Caro prof,

ormai siamo quasi a metà dell’anno scolastico e ho il piacere di consegnarti con umiltà queste lettera con la speranza che tu possa leggerla, gustarla, apprezzarla o stracciarla, a patto che le tue mani possano toccarla concretamente, come ti auguro di fare con tutte le ferite e le gioie degli allievi che da lunedì ti ritroverai in classe.

A partire da gennaio si può parlare di secondo tempo in ambito scolastico: dopo la pausa di 15 giorni per le vacanze natalizie, dove ci si rifocilla un po’, non con un tè caldo ma con panettoni e cenoni interminabili, inizia la vera partita, quella che stabilisce il vincitore al triplice fischio finale di giugno. Ogni allievo avrà un obiettivo diverso e anche ogni professore ambirà a un risultato differente. Non oso neanche citare la volontà di qualche insegnate di diminuire il numero di allievi in classe perché ingestibile o il desiderio di regalare alti voti per lavarsi le mani di fronte alla possibilità di esami di riparazione a settembre. Almeno spero che la tua ambizione sia quella di lasciare il segno nel cuore dei tuoi ragazzi, di iniziare in loro il compimento di un progetto di vita futuro che non si fermi al completamento del programma o al raggiungimento di un voto superiore alla sufficienza.

Desidero, però, condividere con te anche questa piccola riflessione che un preside di liceo americano aveva l’abitudine di scrivere, a ogni inizio di anno scolastico, in una lettera ai suoi insegnanti: “Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi da diplomati di scuole superiori e università. Diffido – quindi – dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani” (Les mémoires de la Shoah, in “Le Monde” del 29 aprile 1995).

Credo che il testo parli abbastanza da sé e non saprei che altro aggiungere di fronte a tanta verità. Infatti la verità è così: ormai dimenticata, perché ritenuta impotente in un mondo di maschere pirandelliane, da poter disarmare anche i più forti.

Di sicuro potrebbe essere facile ribattere a questo preside sostenendo che la quotidianità di una classe di adolescenti in cerca di se stessi non è una confortevole crociera verso il diventare persone adulte e mature, ma una lotta dove, per farsi valere, è necessario utilizzare il pugno di ferro.

Prof, per piacere, non cercare giustificazioni. Combatti anche tu con te stesso come tutti quei trenta allievi che lottano con se stessi già la notte, magari non chiudendo occhio prima di venire a scuola perché persi in una battaglia senza speranza, dove il sogno di realizzarsi nel proprio futuro si scontra con l’unisona voce di un mondo consumistico e iperattivo che fa del piacere la propria unità di misura, annientando gran parte dei desideri realmente umani.

Tra le mani, prof, hai tutto per poter rendere i tuoi ragazzi umani: la tua storia, la tua passione, la tua identità. E se tutte queste cose non bastassero o fossero segnate da tormenti, non ti resta che affidarti a quegli studi che ti hanno accompagnato per tutta l’università fino a condurti a diventare insegnante. Dante risolve ogni problema d’amore, Pitagora trova soluzioni quando sembrano impossibili e Brunelleschi costruisce cupole anche quando ogni progetto risulta irrealizzabile. Per piacere, racconta tutte queste bellezze con la tua voce che si spezza di fronte a un verso indescrivibile o a una costruzione memorabile, con quelle parole che ti appartengono, che sono talmente tue da salvare gli allievi e te stesso facendo memoria del significato più profondo nascosto dietro alla lezione che mi stai spiegando. Vorresti farmi credere tu, professore di biologia, non ti sei mai emozionato davanti alla meraviglia dell’incontro tra un ovulo e uno spermatozoo o tu, professore di fisica, non ti sei mai esalto di fronte a semplici formule che spiegano la luce e la sua propagazione nell’universo? Appassiona con questi racconti, con queste teorie i tuoi ragazzi. Usa parole vere, donacele, ormai mancano in noi. Sempre più leggiamo per informarci, ma sempre meno gustiamo le parole. C’è una grande carenza nel vocabolario di noi giovani. Abbiamo poco per volta perso la ricchezza del nostro linguaggio verbale saziando il vuoto prima con Ruzzle e adesso attraverso le emoticon di Facebook: non ci sforziamo neanche più di cercare le parole, esprimiamo i nostri pensieri con un semplice clik su un pollice alzato o un cuore.

