La conversazione (è) necessaria, da un libro di Sherry Turkle

Di recente ho sostenuto un esame in università dal titolo “Storia e teoria dei media digitali”; contrariamente a quanto può sembrare dal nome, si è rivelato estremamente attuale e interessante, al punto che mi ha spinto a citare in questo articolo uno dei libri di studio (cosa abbastanza inusuale: solitamente, dopo un esame, non vedo l’ora di liberarmi dei volumi letti e riletti). 

L’argomento è la conversazione, quella che avviene tra due persone, in un gruppo, con noi stessi. E’ un tema che mi è molto vicino, a cui sono sensibile soprattutto pensandolo in rapporto alla tecnologia. La tesi sostenuta dall’autrice, in sostanza, è che l’avvento dei media digitali, e soprattutto dello smartphone, abbia ridotto notevolmente la nostra capacità, voglia, necessità, facoltà, desiderio di conversare. Che la abbia, quindi, decisamente modificata, a favore di una conversazione che avviene dietro gli schermi e non più dal vivo. Questo ha causato diverse conseguenze, soprattutto in noi giovani: apatia, mancanza di lessico, chiusura in noi stessi, timidezza maggiore, non capacità di sentire e metterci nei panni dell’altro, pigrizia, indifferenza verso gli altri, e potrei andare avanti a lungo (ma qua ve lo risparmio: leggetevi il libro!) 

Io mi rendo conto quotidianamente di quanto questo sia vero, e ne sono altamente preoccupata. Mi fa paura pensare ad un mondo in cui la gente preferisce davvero videochiamarsi piuttosto che vedersi di persona, toccarsi, stringersi, sentire l’altro, che non vuol dire solamente avere un contatto fisico, ma un contatto visivo, percepire le emozioni, i battiti, guardare negli occhi e ascoltare. Mi fa paura come le persone possano preferire risolvere i propri problemi scrivendosi messaggi su Whatsapp piuttosto che dal vivo, come possano preferire comunicare i propri sentimenti tramite delle parole virtuali, che sono così fredde e quasi “fantasma”. 

Mi fa paura che non siamo più in grado di capire l’altro, e non abbiamo voglia di fare quella fatica in più per vedersi dal vivo e parlarsi in “live”, qui e ora. Perché è vero: senza telefono, e tutto ciò che gli gira attorno, è tutto molto più faticoso. È più faticoso dirsi le cose che non vanno dal vivo, ma anche le cose che vanno: quanto è difficile, per esempio, dire ad una persona quello che provi guardandola negli occhi, avendola a un passo di distanza? Ma quanto è, infinitamente, più vivo? Quanto è più vero, quanto vale di più, rispetto che stare coricato sul letto scrivendo un messaggio e aspettando una risposta, sperando di non avere un “visualizzato”. 

Siamo esseri sociali, abbiamo bisogno dell’altro: il telefono ci illude, facendoci credere di poter avere queste relazioni con gli altri tramite messaggi, videochiamate, post su Instagram, una vita online. La vita vera è al di fuori. Come sono al di fuori le nostre principali esigenze per sopravvivere: dormire, mangiare, respirare, stare con gli altri: sono cose che non è possibile fare col cellulare. 

Oltre che a ridurre la relazione con gli altri, il telefono azzera anche la relazione con noi stessi, che è invece essenziale per la crescita personale e per il benessere dentro e fuori. A causa del telefono non abbiamo più un momento di “nulla”. In cui non facciamo assolutamente niente, in cui siamo fermi senza alcuno stimolo dall’esterno, ma semplicemente noi, in pace. Tendiamo a considerare questi momenti come “noia”, quando sono invece i momenti in cui c’è la maggiore probabilità che ci vengano idee, illuminazioni, insomma che nascano cose belle e positive per noi stessi. Non siamo più capaci di non far nulla, appena abbiamo un momento libero infiliamo la mano in tasca e stringiamo tra le mani il cellulare, come se fosse l’oggetto che ci salva dal momento di “vuoto” in cui, altrimenti, saremmo caduti. Ma non è così. Il cellulare ci sa intrattenere, ma è un intrattenimento passivo, che ci lascia ancora più vuoti di come eravamo prima. Alziamo lo sguardo dallo smartphone e fissiamo con occhi vitrei ciò che abbiamo davanti, prima di ricollegare dove siamo e cosa stiamo facendo, uscendo dalla bolla in cui il cellulare ci isola. 

