Marilyn ha gli occhi neri

Nell’ultimo mese sono andata più al cinema che a fare la spesa. Il fatto che le sale cinematografiche abbiano riaperto mi ha elettrizzata, è bello passare una serata un po’ diversa dal solito guardando un bel film fuori casa. Oltre ai big movies che hanno avuto grande successo, come “Dune” o “James Bond”, è stato bello vedere film italiani, diretti da registi italiani.

In particolare, ho trovato molto piacevole la visione di “Marilyn ha gli occhi neri” un film di Simone Godano che vede protagonisti il mitico Stefano Accorsi e la favolosa Miriam Leone in una commedia spiritosa e commovente.

Il film si apre con l’immagine di Diego, cuoco e papà, che furioso distrugge la sala da pranzo dell’albergo in cui lavora. Si capisce in fretta che il protagonista ha problemi nel controllare la rabbia e frequenta un centro di recupero per persone con disturbi mentali. Accorsi è riuscito perfettamente a entrare nel personaggio, si è spogliato completamente della sua identità e “scompare” nelle grida, nei tic, nelle paure e nelle balbuzie del suo Diego.

Frequentando il centro l’uomo conosce i suoi compagni di disavventure e stringe amicizia con Clara, una ragazza bellissima ed esuberante che arriva sempre in ritardo e a cui non piace né rispettare le regole, né frequentare gli incontri.

Dopo varie vicende gli psichiatri della clinica decidono di provare a realizzare un progetto per far riavvicinare i pazienti al mondo del lavoro: ogni giorno ospiteranno gli anziani della adiacente casa di riposo e cucineranno loro il pranzo, servendoli e parlando con loro. È così che Clara si fa prendere la mano e apre una pagina online per pubblicizzare il loro “ristorante”. Le recensioni, le immagini dei piatti e le storie del locale sono tutte sue invenzioni, ma in pochissimi giorni il sito riceve migliaia di visualizzazioni e il ristorante diventa famosissimo in tutta Roma. Lo chiama “Monroe” e viene descritto come un posto libero e alternativo, come coloro che ci lavorano. 

Visto il successo del sito e il feedback positivo della gente, Clara e Diego iniziano a fomentarsi fino a quando decidono di aprire veramente il locale. Questo serve a far avvicinare il gruppo che unisce le forze e si rimbocca le maniche. Ogni sera c’è una coda lunghissima fuori dal locale e i clienti restano meravigliati e attratti da questo posto con il personale stravagante. È vero però che chi non si distingue per autocontrollo ha il dono di essere autentico, sincero e di sentire le emozioni molto più intensamente di chi è “normale”. Ecco perché il film coinvolge chi lo guarda.

I wanna be loved by you, just you, nobody else but you” – cantava sconsolata Marilyn Monroe in “A qualcuno piace caldo” dopo aver perso per sempre il suo amore. Lo stesso brano, un po’ stonato, lo dedica Clara a Diego.

Dalla prima all’ultima scena Godano è riuscito a creare situazioni buffe e a raccontare il disturbo mentale con la giusta leggerezza. Dietro alle brutte figure, alle parolacce di una donna affetta dalla Sindrome di Tourette e alle crisi di un uomo impaurito che grida sovente al complotto, c’è una riflessione molto seria sull’incomunicabilità, che porta alla solitudine e all’isolamento, allontanando gli altri. “E’ brutto non essere visti” dice Diego, non alludendo solo ai “pazzerelli”, come li chiama affettuosamente il regista, ma anche a chi non ha manie, ossessioni o malattie mentali. Accade a tutti di sentirsi invisibili, abbandonati e di sentirsi costretti a indossare una maschera senza poter mostrarsi per quello che si è.

Il film è anche commovente, i protagonisti combattono ogni giorno una battaglia contro sé stessi e contro le ingiustizie della vita e le difficoltà di chi viene considerato “pazzo” dalla società. Godano invita indubbiamente lo spettatore ad accettarsi, a perdonarsi e a rispettare gli altri. È convinto che un cambiamento e un miglioramento siano possibili, e se non dovessero avvenire, allora non importa, non c’è fretta. 

Dopo quasi due anni di pandemia e di reclusione in casa, tutti noi forse ci siamo sentiti proprio come i protagonisti di Marilyn ha gli occhi neri, e magari molti di noi sono implosi. Questa commedia potrebbe allora funzionare come medicina per il buon umore. 

