica: martedì 9 luglio, alle ore 21,30 al Tendone di Savigliano (Via Snos 9, Savigliano)

Per info: 

 https://fumachenduma.it

Instagram: @fumachenduma

Instagram della compagnia: @treggì

 

UN GELATO DA SOLA – Una battaglia vinta

Il seguente testo è molto personale, e il tema è quello dei disturbi alimentari. Spero che non provochi malumori, malesseri, e che possa arrivare alle persone nel modo semplice e naturale come è scaturito da me, quando l’ho scritto. 

 

Oggi ho preso un gelato.

Una banalità. Un fatto non degno di nota.

Non è che ho fatto qualcosa di assurdo.  Avessi detto “Oggi ho prenotato un aereo di sola andata per l’Australia”, sarebbe stato qualcosa di scioccante, più d’impatto. Invece per me è notevole anche questo, perché per lungo tempo mi sono preclusa un sacco di piaceri legati al cibo. Tranne quando non li ritenevo strettamente necessari. Come il gelato. Lo prendevo solo quando ero con altri, e quando anche gli altri lo prendevano; quando ero in giro, quando avevo fatto un qualche tipo di movimento per cui ritenevo di “meritarmi” la gioia del gelato. Oppure ad una festa, dove giustificavo il mio “trasgredire” al regime alimentare che mi ero creata col fatto che tutti lo prendevano, e che non potevo essere l’unica stupida che non lo mangiava. Quante cose ti fa perdere un disturbo alimentare? Quante cazzate ti ficca nella testa? Di quante cose ti priva? Quanti pensieri assurdi, assurdi, assurdi. Quanta privazione di gioia vera, la gioia del gelato per esempio: il sentire il fresco e il cremoso sulla lingua, dopo una giornata calda, dopo ore di lezione, sostituita invece da una “gioia bugiarda”. Una gioia che deriva dall’aver rispettato i rigidi limiti di quantità, di tipo di cibo, che la tua mente ti ha impostato. Come è possibile che si arrivi a preferire questa ultima alla prima, non ne ho idea. Però è una cosa terribile, terribile e assurda. E riconoscere quanto fosse assurda, una volta che ci si è liberati da questi pensieri assurdi, è la felicità più grande. 

Ecco perché mi sentivo di celebrare questo piccolo fatto, apparentemente del tutto degno di ignoranza. Un piccolo successo, che si somma a quei tanto piccoli quanto grandi passi verso la felicità. 

Che per me è prendere un gelato senza pensare. Prendere un gelato a Torino, in una nuova gelateria che ha aperto da poco vicino a Palazzo Nuovo, mentre mi avvio alla stazione per prendere il treno e tornare a Cuneo. Sono in anticipo, quindi ce la faccio. Entro, ci sono due bambini che stanno ordinando due coni belli grandi. Il bimbo ha già fatto la su richiesta, la bimba sta aspettando la gelataia, che infila un biscotto tra le due palline nel cono appena riempito. Inizio a guardare i gusti, per scegliere quale ordinare, e noto con piacere che il prezzo è contenuto, rispetto alla media delle gelaterie torinesi. La bimba ordina due gusti, poi, d’un tratto, esclama di punto in bianco: “No! Non nocciola, volevo il torroncino!”. Siccome ha praticamente urlato, io e la gelataia, una ragazza giovane e allegra, ci siamo spaventate, e ci mettiamo a ridere. Per fortuna il la ragazza aveva appena afferrato il cono, che era ancora da riempire. La bimba prende il gelato con un sorriso sulle labbra, e esce con quello che credo sia il fratellino più piccolo. Tocca a me! Gelato allo yogurt, piccolo, grazie. Cono croccante o wafer? Quello più croccante, per forza! Pago ed esco, felicissima come la bimba uscita pochi istanti fa. 

Tutto questo è così semplice e così naturale, che mi viene da pensare a quanto sono cresciuta e cambiata rispetto ad una volta. Una volta non sarebbe stato così. Una volta, prima di effettivamente scegliere o meno di prendere il gelato, nella mia testa si sarebbero affollate varie domande e varie pensieri e paure: Che ora è? Ha senso mangiare ora? Cosa ho mangiato a pranzo? Ho già mangiato un dolce oggi? Ma ho fatto dell’attività fisica? Cosa mangerò poi a cena? E se poi mamma ha fatto una torta, come faccio? Ma è il caso di prendere un gelato? Che senso ha? Non c’è nemmeno nessuno che lo prende con me, perché dovrei prenderlo da sola? Magari ne prendo uno al gusto di un frutto, almeno è più sano. Poi domani al massimo non mangio dolci. Ma da sola, non ha senso prendere un gelato. Non posso nemmeno poi farlo vedere a mia mamma, per dimostrarle che sono capace di prendere un gelato. Che non ho paura. Ma io paura ce l’avevo. Paura di essere me stessa, paura di permettermi di godere delle gioie che la vita mi offriva. Paura dei miei pensieri e di metterli a tacere. 