Forse sono stata troppo severa, troppo negativa, troppo pessimista. Ma queste parole mi sono venute così, istintivamente, da dentro, dopo una mezza giornata che ho passato del tutto scollegata. Avevo bisogno di quiete e pace, ho deciso (non a cuore leggero, non è una scelta così semplice e facile, purtoppo), di non guardare più il telefono fino a quando lo avessi ritenuto necessario (fino ad adesso, sono sei ore!). E sono incredula per quanto sia riuscita a respirare, ad ascoltarmi, a fare le cose con più calma; mi sono data il tempo per pensare, per stare con me, e sto davvero molto meglio di questa mattina. 

In una giornata in cui non vi serve il cellulare per esigenze strettamente pratiche, ve lo consiglio: praticate questa disconnessione per riconnettervi con il vostro io interiore. Sono sicura che gli effetti non potranno che giovare alla nostra salute e alla nostra vita. 

CAMERA (Centro Italiano per la Fotografia)

Torino, 13 febbraio 2024

Non ero mai stata prima d’ora all’inaugurazione di una mostra. C’é una differenza tra visitare una esposizione, girare a zonzo tra le opere esposte, e invece avere la consapevolezza del perché e del come si è scelto di far vedere proprio quel soggetto lì, proprio in quel luogo.

È quello che mi è successo martedì 13 febbraio, quando mio papà mi ha invitata all’inaugurazione di tre mostre fotografiche alla Camera di Torino. All’inizio, non mento, non sapevo bene come comportarmi: sono una studentessa universitaria che ancora non sa cosa vuole fare nella sua vita e della sua vita, ma l’interesse e l’amore che provo nei confronti della cultura in generale bastava a motivare, almeno a me, il perché fossi lì. Anzi, forse proprio il fatto di non sapere su cosa concentrarmi, su quale strada prendere, ma essere aperta a tutte, ha giocato in mio favore.

Esco da lezione di Teatro educativo e sociale con qualche minuto di anticipo, e mi avvio verso la Camera che è vicinissima alla mia università. Fuori vedo giornalisti, chi con delle cartelline in mano, chi con le videocamere e microfoni, chi semplicemente senza niente se non sé stesso e un’aria tranquilla stampata in volto. Seguo mio papà dentro, e scrivo “1000Miglia” nello spazio indicato con “testata”, nel registrarmi all’entrata: mi fa stranissimo! Pensare di essere lì per poi scrivere, è una cosa che mi sembra così lontana dalla mia vita che ora è prevalentemente studio, mentre i lavoretti che ho svolto fino a questo momento sono sempre stati qualcosa di lontano dal mio percorso di studi: il Dams. Invece ora mi sembra di stare facendo qualcosa legato a quello che sto studiando: qualcosa che c’entra con il mio possibile futuro lavoro? Chissà…

“Divertiti”, mi dice Fabri (mio papà), e allora faccio proprio come mi sento. Giro con le mani incrociate dietro la schiena, come Socrate, (o almeno, come io mi immagino facesse Socrate), e inizio a osservare le fotografie di Michele Pellegrino, che è nato proprio a Cuneo, nel 1934, e che è inoltre presente lì in quel momento. Da subito ciò che vedo mi colpisce, perché le prime foto sono quelle di montagna, ritraggono le valli che frequento io d’estate soprattutto, ma anche in inverno. C’è il Lago di san Bernolfo, sopra i Bagni di Vinadio, ripreso in una luce calda e con un’atmosfera bloccata nel tempo. Osservare la bellezza di luoghi in cui sono stata, mi ha suscitato un sentimento di gratitudine e di orgoglio per la mia terra. Proseguo e vedo volti lontanissimi da quelli che per la maggior parte del tempo invece scorrono sullo schermo del mio telefono, sulle riviste di moda, sui giornali.

