11 Dicembre 2021 | Senza categoria, Vorrei, quindi scrivo
L’idea della mia rubrica di cucina nasce dal voler influenzare le persone a mangiare cose sane e buone senza richiedere troppo e di conseguenza sfruttare la terra.
Quali sono gli accorgimenti che utilizzo per avere un occhio di riguardo verso il pianeta? Innanzitutto, cerco di utilizzare meno plastica possibile. Allo stesso tempo per avere meno rifiuti non riciclabili tendo a comprare solo le materie prime e poi cucinarle per creare cibi particolari e saporiti. Elimino quindi merendine, dolci imbustati, cibi già pronti e verdura o frutta già imbustata!
Per evitare di farmi attirare da cibi già pronti cerco di non fare la spesa in grandi supermercati, ma acquistare in piccoli negozi locali. E qui arrivo al punto per cui ho scritto tutta questa introduzione.
La ricetta di oggi è una ricetta semplice per creare delle caramelle al miele, molto benefiche, in quanto, da anni si sa che il miele è un ottimo rimedio naturale per la tosse e il mal di gola. Come molti di voi sapranno le api sono in via di estinzione, tocca a noi quindi avere un occhio di riguardo anche per loro. Personalmente per incentivare il sistema dell’apicoltura e aiutare il mio benessere, mi impegno a comprare il miele da amici apicoltori e piccoli produttori locali, affinché io possa essere sicura della provenienza del miele e della sua qualità. Invito quindi anche voi ad aiutare le piccole aziende locali.
Detto questo partirei con la produzione delle caramelle al miele! Quando ho fatto per la prima volta questa ricetta ho subito pensato che non sarebbe stato facile, invece devo ricredermi, quindi non scoraggiatevi e seguitemi!
Gli ingredienti:
- 75 gr. Zucchero
- 40 gr. Acqua
- 30 gr. Miele
- Zucchero a velo
Occorrente:
- Pentola
- Stampo per cioccolatini
- cucchiaio
Procedimento:
Per prima cosa versiamo lo zucchero all’interno della pentola e subito dopo aggiungiamo all’interno l’acqua. A questo punto accendiamo il fuoco a fiamma media (chi come me ha una piastra ad induzione io utilizzo la potenza media).
Mescoliamo per amalgamare un po’ lo zucchero con l’acqua e portiamo ad ebollizione, a questo punto aggiungiamo il miele e mescoliamo per amalgamare al meglio il miele. Portiamo ad ebollizione alzando del tutto la fiamma o la potenza.
Una volta arrivati ad ebollizione mettiamo la fiamma a potenza media e facciamo cuocere per una decina di minuti mescolando fino ad addensamento.
ATTENZIONE A NON FAR BRUCIARE IL CARAMELLO! Il composto alla fine sarà di colore marrone chiaro, ambrato. A questo punto togliamo dal fuoco e trasferiamo il composto nello stampo in silicone. Una volta creati gli stampi lasciamo raffreddare le caramelle. Quando saranno raffreddate le togliamo dallo stampo. Dopo averle tolte dallo stampo io le trovo troppo appiccicose; quindi, le impano nello zucchero a velo per non farle attaccare tra loro.
Per la conservazione incarto le caramelle nella carta da forno e le ripongo all’interno di un barattolo con coperchio (la classica burnia per i Piemontesi).
Si possono anche fare queste caramelle per regalarle, quindi si può abbellire il contenitore utilizzato della stoffa e dello spago per decorare il tappo e farlo risultare più rustico, “della nonna”. Per personalizzarle si può mettere un’etichetta colorata e scherzosa.
Per arricchire ancora di più il gusto delle caramelle ho provato a farle con diversi tipi di miele. Vanno benissimo tutti i tipi, dall’acacia al millefiori al castagno ecc…
In più sono ottimi anche diversi tipi di miele aromatizzato come ad esempio quello alla fragola, ai frutti di bosco ecc… Questi tipi di miele sono reperibili da pochi apicoltori, ma non è impossibile trovarli!
Ricetta ispirata dal blog il chicco di mais
14 Ottobre 2021 | Vorrei, quindi scrivo
Ispirata da Yari Ghidone.
Scrivo qui per la prima volta, ma dovete conoscere fin da subito il mio amore incondizionato verso la pizza. Tutte le volte che scelgo di fare la pizza ho voglia di mangiarla il prima possibile, quindi faccio un impasto semplice che deve lievitare per soltanto 2 ore. Il bello di questa pizza è la semplicità della cottura: essendo fatta all’interno di una padella non è necessario essere a casa, ci basterà avere un fornello con una padella e potremo fare questa pizza anche in campeggio.