È per questo che ora celebro tutta questa naturalezza nella mia testa, la spensieratezza che ho raggiunto dopo tempo. Ed è per questo anche, che mi sento di parlare di questo, che è un problema che è così orrendamente attuale ed in crescita. Nei giovani, nelle ragazze, in noi giovani donne in particolare, è diffusissimo il disturbo alimentare, DCA. E ne parlo perché non ha senso tenere nascoste le proprie paure e le proprie debolezze. Ne consegue solo che esse si rafforzano e sopraffanno la persona. Invece è giusto parlarne, non nascondere, ma esternare, gridare al mondo quanto si sta male, consapevoli che nessuno è mai solo, ma soprattutto che è possibile una via d’uscita.

È possibile guarire.

È possibile tornare a magiare un gelato senza chiedersi il perché.

Seguendo semplicemente la propria voglia, il proprio essere, sé stessi.

 

LA MIA RABBIA AMBIENTALE

Non è vero che alle volte è meglio non sapere. Magari sul momento, è meglio per il nostro umore, non sapere la verità, non conoscere il vero. Ma alla lunga tutto ritorna, e quasi sempre ha conseguenze molto più negative che se avessimo conosciuto la verità prima, appena possibile.

Questo mi è venuto in mente pensando al cambiamento climatico, al disastro che sta accadendo sotto i nostri occhi, sulla nostra terra, anche se noi continuiamo ostinati a rifiutarlo, a negarlo, a distrarci cercando disperatamente delle scuse, delle colpe da dare a qualcun altro. E invece no: è colpa nostra, di tutti noi, del genere umano di cui, fino a prova contraria, facciamo parte. È facile addossare tutta la colpa a chi ci governa, e in parte, secondo me, non è nemmeno totalmente sbagliato. I politici al potere seguono per lo più la logica del profitto, dei soldi, del guadagno, della produttività, della velocità, del “minor costo/sforzo, massimo risultato”. Tutto questo non è compatibile con la terra e con il suo ecosistema, non va di pari passo né con la nostra salute, né con quella del pianeta. E nonostante ciò, non sono/siamo in grado di pensare alle conseguenze delle nostre azioni a meno che non siano immediate. E il fatto è che sono immediate, accadono a milioni di persone, costrette a lasciare le loro abitazioni per disastri naturali, per impossibilità di vivere su un suolo diventato sterile. 

Ma fino a che non capitano a noi, non ci preoccupano. Non meritano la nostra attenzione

Vorrei che tutti noi ci rendessimo conto che è necessario fermarci, ora. Smettere di maltrattare la terra, ma, se vogliamo essere più egocentrici ed egoisti e individualisti, aggettivi che mi sembra descrivano bene la società odierna, dobbiamo smettere di maltrattare noi stessi. A cosa è servito evolvere così tanto la scienza, se poi non ci fidiamo? Siamo pieni, pieni di dati che dimostrano che mangiare la carne proveniente da allevamenti intensivi ci fa male, siccome gli animali sono imbottiti di antibiotici; che mangiare frutta e verdura proveniente da chissà dove e non biologiche, ha conseguenze sulla nostra salute per l’uso di sostanza tossiche per l’organismo; che mangiare la carne più di tot volte a settimana, i salumi, non fa bene, ma peggiora la salute del nostro organismo. Nonostante tutti questi dati, ci tappiamo le orecchie e andiamo avanti. Troppo abituati all’idea del “si è sempre fatto così”; del “sono cresciuto così”, del “non è mai morto nessuno”, del “tanto sono solo animali, non sono uomini”, del “è una cosa eccessiva e troppo radicale”, della critica continua, del giudizio continuo. Senza informarsi! Senza avere prove a sostegno della propria opinione, ma solo per parlare, parlare, parlare. Cercare la ragione solo con la parola ma senza il significato. Io non reggo questa contraddizione, questa società in cui mi ritrovo a vivere, in cui tutti vogliono avere ragione, in cui tutti vogliono prevalere. Dove è finito l’ascolto?  Dove è finito l’aiuto reciproco? Nemmeno l’amore esiste più, perché se esistesse, i genitori avrebbero a cuore il futuro dei propri figli, e la loro priorità sarebbe quella di accertarsi che essi possano avere una vita felice, e lunga, e sana. Cosa che, se continuiamo così, non accadrà. Io penso che ci manchi il coraggio e la voglia di cambiare idea e prospettiva. La voglia e il coraggio di mettere al primo posto questo, è la nostra salute! Si dice sempre “la salute prima di tutto”, ma se si guarda ai fatti, sembra una battuta. Nessuno si interessa di tentare di fare del bene, anche se nel suo piccolo. Tutti si sminuiscono troppo, paradossalmente, quando si tratta di fare qualcosa, quando si tratta di agire consapevolmente e, probabilmente, controcorrente. Perché è una minoranza quella che ha coscienza di tutto ciò, e che si impegna, nel suo piccolo, e che si informa. 