Consiglio di andarlo a vedere, perché è un film che vi renderà felici. Qualcuno potrebbe accorgersi di soffrire di disturbo ossessivo compulsivo, ma la buona notizia è che non è affatto solo. Qualcun altro, invece, realizzerà, una volta uscito dal cinema, di aver visto qualcosa di molto diverso dal solito, il che è raro nel nostro panorama cinematografico.

Peter Greenaway: quando il cinema é arte

Peter Greenaway, classe 1942, è uno dei più importanti cineasti contemporanei. I suoi film, conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo, brillano per ricchezza formale.

Ogni singolo elemento della sceneggiatura è studiato in modo minuzioso, attraverso un’attenta operazione di labor limae per il quale le scene sono date dalla sovrapposizione di più livelli di significato. In questo contesto le inquadrature possono essere lette come vere e proprie opere d’arte dove l’attenzione al dettaglio e alla composizione generale è altissima. Il legame con l’arte non è casuale: Greenaway, da sempre appassionato alla pittura e al disegno, studia al Walthamstow College of Art, contro il volere dei genitori. Sono proprio questi anni di formazione giovanile che influenzeranno poi fortemente la futura attività cinematografica del regista. Oltre ai numerosi riferimenti ad opere d’arte, le sue sceneggiature pongono una particolare attenzione all’uso del colore, protagonista indiscusso dell’intera produzione cinematografica.

In passato i registi consideravano l’introduzione del colore nelle pellicole un’azione interessante, avente come scopo l’arricchimento della narrazione di una componente drammatica più che un’accurata rappresentazione del reale. Nel cinema del XX secolo, con l’emergere delle avanguardie cubiste e futuriste, i colori iniziarono ad essere introdotti nel cinema con una finalità diversa, ovvero causare un forte impatto estetico e simbolico. Sono le teorie sui colori di artisti come Kandisky e Picasso ad influenzare il cinema di inizio secolo. Come è evidente in molte opere di Kandisky, il colore viene utilizzato per generare sensazioni nello spettatore quali disperazione, confusione, euforia e sogno.

Così come in pittura, anche nel cinema di Greenaway il colore elimina il realismo per lasciare ampio spazio al simbolismo che si avvale dei gradienti rendendoli mezzi espressivi. In molti dei suoi film il regista utilizza la psicologia dei colori per trasmettere in modo più diretto le emozioni ed i cambiamenti di luogo e di azione. In questo modo essi divengono la dimostrazione simbolica e palese di ciò che ci viene raccontato.

In un’ intervista di Ania Krenz al regista Greenway dice: «I was trained as a painter and colour is very important in painting. And colours hardly seem to interest filmmakers at all or very superficially. Almost like a sort of IKEA-habitat interior design quality. But not structurally because the colour coding is so significant. You know, emotionally and suggestively and associatively and historically. And I wanted to be able to use that language in a very rich way. But I needed to say: “Look, people! Look, look, look! This is about colour!” so deliberately I used these devices about people changing to fit their environment… as an attempt to get people to look. Because most people do not use their eyes. Most people are visually illiterate».

Prendendo in considerazione il film “I misteri del giardino di Compton House”, vediamo come per il cinema di Greenaway i colori abbiano un importantissimo significato. Ambientato nel ‘600 il film tratta la storia del paesaggista Mr. Neville incaricato dalla signora Herbert, moglie di Mr. Herbert, proprietario di Compton Anstey, di realizzare dodici disegni della casa e del giardino. I disegni sono realizzati per essere regalati dalla moglie al marito che nel frattempo ha lasciato la splendida abitazione per recarsi a Southampton. Attraverso questo regalo la moglie sembra voler ricomporre il rapporto matrimoniale in crisi, approfittando dell’assenza del padrone di casa. Inizialmente l’artista, ignaro del complotto di cui sarà vittima, accetta di buon grado il lavoro ed espone esose richieste alla donna, che accetta per contratto di concedere all’artista favori sessuali. Con il procedere della narrazione l’omicidio di Mr. Herbert farà assumere nuovi significati alle vedute ritratte dal disegnatore che scoprirà di essere stato strumento di una congiura.