Ingredienti
per l’impasto:
- 250 gr di farina
- 150 gr di acqua
- 18 gr di olio
- 5 gr di sale
- 1 gr di lievito
per il condimento:
- passata di pomodoro
- olio extra vergine di oliva
- origano e spezie a proprio piacimento
- mozzarella fior di latte
- condimenti a proprio piacimento
Procedimento
Inseriamo in una ciotola tutti gli ingredienti descritti in precedenza con lo stesso ordine.
Impastiamo il tutto con le mani all’interno della ciotola, l’impasto risulterà un po’ appiccicoso, ma non preoccupatevi.
Una volta creato il panetto copriamo la ciotola con uno strofinaccio da cucina.
Lasciamo adesso l’impasto a lievitare per circa 3 ore a temperatura ambiente.
Passate queste ore, dividiamo il panetto in due e iniziamo a stenderli creando una forma circolare.
Per la stesura dell’impasto fatevi aiutare dalla farina, in questo modo non si attaccherà.
(da qui in poi le operazioni dovranno essere eseguite due volte in quanto abbiamo due panetti)
Ora prendiamo una padella e mettiamoci un po’ di olio.
Poggiamo ora sulla padella l’impasto steso in precedenza e accendiamo il fuoco a fiamma minima.
A questo punto prendiamo una ciotola in cui versiamo al suo interno un po’ di olio, dell’origano e spezie a piacimento.
Nel frattempo tagliamo anche della mozzarella a cubetti.
Versiamo ora il pomodoro sull’impasto, aggiungiamo i cubetti di mozzarella e infine chiudiamo il tutto con il coperchio.
Lasciamo cuocere per circa 40/50 minuti a fiamma minima.
Una volta terminato il tempo togliamo il coperchio, aggiungiamo alla pizza gli ingredienti fuori cottura a piacimento (es. prosciutto crudo o patatine fritte).
Le pizze sono finalmente pronte per essere gustate.
7 Luglio 2020 | A caccia di eventi
Dopo questo periodo particolare la voglia di bersi una birra, magari all’aperto, è più forte che mai…e a Rosbella, frazione di Boves immersa nella natura, sta prendendo forma un locale che sembra fatto apposta per rispondere a questa esigenza, e a molte altre! Ho intervistato i due giovani futuri gestori di questa nuova realtà, i fratelli Edith e Leo Gastinelli. Due ragazzi ambiziosi, creativi, che stanno lavorando duro per questo progetto che unirà tradizione e innovazione, cultura e prodotti locali di qualità, in un’ottica 100% green!
1) Raccontatemi di voi…come vi siete formati e com’è nata l’idea della ROSBettola?
EDITH: Io ho studiato al liceo artistico, che non rispecchia molto quello che ho fatto dopo, a parte l’aspetto creativo. Nei miei primi anni di liceo ho conosciuto Andrea Bertola, mastro birraio di fama internazionale: aveva passato un’estate a Rosbella e una sera con lui, già 10 anni fa, era saltata fuori l’idea della ROSBirra, per gioco. Grazie ad Andrea mi sono avvicinata al mondo della birra artigianale, che per me a quell’età era sconosciuto: in Italia è una realtà degli ultimi 10-15 anni, non è una tradizione radicata come quella del vino, ad esempio. Durante il liceo ho iniziato a seguire Andrea per birrifici locali, a frugare nel suo mondo. Mi piaceva pensare di poter ambire a diventare il suo aiuto. Finita scuola ero indecisa se continuare con gli studi di grafica e fotografia o se immergermi nel mondo della birra. Ho scelto la seconda opzione e ho seguito Andrea nell’unico birrificio artigianale di Gozo, piccola isola vicino a Malta, dove lui faceva da consulente. A Malta arrivò, l’anno successivo, anche un altro consulente: dal suo rigore tecnico e dal genio creativo di Andrea ho potuto imparare moltissimo. Dopo questa prima esperienza full immersion nel mondo della birra, ho trascorso un periodo in Cile, per poi tornare in Italia. Tornata qui è partita l’avventura al birrificio Troll: sapevo che cercavano personale e a me mancava lavorare in