Gli scatti di Michele riportano l’indole di gente che non desidera apparire, che non sa nemmeno il perché dovrebbe mai lasciarsi fotografare, e che magari, infatti, nemmeno era del tutto d’accordo. Su quei volti sono segnate le fatiche di una vita vissuta nelle terre dure e sconfinate della montagna, in alto, lontani da tutto e da tutti. La fatica concreta di procurarsi il cibo giorno dopo giorno, di riscaldare la casa, di crescere i propri figli sani e forti. Niente a che vedere con i ritratti di oggi, dove vedo tanta voglia di apparire, tanta ansia di ricevere approvazione per avere degli occhi così ben truccati, dei corpi così tonici, perfetti, una pelle liscia e senza cicatrici.

Ciò che vedo mi riporta con la mente ad una realtà che sembra essere ormai lontana nel tempo, e nello spazio, ma non del tutto estinta; mi fa venire voglia di cercare quelle persone che ancora non sono state toccate dalla società di oggi, così piena di falsità e superficialità, quelle persone che ancora pensano un pensiero alla volta: prima mungo la mucca, poi faccio il formaggio, poi pianto i semi, poi accendo il fuoco. Mi affascina sapere che ancora esistano persone così. Proseguo e i miei occhi incontrano gli edifici austeri e isolati dei monasteri, e poi gli sguardi indecifrabili delle coppie in prossimità del matrimonio; chissà cosa passava nelle loro menti, quali erano i loro pensieri, se da lì a poche ore si sarebbero sentiti liberi e infinitamente felici oppure se sarebbe iniziata per loro una vita che non avrebbero mai desiderato.

Quando ascolto, durante la conferenza stampa, i racconti di Michele, tutto mi sembra ancora più vero e concreto. Racconta di come lui ha sempre cercato di cogliere la verità, che non necessariamente significa bellezza. Parla di quando era arrivato in Valle Stura “un americano”, come lo chiama lui, che aveva iniziato a fotografare la montagna, e se ne era innamorato. Le sue foto erano state esposte, premiate, all’interno di alcune mostre, e ogni anno il fotografo tornava a Cuneo, chiamato per documentare la bellezza dei paesaggi alpini. Michele afferma che quando vide le fotografie scattate dallo straniero, non riconobbe i luoghi che lui pure conosceva come le sue tasche, avendo passato la vita in quei posti (riporta l’esempio di Vinadio: “nella didascalia c’era scritto Vinadio, ma a me non pareva proprio per niente Vinadio!”).  Questo perché lui era sempre stato interessato a riportare la vita di chi ci viveva, in montagna, di chi sapeva cosa voleva dire avere a che fare ogni giorno con le fatiche e le sofferenze che un luogo così porta, mentre “l’americano”, aveva colto forse solo la bellezza superficiale della Valle, senza indagare a fondo cosa significasse davvero un filo d’erba, una roccia, una sorgente, per gli abitanti.

Bello come Michele abbia deciso di donare tutto il suo portfolio alla fondazione CRC nel 2017, così che “finalmente”, dice lui, “la gente ha potuto conoscere cosa stava succedendo davvero nelle valli cuneesi, che si stavano lentamente, ma inesorabilmente, spopolando”. Lo dice con orgoglio, con soddisfazione, ma non lascia trasparire il dolore che, sotto sotto, tutto questo gli provoca. E la collaborazione con Camera sicuramente riesce a realizzare la volontà più forte e urgente del fotografo, quella di raccontare tutto ciò che lui aveva ascoltato, visto, vissuto, nell’arco di una vita. E nel profondo io mi sento di ringraziare Michele, per la forza che ha avuto nell’intrufolarsi nelle case di chi non accetta altri, di chi non desidera farsi conoscere, di chi non può incontrare nessuno all’esterno della clausura. Per aver avuto il coraggio di portare avanti la passione, pensandola proprio come una priorità, senza fretta e aspettando il momento perfetto, oppure cogliendo proprio l’istante di uno sguardo, una lacrima, un pensiero che si fa fotografia.