Nel film i colori predominanti sono il bianco ed il nero dei disegni che si contrappongono al verde dei giardini. Inizialmente, il bianco ed il nero indicano la differenza sociale tra il disegnatore ed i suoi committenti ma, con l’evolversi delle scene, i colori assumono una connotazione diversa. Il bianco indica la vanità e l’ipocrisia delle classi dominanti verso cui il disegnatore aspira fin dall’inizio della vicenda. Mr. Neville indossa spesso il bianco con l’intento di somigliare ai nobili ma in questo modo causa la sua stessa caduta.

Diversamente, l’utilizzo del verde nel film è estremamente complesso e vario. Esso indica il paesaggio del giardino nel quale vengono disseminate le prove dell’omicidio ma è anche indice del perpetuo cambiamento della natura. Una natura che è qui molto artificiale poiché trasformata in una serie di statue alberate da giardino. Un’artificialità che fa in qualche modo anche riferimento a quella classe dominante che tramite la sua apparenza ed ostentazione, rappresentata dall’eleganza del giardino e della tenuta, incanta e distrugge il disegnatore. All’inizio del film, la raffigurazione del verde è allettante ma quest’iniziale sensazione va a scemare mano a mano che lo spettatore intuisce gli indizi di quanto sta per accadere. Infine, il finale del film ha un’ambientazione notturna. Il disegnatore, sempre nel suo abito bianco, è seduto davanti alla statua equestre del giardino che sta disegnando quando improvvisamente si trova circondato dai nemici.  Il bianco del suo vestito qui arriva a contrastare l’oscurità della notte come ad indicare l’opposizione tra l’innocenza, l’ingenuità del disegnatore contro l’oscurità e la malvagità dei suoi aggressori.

In conclusione, Greenaway, data la propria educazione artistica, sfrutta la conoscenza e la familiarità dell’uso del colore in arte per farlo proprio ed applicarlo ai suoi film nei quali diventa un ulteriore strato simbolico alla già ricca rappresentazione.

L’uso dei colori è quindi fondamentale per accentuare la conoscenza.

Pascal Laughier e l’insostenibilità dell’essere

Accantonata la spensieratezza delle feste è finalmente giunto il momento di parlare di qualcosa di serio, ossia un regista che, nonostante non sia stato molto prolifico (si contano infatti all’attivo solo quattro pellicole dirette da lui), ha saputo lasciare una grande impronta nel cinema horror moderno. Sto parlando di Pascal Laughier regista di Saint Ange, Martyrs (disponibile su Amazon prime video), I bambini di Cold Rock e La casa delle bambole.

La sua prima opera, Saint Ange, benché non sia molto conosciuta, mostra il talento del giovane regista, anche se la sua regia risulta ancora impersonale e derivativa del cinema di genere italiano di Fulci, Bava e Argento. Nel 2008 dirige Martyrs la pellicola che lo rese famoso a livello internazionale, che creò scandalo per la sua efferata violenza, tanto da essere inizialmente vietato ai minori di 18 anni in Francia – cosa che non accadeva da vent’anni – e, dopo un ricorso da parte dei produttori, venne ridotto a 16. Nonostante il film non sia adatto a tutti, riuscì comunque a conquistare critica e pubblico, tanto da aprirgli le porte di Hollywood dove girerà la sua opera più commerciale: I bambini di Cold Rock. La pellicola però è un flop di pubblico e critica: questo porterà Laughier a tornare al cinema indipendente con La casa delle bambole, film che conquista pubblico e critica anche se non raggiunge i fasti di Martyrs.

Le opere di Pascal Laughier sono immediatamente riconoscibili grazie ai suoi stilemi narrativi che le accomunano tra cui i più famosi sono: le protagoniste femminili – per la loro maggior sensibilità -; l’home invasion, decostruendo la casa come luogo sicuro, e i colpi di scena che ribaltano totalmente la prospettiva dei film. Infine, il più importante a mio avviso, la distruzione del concetto di famiglia.

In Saint Ange, la gravidanza della protagonista è frutto di uno stupro; in Martyrs la famiglia all’apparenza normale viene massacrata; ne I bambini di Cold Rock i pargoli vengono strappati alle loro famiglie dall’Uomo Alto e infine in La casa delle bambole l’omicidio della madre delle protagoniste.