birrificio, il suo profumo, la sua atmosfera, e quella sensazione che ti dà fare il lavoro che ti piace, avendo tra l’altro avuto la fortuna di trovarlo subito. Durante le mie esperienze nei birrifici ho potuto apprendere e sperimentare tutte le fasi di produzione e confezionamento della birra: se vuoi produrre in modo autonomo devi saper gestire ogni fase, ed è anche il bello di questo lavoro per me. Se imposti il lavoro con una settimana di produzione al mese sai che ogni settimana è diversa, una settimana produci, una rifermenti, una imbottigli, una etichetti. E poi c’è la soddisfazione di riuscire in un lavoro duro, considerato “da uomini” perché fisicamente pesante in alcuni aspetti: alzare sacchi da 25 kg per macinare i malti, ad esempio. Ma se pensiamo alla storia del prodotto, nella tradizione dell’antico Egitto e della Mesopotamia erano le donne a fare la birra. Oltre all’esperienza al Troll, un altro passo importante per la nascita della ROSBettola è stata la mia partecipazione a ReStartAlp, un campus per l’imprenditoria giovanile sulle Alpi, un incubatore d’impresa per la rivitalizzazione della montagna. Io non avevo una base di studi di economia o imprenditoria e in quei tre mesi intensivi al campus ho imparato molto: analisi dei costi e dei mercati, fare un business plan… rendermi conto se un progetto è realizzabile concretamente a livello di costi e allestimenti. Non ho vinto il campus, il che è stata una fortuna perché mi sarebbero arrivati subito i finanziamenti e avrei dovuto partire quattro anni fa, mentre così abbiamo avuto ancora qualche anno per macinare l’idea. Alla fine dell’anno scorso abbiamo partecipato a un bando del GAL, entrando in graduatoria: ci ha assicurato fondi europei che hanno coperto una parte dell’investimento che abbiamo fatto per la ROSBettola. Dovevamo aprire a maggio ma con la quarantena siamo rimasti bloccati, e a maggio sono iniziati i lavori. Anche con la pandemia siamo rimasti fiduciosi e nonostante questa sfortuna alla fine è stato un periodo utile perché le persone stanno rivalutando tantissimo la montagna. Hanno voglia di un posto all’aperto dove bere birra buona e mangiare cose sane.
LEO: Io ho fatto l’alberghiero, che calza a pennello con quello che andrò a fare adesso e con le prospettive di sviluppo della ROSBettola. Da quando sono piccolo sono appassionato di cucina, quando andavo a trovare mia nonna cucinavamo sempre insieme. Ho appena finito scuola ma durante il percorso scolastico ho potuto fare esperienza. Ho seguito il consiglio di un cuoco di Cuneo, amico di famiglia, scegliendo di fare stage in panetteria e in macelleria: luoghi dove non si fa ristorazione in senso stretto, ma che ti permettono di conoscere nel dettaglio il prodotto che vai a finalizzare. Alla ROSBettola proporremo il ROSBread, un pane speciale che avrà nell’impasto le trebbie della ROSbirra. Dopo esperienze al panificio A Fuoco Vivo a Peveragno e alla macelleria Martini a Boves, ho avuto la possibilità di sperimentarmi in cucina, ma all’estero. Sono andato in un ristorante a Barcellona, una prima esperienza in cucina bellissima e particolare, perché ho dovuto confrontarmi con la lingua straniera. Poi ho continuato in un hotel a Cervinia, in una brigata enorme dove mi sono trovato bene e, nella stagione estiva, a Punta Ala, in Toscana. Ho capito però che non è nelle cucine così grandi che mi esprimo al meglio. Sono tornato a Boves e ho aiutato per un periodo mio zio in pasticceria. Qui alla ROSBettola avrò la possibilità di fare piccola ristorazione, posso iniziare a tirare fuori tutta la mia passione, potrò fare cose nuove, creare proposte interessanti.
2) Che cosa offrirà la ROSBettola a chi verrà a conoscerla?