La parola è nient’altro che un suono che rimanda ad una realtà, eppure non sappiamo più rimandare il nostro pensiero a nessun altro significato oltre quello che si presenta davanti ai nostri occhi. Creatività e immaginazione sono scomparse: forse perché il programma da portare a termine durante l’anno scolastico non permette piccole evasioni, anche se approfondimento di un argomento proposto?

Chi fa delle proprie parole un’arte e un mestiere cerca di raccontarci la realtà, di entrare nelle nostre menti con “canzonette” pop che passano in radio. Eppure a volte le rifiutiamo perché apparentemente banali, non musicalmente elevate o, forse, le sentiamo senza ascoltarne una parola. Pensare che la stessa cosa succedeva alle vicende di Ulisse nell’antico mondo greco: una narrazione troppo banale per essere considerata espressione della realtà all’epoca, riscoperta come guida e opera eccelsa oggi.

In uno dei suoi ultimi singoli, J-AX, insieme a Fedez, Stash e Levante, canta: “Da bambino ero felice quando nevicava, adesso blocca il traffico, rovina la giornata”. Parole semplici, ma così vere che ormai non hanno quasi più peso perché la nostra umanità sembra essersi abituata a questa realtà, come se non valesse più la pena alzare lo sguardo per meravigliarsi di fronte a quelle manifestazioni sorprendenti della natura e di quel pianeta che ci ospita. Troppo spesso la stessa situazione si ripresenta in classe tra i banchi. Ragazzi disillusi di fronte a opere e scoperte che hanno radicalmente cambiato il vivere dell’uomo cercando di spiegarne i misteri più profondi, con insegnati scoraggiati che non sanno ritrovare il rotolo della matassa.

Partendo dal presupposto che le vicende politiche e ministeriali sembrano troppo spesso dimenticarsi della scuola, perché non ripartire da coloro che fanno la scuola? Senza allievi e insegnanti la scuola, infatti, non esisterebbe.

Per piacere, prof, questa volta non cercare surrogati. Ogni allievo si affida a te, si mette nelle tue mani. Non hai mai pensato alla grandezza e alla bellezza della tua responsabilità? Rendere umano un adolescente in cerca di risposte esistenziali nella vita. Certo, non sazierai tutti i vuoti e non darai risposta a tutti i dubbi, ma tu, prof, puoi iniziare a tracciare il sentiero.

Un proverbio ebraico recita che chi semina datteri non mangia datteri, ma non per questo un papà si rifiuta di piantarli per i propri figli. Ecco, come studente posso prometterti che se tu ci sei e non ci fai, se ti mostri fragile, mi presenti i problemi, ma non mi abbandoni ad un altro anno frustrante che mi rende ancor più frustrato nella vita, noi studenti torneremo un giorno da te e ti abbracceremo sussurrandoti qualcosa di simile al testo dell’ultimo singolo di Robbie Williams: “Pregherò (desidererò) di darti tutto ciò di cui tu hai bisogno, così un giorno tu mi dirai: – Amo la mia vita, sono pieno di energie, sono bello, sono libero”.

Queste parole sono l’espressione migliore per ricordarti, caro prof, che tutto quello che donerai ai tuoi alunni tornerà a te.

Ti auguro il meglio prof, di camminare, correre e volare in questo secondo tempo. Ti assicuro che così “sbaraglierai tutto ciò che non era vita e non scoprirai in punto di morte che non eri vissuto” (Thoreau) e che noi studenti non chiediamo tutto a te, sappiamo che anche tu sei fragile e sei umano, ma solo tu puoi appassionarci in una singolare maniera.

Prova a fidarti per una volta dei tuoi studenti: il meglio arriverà. Ricordiamoci a vicenda che “che tu sei qui, che la vita esiste e l’identità, che il potente spettacolo continui e che tu puoi contribuire con un verso” (Whitman) e il viaggio in questo mare sarà leggero, essenziale. Diventerà quasi bello naufragare nel mare della scuola.