Laughier riesce così a distruggere tutte le sicurezze dello spettatore: casa e famiglia non sono più sinonimi di sicurezza e i colpi di scena rendono imprevedibili gli sviluppi della trama, confondendoci come le protagoniste dei film. Quando niente è più sicuro tutto diventa pericolo  ed è allora che è possibile notare il fil rouge delle opere di Laughier ossia la sofferenza.

Un dolore analizzato in ogni film con un occhio diverso: in Saint Ange si affronta il calvario della malattia, che sia essa mentale o fisica, ma anche gli echi delle atrocità passate: nel film i rimandi ai nazisti e ai bambini morti dell’orfanotrofio, che gridano allo spettatore come voci nella testa di un malato, che vorremmo ignorare ma non possiamo perché parte di noi.

In Martys, l’opera più intensa di Laughier, l’accettazione del dolore: la protagonista è privata di tutto ciò che la rende una persona e tutto è sostituito dal dolore; una volta che la protagonista avrà accettato la sofferenza di lei non rimarrà nulla, tanto che verrà privata anche della sua pelle, unico suo residuo di umanità, e potrà così trascendere.

Con questo film, Laughier vuole far accettare allo spettatore il fatto che tutto ci possa venir sottratto in un attimo, donandoci la consapevolezza di essere soltanto dei sacchi di carne.

Ne I bambini di Cold rock, il dolore derivato dal proprio luogo di nascita e dalla condizione sociale, in un paese dove i bambini non hanno speranze per il futuro, compare l’Uomo Alto, un essere che rapisce bambini per chissà quali scopi, un mostro delle favole, ma questa creatura altro non è che un uomo normale che li consegna a famiglie che possano garantire loro una vita migliore, dimostrando come i mostri non esistono o, meglio, di come i veri mostri non esistano ma ciò che fa veramente paura è il domani (emblematica la scena finale con due dei bambini rapiti che si incontrano per caso con le loro rispettive nuove famiglie e si ignorano come a esorcizzare un passato che si sono lasciati alle spalle).

Ne La casa delle bambole per trovare sollievo nelle proprie fantasie per sfuggire al dolore della realtà o, per meglio dire, del diventare adulti, la giovane protagonista fugge dai suoi problemi in una realtà ideale, entrando in uno stato comatoso, diventando di fatto una bambola, con fattezze umane ma priva di volontà, finché non ritorna in contatto con la realtà e lotta per la propria vita. Passa così dall’essere una bambina, priva di volontà e fragile come una bambola, fino a diventare una donna, rinascendo nel sangue come annunciato dal primo sangue mestruale a inizio film. Una parabola della crescita in cui non tutto andrà come sperato ma bisognerà lottare perché il dolore è parte della vita di ogni adulto e bisogna affrontarlo. Ovviamente queste sono semplificazioni del dolore esistenziale descritto nei film di Laughier. Spero, almeno, che questo breve approfondimento vi spinga a scoprire o riscoprire le strazianti opere di Pascal Laughier.

Madre! Uomo, Dio e Natura

Madre! di Darren Aronofsky è la storia di due coniugi i cui equilibri vengono sconvolti dall’arrivo di uno sconosciuto nella loro casa completamente isolata. Questa è, in breve, la trama (voglio evitare in ogni modo gli spoiler per questa prima parte della mia breve analisi sul film). Madre! è un gioiello sotto ogni punto di vista, dalla recitazione dei due protagonisti, Javier Bardem e Jennifer Lawrence, alla regia che mette in risalto le doti recitative della Lawrence, mai così in parte come in questo ruolo. L’unico difetto che ho trovato, dal punto di vista tecnico, sono gli effetti speciali che, per fortuna, sono pochi e non compromettono la qualità generale del film. Madre! è stato, ingiustamente dal mio punto di vista, massacrato dalla critica: addirittura, quando è stato presentato al festival del cinema di Venezia, molti critici hanno fischiato il film e abbandonato la sala. Per fortuna io, che non sono un critico, ho amato il lavoro di Aronofsky, che – ricordiamolo – ha diretto film del calibro de Il cigno nero o The wrestler, sicuramente non filmetti come Una notte da leoni (piccola frecciatina a Joker, di cui parlerò prossimamente).