EDITH: Alla ROSBettola ci sarà la ROSBirra: la produco nel birrificio del Troll ma è una ricetta inedita che ho studiato io. Nella ROSBirra ci sarà un ingrediente speciale che la rende unica, un ingrediente veramente a chilometro zero, raccolto a 5 metri dalla ROSBettola. Avremo un grande prato e offriremo modalità alternative di piccola ristorazione: non per forza seduti al tavolo, dentro o fuori, ma chi vorrà potrà avere il suo cestino da picnic e il suo plaid per mangiare e bere nel prato. All’inizio sarà più un pub-birreria con taglieri di salumi e formaggi d’alpeggio, hamburger, panini gourmet, il tutto con la massima ricerca nella qualità degli ingredienti, selezionati a livello locale. Poi speriamo di avere la possibilità e le motivazioni per ingrandirci un po’ e ristrutturare la nostra tavernetta, creando lì la cucina vera e propria, magari preparando anche prodotti in barattolo: le ROSBontà. Non vogliamo collaborare con multinazionali, al posto delle classiche Coca e Fanta vorremmo offrire nuovi prodotti, succhi con le materie prime della zona, Kombucha (bevanda ricavata dal tè fermentato, molto dissetante). Vogliamo davvero fare scelte green, crediamo che sia l’unico modo che abbiamo noi giovani per invertire la tendenza che sta portando alla distruzione del pianeta. Sappiamo che l’abbiamo sporcato troppo, sprecando moltissimo, e adesso ci tocca fare quel passo indietro, ritornare alla terra, alle scelte locali. E la ROSBettola è un’occasione d’oro per concretizzare il cambiamento e trasmetterlo. Un concetto che abbiamo a cuore è quello della globalizzazione al contrario. È l’idea delle osterie di una volta: ognuna aveva il proprio vino, di propria produzione, che trovavi solo in quella specifica osteria. Non troverete i nostri prodotti nei locali di Cuneo, Boves, Peveragno: i prodotti della ROSBEttola rimarranno qui a Rosbella e dovrete vivervi l’esperienza della montagna per poter godere anche dei suoi frutti. Spesso, quando si inizia a produrre qualcosa, lo si pensa subito in scala industriale, invece qui l’idea è opposta, far salire la gente, rivalutare il territorio. La ROSBettola sarà anche un centro di cultura e socialità, un centro nevralgico di incontro. Stiamo già collaborando con professionisti di diversi ambiti (come Valeria Pretato, insegnante di yoga). Da una parte offriremo esperienze aggiuntive a chi verrà qui a bere e mangiare, dall’altra daremo uno spazio a chi fa attività, anche nuove e di nicchia.
LEO: Il nostro intento è proprio quello di riavvicinare le persone alla montagna, staccarle un po’ dalla città. Per me la grossa soddisfazione sarebbe vedere i miei amici, i ragazzi giovani, che ritornano ad apprezzare la natura. Speriamo di aprire ad agosto: io sto dando una mano a tutti, non vedo l’ora di aprire. Saremo anche negozio di prossimità. Per me è tutto perfetto: sono felice, carico e motivato!
3) Voi siete nati da queste parti ma avete viaggiato un bel po’. Perché la scelta di tornare e creare qualcosa di vostro proprio a Rosbella?
EDITH: Credo che la scelta dei miei genitori di lasciarci sempre liberi di andare sia stata vincente. Perché quando obblighi qualcuno a stare in un posto emergono i lati negativi, invece se tu parti, poi apprezzi anche quello che hai lasciato. Mi è rimasta impresso un concetto che lessi tempo fa in Lalla Romano: non si torna se non nel luogo dal quale non si è mai partiti. Io non sono mai andata via di qui per scappare, perché qualcosa qua non mi piaceva, sono partita per imparare, ma ho sempre avuto l’idea di riportare qua le esperienze e le conoscenze maturate in giro. Non sapevo che sarebbe stato adesso, forse avrei voluto viaggiare ancora molto prima di dare vita alla ROSBettola, però l’occasione è arrivata ora e sarebbe stato un peccato non coglierla. Entrambi teniamo molto a Rosbella, e la nostra famiglia è stata nel 2000 la prima a ripopolare stabilmente la borgata, che oggi conta già quindici residenti. I miei hanno spostato il loro studio di produzione video da Boves a Rosbella nel 2009 e hanno lavorato tutta la vita sul rivalutare la montagna e dimostrare che di montagna si può vivere. La nostra missione è provare che anche se siamo giovani non dobbiamo per forza andare a lavorare nelle città e che si può vivere e lavorare in montagna, reinventarsi nella montagna, rivalutandola. Il presidio è importantissimo per non far morire una zona montana. Ci sono anche tanti altri esempi di borgate che sono rinate grazie al turismo e purtroppo anche tanti altri di borgate che sono morte perché non c’è più stato presidio. Noi speriamo di riuscire ad arrivare alla fine della missione dimostrando che a Rosbella dal niente che c’era possiamo arrivare ad avere bed & breakfast, osteria, birrificio: vita vera.