A mio parere, se riuscissimo già solo a risolvere il problema della disinformazione, sarebbe una grande vittoria. Rendere tutti, obbligatoriamente, coscienti della situazione della terra, che poi quella della nostra salute, e che quindi dovrebbe essere, come ho già detto, la nostra priorità. Dovrebbe essere la principale preoccupazione dei politici, del governo, dello stato, di chi ci tutela. Immagino come farebbe aprire gli occhi alla comunità e al popolo italiano vedere, per esempio, il documentario che ho appena visto al cinema “Food for Profit”. Dovrebbe essere obbligatorio e no, non lo dico perché sono un’estremista, una pazza, no. Lo dico perché sento dentro di me una rabbia così energica che non posso far altro che cercare modi per buttarla tutta fuori. E sono convinta quando dico che vorrei che tutti sapessero. Perché la verità ora è che pochi, troppo pochi sanno. Non dico di stravolgere la nostra vita: dico che bisogna darsi la possibilità, siccome c’è, di conoscere. L’uomo è fatto di conoscenza, l’uomo è curioso, vuole sapere, solo sapendo si arricchisce, migliora, evolve, cresce. E l’uomo deve in qualche modo recuperare quella consapevolezza vecchia come Socrate, del “so di non sapere”. Deve fare un passo indietro. Deve essere umile. Deve avere il coraggio di mettersi dietro a cose che non conosce. Ammettere che non le conosce. E avere al contempo, quindi, la voglia di conoscere. Lo stimolo. 

Basta questa indifferenza, basta questa ipocrisia del dire “non è normale questo caldo, non è normale che non nevichi”. Se non è normale, perché stiamo fermi? Ce lo facciamo passare sopra senza cambiare nulla, senza pensare di poter fare la differenza. 

Immagino come sarebbe stupendo se, dopo aver preso coscienza dei fatti, smettessimo di comprare quel petto di pollo ultrascontato al supermercato. Se smettessimo, quindi, di finanziare quelle enormi lobby che provocano, da sole, un’enorme parte di inquinamento atmosferico. In quelle fabbriche di morte, che non esagero a paragonare a campi di concentramento per animali, non vi è nulla che giochi a nostro favore. Niente che giovi alla nostra salute fisica, al nostro benessere mentale, alla nostra vista, al nostro olfatto. Alla nostra morale, alla nostra etica. 

Io scrivo queste cose per difendere una e una sola cosa: l’informazione. Non è vero che è meglio non sapere. Bisogna avere il coraggio di guardare negli occhi ciò che ogni giorno finanziamo, contribuiamo a far continuare, consumando prodotti che provengono da allevamenti intensivi. Guardare negli occhi e con gli occhi cosa stiamo facendo. Perché siamo noi, e non è vero che la colpa è di chi ci governa. I soldi li versiamo noi, fino a che continueremo a pagare per far sussistere queste fabbriche enormi, allora saremo nel torto quando diremo “e ma il cambiamento climatico”, “e ma è colpa dei politici che non sanno governare”. 

Scrivo con questa energia e questa rabbia perché CREDO che possiamo ancora cambiare. Se non ci credessi sarei rassegnata e non mi sprecherei a scrivere. Ma siccome sono giovane, sono colma di speranza, di energia, di buona volontà, sono propositiva, io spero. Io combatto, fino a che ho le energie. 

Chi se non noi? Chi se non io? 

Tutti, tutti, tutti possiamo fare la differenza. Se non inizi tu, non inizierà mai nessuno. Ora.

 

La conversazione (è) necessaria, da un libro di Sherry Turkle

Di recente ho sostenuto un esame in università dal titolo “Storia e teoria dei media digitali”; contrariamente a quanto può sembrare dal nome, si è rivelato estremamente attuale e interessante, al punto che mi ha spinto a citare in questo articolo uno dei libri di studio (cosa abbastanza inusuale: solitamente, dopo un esame, non vedo l’ora di liberarmi dei volumi letti e riletti). 