Non è una recensione di Perfect days

Andare al cinema la domenica sera, in inverno, col freddo fuori e la pioggia, suona proprio bene. Io e la mia amica andiamo con largo anticipo, siccome il giorno prima i miei non sono riusciti a vedere il film per la troppa gente che aveva prenotato il biglietto prima di loro. Paghiamo e attendiamo fuori. Non so cosa aspettarmi: ho visto il trailer, ma non conosco bene il regista, non ho visto nessun altro suo film, nonostante mio padre rimarchi sempre la bellezza della storia di “Il Cielo sopra Berlino”. Sono però convinta che valga la pena guardare Perfect Days, perché la mia amica è appassionata di cinema più di quanto lo sia io e ha insistito perché andassimo insieme. Ci avviamo nella sala, ben riscaldata, le luci si spengono, sullo schermo compare lo stemma del Festival di Cannes, inizia la magia. 

Le recensioni che avevo letto non mentivano: non smetteresti mai di guardarlo. Ed è stato così anche per me. Nonostante nelle immagini che vedevo, non ci fosse un’adrenalina che non ti fa stare fermo, né un’ansia per un giallo da svelare, né la paura di un thriller. C’è la vita quotidiana di una persona umile, che ha trovato il suo modo di esistere nel mondo. Da subito mi sono sentita vicina, empatica nei confronti di Hirayama, calma e quieta nel vedere il suo modo di vivere la vita.

Lunghi piano-sequenza, che rivelano nulla di più che le azioni quotidiane che anche io ogni giorno compio: svegliarsi, lavarsi i denti, vestirsi, lavorare, mangiare, scattare fotografie, bersi qualcosa al bar, leggere un libro prima di dormire. Eppure il tutto è straordinario, perché il modo in cui il protagonista compie tutto ciò non è, probabilmente, il modo in cui lo facciamo noi: è sereno, sempre, e calmo, felice, tranquillo. Ma soprattutto, in ogni suo gesto c’è una cura e una delicatezza che mi manca, che manca a questo mondo in cui le cose si fanno perché si deve, non perché si vuole. Le cose che faccio sono per lo più fatte senza cura, di fretta, senza attenzione,  invece Hirayama mi insegna il contrario. Mi dice che ogni giorno conta. Che ogni attività che svolgo è importante, senza gerarchia, che ogni cosa che faccio necessita della stessa cura. Anche se il suo lavoro è lavare i bagni pubblici, ogni giorno, tutto il giorno, per una paga piccola e ristretta. Mi insegna che non bisogna fare qualcosa di assurdo, per essere sereni. Perché essere felici è una mia volontà, dipende solo e soltanto da me. E vorrei smetterla di incolpare cause esterne, altre persone, il fato, il destino. Smetterla di pensare al prossimo periodo di vacanza, al prossimo mese senza esami, al prossimo viaggio, rimandando la felicità solo quando avrò raggiunto quel periodo, quella libertà, quel momento, quella persona. “Adesso è adesso”, come dice Niko, la dolce nipote di Hirayama. Non ha senso focalizzarsi su ciò che manca, ed essere sempre infelici. Allora guardo piuttosto a tutto ciò che ho. Mi concentro su poche cose, ma fatte bene. Il segreto sta proprio nelle piccole cose, “quelle che fanno bella la nostra vita”. 

Grazie alla luce sempre calda che a volte è data dallo sguardo stesso del protagonista, e grazie alla quasi assenza delle parole, dei dialoghi, tutto è reso semplice, tutto scorre via veloce e leggero. L’atmosfera che arriva è calorosa e calma, non c’è fretta, né paura. C’è consapevolezza di stare vivendo attimo per attimo un momento unico ed inimitabile. Ho imparato quanto è bello il silenzio, quanto è difficile praticarlo, perché in realtà davvero parliamo troppo, diciamo troppo, non siamo più in grado di ascoltare o ascoltarci, troppo presi dal far valere la nostra opinione, far conoscere la nostra vita, condividere quello che facciamo. Non sappiamo stare da soli. Ma è solo in questa capacità che, forse, ritorniamo noi stessi, nella nostra semplicità di essere umani. Uomini e donne che si svegliano la mattina, si lavano, lavorano, danno spazio alle proprie passioni, e dormono. Quanto cambierebbe la mia vita se fossi in grado di apprezzare ogni piccolo gesto, di dare importanza a ogni piccola cosa che faccio? Quanto sarei più felice e serena se riuscissi a non pensare sempre al dopo, al domani, al futuro, ma godere della possibilità di adesso? 



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