LEO: Ho girato molto anch’io, grazie anche al permesso e all’incoraggiamento dei nostri genitori. Non è semplice: devi uscire dalla tua zona di confort, superare magari la paura di sbagliare o fare figuracce e buttarti. Io ad esempio con le lingue straniere sono una frana, però ce l’ho sempre fatta. Ma se devo essere sincero per me non ci sono posti migliori di Rosbella. Questo posto fa parte di me, siamo una cosa unica: ha sempre cullato i miei limiti e tirato fuori le mie migliori risorse, il meglio di me.
11 Aprile 2020 | Vorrei, quindi scrivo
In questi giorni stando a casa ho avuto modo di dedicarmi a molte cose che avevo lasciato indietro. Una di queste è la cucina. Fin da piccola amavo cucinare e vedere la mia famiglia mangiare tutto con un sorriso. Tuttavia è un’attività che porta via molto tempo e quindi prima di questo periodo avevo lasciato perdere a causa di vari impegni.
Al giorno d’oggi siamo molto influenzati dai social media, che tra le tendenze propongono carrellate di ricette e piatti diversi da preparare. Nel vedere fino alla nausea cibo su cibo ho deciso di rimettermi ai fornelli.
Da buona italiana ho preparato alcuni piatti tipici, in particolare due delizie che sono diventate gli stereotipi dell’italiano per uno straniero: la pasta e la pizza.
Così è nata la curiosità di sapere come e quando sono nati questi due cibi attraverso un piccolo viaggio culinario.
La parola pasta viene dal latino păstam, cioè mettere insieme acqua e farina dandogli una forma. La storia della pasta inizia in tempi molto antichi quando l’uomo da nomade diventa agricoltore. I Greci e gli Etruschi erano già abituati a produrre e a consumare i primi tipi di pasta. Invece i Romani preparavano e mangiavano la lagana, l’antenata della moderna lasagna, composta da sfoglie di pasta imbottite di carne, cotte nel forno. Furono gli Arabi del deserto ad essiccare per primi la pasta per destinarla ad una lunga conservazione, poiché nelle loro peregrinazioni non avevano tempo per confezionare ogni giorno pasta fresca. Con il tempo la pasta secca diventa prerogativa produttiva delle regioni del Sud Italia e della Liguria dove il clima secco e ventilato permettevano l’essiccazione all’aria aperta.
La pasta esiste dunque da secoli ma fiorisce in particolar modo nel Rinascimento e solo nel XVII sec. diventa un cibo di massa.
Anche la pizza ha una storia millenaria che l’ha resa uno dei simboli più importanti del nostro paese in tutto il mondo. Solo con la scoperta dell’America arriva in Europa il pomodoro quindi prima del 1492 erano diffusi il pane e la focaccia. Con l’arrivo di questo nuovo ingrediente si iniziò davvero a parlare di pizza, anche se la mozzarella arriva solo nel 1800. La prima ricetta della pizza come la conosciamo oggi risale al 1858 quando a Napoli si prepara “la vera pizza napoletana”. Dopo che i pizzaioli napoletani avevano diffuso la pizza, si arriva alla sua approvazione nel 1889, in occasione della visita del re Umberto I e della regina Margherita. Momento prezioso nella storia della pizza poiché in quell’occasione la pizza pomodoro e mozzarella diventa la cosiddetta “pizza margherita”.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale si ha una seconda ondata di diffusione di questa prelibatezza e a partire dagli anni ‘60 le pizzerie arrivano in tutto il mondo.
Questo cibo ormai irrinunciabile diventa così patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
Le due storie si assomigliano per certi versi perché entrambi sono cibi nati dal popolo, dalla gente e non da un singolo inventore. Grazie anche alla versatilità con cui questi piatti possono essere preparati hanno avuto un successo enorme.
Quindi cosa state aspettando… Correte anche voi a cucinare una bella pizza con ingredienti freschi e profumati che miglioreranno la vostra serata!
testo a cura di Alice Taricco
14 Gennaio 2019 | Hidden corners
Mauro abita a Casa Betania da un anno e mezzo, Luca da un mese.
«La vita è imprevedibile, a volte succedono cose che non dipendono da te» ci dice Mauro guardandoci con due occhi azzurrissimi. È seduto al tavolo della cucina e con le mani liscia la tovaglia. Noi siamo sedute di fronte a lui, Luca è su una poltrona lì di fianco.
«Ci siamo ritrovati a vivere qui insieme. Di solito non è facile abitare con altre persone, bisogna rispettarsi e trovare un equilibrio tra le necessità di tutti» continua Mauro.