L’argomento è la conversazione, quella che avviene tra due persone, in un gruppo, con noi stessi. E’ un tema che mi è molto vicino, a cui sono sensibile soprattutto pensandolo in rapporto alla tecnologia. La tesi sostenuta dall’autrice, in sostanza, è che l’avvento dei media digitali, e soprattutto dello smartphone, abbia ridotto notevolmente la nostra capacità, voglia, necessità, facoltà, desiderio di conversare. Che la abbia, quindi, decisamente modificata, a favore di una conversazione che avviene dietro gli schermi e non più dal vivo. Questo ha causato diverse conseguenze, soprattutto in noi giovani: apatia, mancanza di lessico, chiusura in noi stessi, timidezza maggiore, non capacità di sentire e metterci nei panni dell’altro, pigrizia, indifferenza verso gli altri, e potrei andare avanti a lungo (ma qua ve lo risparmio: leggetevi il libro!) 

Io mi rendo conto quotidianamente di quanto questo sia vero, e ne sono altamente preoccupata. Mi fa paura pensare ad un mondo in cui la gente preferisce davvero videochiamarsi piuttosto che vedersi di persona, toccarsi, stringersi, sentire l’altro, che non vuol dire solamente avere un contatto fisico, ma un contatto visivo, percepire le emozioni, i battiti, guardare negli occhi e ascoltare. Mi fa paura come le persone possano preferire risolvere i propri problemi scrivendosi messaggi su Whatsapp piuttosto che dal vivo, come possano preferire comunicare i propri sentimenti tramite delle parole virtuali, che sono così fredde e quasi “fantasma”. 

Mi fa paura che non siamo più in grado di capire l’altro, e non abbiamo voglia di fare quella fatica in più per vedersi dal vivo e parlarsi in “live”, qui e ora. Perché è vero: senza telefono, e tutto ciò che gli gira attorno, è tutto molto più faticoso. È più faticoso dirsi le cose che non vanno dal vivo, ma anche le cose che vanno: quanto è difficile, per esempio, dire ad una persona quello che provi guardandola negli occhi, avendola a un passo di distanza? Ma quanto è, infinitamente, più vivo? Quanto è più vero, quanto vale di più, rispetto che stare coricato sul letto scrivendo un messaggio e aspettando una risposta, sperando di non avere un “visualizzato”. 

Siamo esseri sociali, abbiamo bisogno dell’altro: il telefono ci illude, facendoci credere di poter avere queste relazioni con gli altri tramite messaggi, videochiamate, post su Instagram, una vita online. La vita vera è al di fuori. Come sono al di fuori le nostre principali esigenze per sopravvivere: dormire, mangiare, respirare, stare con gli altri: sono cose che non è possibile fare col cellulare. 

Oltre che a ridurre la relazione con gli altri, il telefono azzera anche la relazione con noi stessi, che è invece essenziale per la crescita personale e per il benessere dentro e fuori. A causa del telefono non abbiamo più un momento di “nulla”. In cui non facciamo assolutamente niente, in cui siamo fermi senza alcuno stimolo dall’esterno, ma semplicemente noi, in pace. Tendiamo a considerare questi momenti come “noia”, quando sono invece i momenti in cui c’è la maggiore probabilità che ci vengano idee, illuminazioni, insomma che nascano cose belle e positive per noi stessi. Non siamo più capaci di non far nulla, appena abbiamo un momento libero infiliamo la mano in tasca e stringiamo tra le mani il cellulare, come se fosse l’oggetto che ci salva dal momento di “vuoto” in cui, altrimenti, saremmo caduti. Ma non è così. Il cellulare ci sa intrattenere, ma è un intrattenimento passivo, che ci lascia ancora più vuoti di come eravamo prima. Alziamo lo sguardo dallo smartphone e fissiamo con occhi vitrei ciò che abbiamo davanti, prima di ricollegare dove siamo e cosa stiamo facendo, uscendo dalla bolla in cui il cellulare ci isola. 

Forse sono stata troppo severa, troppo negativa, troppo pessimista. Ma queste parole mi sono venute così, istintivamente, da dentro, dopo una mezza giornata che ho passato del tutto scollegata. Avevo bisogno di quiete e pace, ho deciso (non a cuore leggero, non è una scelta così semplice e facile, purtoppo), di non guardare più il telefono fino a quando lo avessi ritenuto necessario (fino ad adesso, sono sei ore!). E sono incredula per quanto sia riuscita a respirare, ad ascoltarmi, a fare le cose con più calma; mi sono data il tempo per pensare, per stare con me, e sto davvero molto meglio di questa mattina. 

In una giornata in cui non vi serve il cellulare per esigenze strettamente pratiche, ve lo consiglio: praticate questa disconnessione per riconnettervi con il vostro io interiore. Sono sicura che gli effetti non potranno che giovare alla nostra salute e alla nostra vita. 

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