Loro l’equilibrio l’hanno trovato nell’ordine. Piegano gli stracci della cucina sulla destra del lavandino dopo averli usati, impilano i cioccolatini sul vassoio, danno ad ogni alimento un posto ben preciso nella dispensa, puliscono il bagno subito dopo esserci andati.
Le loro stanze profumano d’incenso. Due aromi diversi. Si sente che l’hanno acceso da poco, l’hanno appoggiato sulla scrivania con la stessa cura e precisione con cui hanno rimboccato le coperte dei loro letti e piegato i vestiti nell’armadio.


Con loro vive anche Alessandro, un ragazzo disabile, di cui Mauro si sente il fratello maggiore: «gli metto le lenzuola in lavatrice, gli ricordo di farsi doccia e tagliarsi la barba. Mi prendo volentieri cura di lui, non ha nessuno».
«Mi sembra di aver trovato una famiglia — dice Luca sorridendo — Stiamo bene insieme, abbiamo le nostre abitudini».
La sera, tornati dal lavoro, Mauro cucina e Luca lo aiuta, quando è tutto pronto chiamano Alessandro e mangiano insieme. Dopo Luca sparecchia la tavola e lava i piatti.


«Prima di venire qui sono stato a Casa Tabita, un’altra casa di accoglienza. Prima ancora stavo nei dormitori della Caritas».
Un anno fa Luca è stato licenziato. Ha fatto causa all’azienda per cui lavorava per l’assenza di una motivazione fondata per il licenziamento e l’ha vinta. Intanto però è rimasto senza lavoro. Ha iniziato a bere e la moglie, che non sopportava più questa situazione, ha chiesto il divorzio. A maggio del 2018 ha dovuto lasciare la casa dove viveva con la moglie e la figlia di undici anni. Ha vissuto per un paio di settimane da un amico, poi in un camper e alla fine è stato ammesso in uno dei dormitori della Caritas. Durante il giorno stava per strada e continuava a bere. La mattina si svegliava con le mani che tremavano a causa del troppo alcol assunto.
Dopo un mese nel dormitorio ha deciso che non poteva andare avanti così. Si è fatto ricoverare in una clinica e ha iniziato il suo percorso di disintossicazione. Andava da uno psicologo, mangiava bene, faceva attività fisica.
Quando l’hanno dimesso però non sapeva dove andare.
Attraverso la Caritas è stato inserito nelle case di accoglienza della parrocchia del Cuore Immacolato di Maria, prima in Casa Tabita e adesso in Casa Betania.
«Siamo immensamente riconoscenti a don Ocio» dice Mauro. Gli occhi azzurri diventano lucidi mentre racconta del parroco che ha dato vita alle case di accoglienza. «Quando mi sono trovato in strada mi sono rivolto alle istituzioni ma non mi hanno aiutato, dicevano di non poter fare nulla. Ho iniziato a fare volontariato nella parrocchia del Cuore Immacolato: davo una mano quando c’era bisogno, facevo il pane e altri lavoretti. Lì ho incontrato don Ocio. Per me è stato un miracolo».
Don Ocio insieme alla Caritas di Cuneo ha messo a disposizione cinque appartamenti per ospitare chi bussa alla porta della parrocchia in cerca di aiuto e di un tetto sotto cui poter ricominciare una nuova vita.
«Adesso ho voglia di rialzarmi — ci dice Luca prima di salutarci — ho voglia di trovare un nuovo lavoro e di innamorarmi ancora, di condividere la mia vita e la mia casa con una compagna. Appena potrò lascerò il posto a chi ne ha bisogno, come ne ho avuto io».
Uscite da casa Betania attraversiamo la strada e andiamo a suonare ad un altro campanello di Corso Nizza, quello di Casa Silvia. È l’ultima casa che è stata allestita.


I suoi muri, le sue stanze e i racconti dei sette ragazzi africani che sono ospitati lì sono impregnati di una storia pesante. Una storia che parla di morte e rinascita, di un dolore che incontra un altro dolore. È nata per ricordare Silvia Maffi, una ragazza cuneese morta il 27 febbraio 2018 a vent’anni, e per portare avanti il suo sogno di fare qualcosa per i ragazzi che sbarcavano sulle coste italiane.
Dare loro una casa è stato un mondo concreto per non disperdere la sua vita.


Fotografie di Alessia Actis e testi di Eleonora Numico