Tornando al film, la storia si divide in due macro atti profondamente simili fra loro ma non per questo meno d’impatto sullo spettatore. La prima parte è più riflessiva, riuscendo comunque a tenere alta la concentrazione di chi guarda e permettendo alla nostra attenzione di concentrarsi solo sul personaggio della Lawrence. La macchina da presa, infatti, non si allontana mai dalla protagonista, dandoci il suo punto di vista per praticamente tutto il film e donando tensione a scene che altrimenti sarebbero risultate prive di mordente, se non addirittura comiche. La seconda parte mantiene il focus, ma cambia totalmente il ritmo, trasformando il film in una spirale di violenza e follia, e lasciando lo spettatore confuso e scioccato come la protagonista, fino a giungere a un finale molto criptico e surreale e per questo poco apprezzato dal grande pubblico, bisognoso di una chiave di lettura che possa spiegare un film altrimenti privo di senso per i più.

Madre! non è però un’opera da “capire”, il film funziona alla perfezione e riesce a intrattenere per tutta la sua durata: il fatto che l’opera si muova in un piano spazio-temporale proprio, e che non sia condizionata dalle leggi della fisica, ci rende più semplice accettare ciò che vediamo sullo schermo, e questa natura onirica dell’opera fa sì che “una visione chiara” risulti qualcosa di superfluo. La storia è comunque aperta a più interpretazioni, ma vorrei concentrarmi su quella che più mi ha convinto, di cui ha parlato anche il regista in alcune sue interviste, dunque considerabile più  “ufficiale” [prima di andare avanti, però, una precisazione: spero che questa breve introduzione, priva di spoiler, abbia stuzzicato la vostra curiosità e il desiderio di recuperare il film, disponibile tra l’altro su Netflix; da adesso qualche spoiler ci sarà, per chi il film l’ha già visto].

La spiegazione dell’opera parte direttamente dal titolo e dall’inconsueta scelta di inserirci un punto esclamativo, che serve a dare un senso assoluto al termine “madre”, una moderna “madre natura” rappresentata dalla Lawrence. Se la nostra protagonista è l’umanizzazione della natura, la casa è una metafora del mondo, le due entità hanno un rapporto simbiotico, le sofferenze dell’una si riflettono sull’altra. Questa considerazione deriva anche dal fatto che la struttura del film è ciclica, con eventi che vengono riproposti in un evidente ciclo di vita, morte e rinascita come in natura.

Se la Lawrence assume il ruolo di madre natura, Bardem è, invece, qualcosa di molto diverso, l’unico elemento del film non condizionato dal ciclo vita e morte, eterno, un Dio. Nel film i riferimenti biblici si sprecano, come per esempio il fratricidio di Caino e Abele, e basta dare una rapida occhiata alla locandina del film per riconoscere riferimenti all’arte classica religiosa.

L’unico elemento che manca è l’umanità, che è rappresentata dagli, per così dire, “ospiti”, che invadono la casa/madre solo perché Dio l’ha permesso. L’uomo accecato dalla fede porterà morte e devastazione all’interno della casa, fino a condurla all’autodistruzione, metafora che risulta tristemente molto contemporanea. La natura, tuttavia, rinascerà ancora, con una nuova forma, e il ciclo ricomincerà. Il film si conclude con la morte della madre e il suo amore cristallizzato è l’ultimo tributo al suo Dio amante, altra meravigliosa rappresentazione di un concetto astratto come l’amore, indicato come un cristallo puro e trasparente ma con venature ardenti di passione, un sentimento ambito da tutti, tanto che chiunque lo veda ne rimane ammaliato; è proprio questo amore a spingere la nostra divinità a ricominciare ancora e ancora il ciclo per sempre.

“Se non c’è il pensiero non viene fuori niente perché non trasferisci qualcosa agli altri” – Intervista a Riccardo Forte

Riccardo Forte è un attore cuneese che ha voluto raccontarsi e farsi conoscere non soltanto come il suo famosissimo personaggio Vermio Malgozzo, il cattivo della Melevisione, ma anche come attore, conduttore radiofonico di cinema, teatro e televisione. Nel rispondere alle nostre brevi domande è stato chiaro ed esauriente e lo ringraziamo per questa interessante chiacchierata.

Che emozione incontrare uno dei personaggi che hanno abitato il mondo fiabesco della nostra infanzia! Ci è sembrato di tornare indietro nel tempo, all’epoca delle merende in compagnia della Melevisione, quando il mondo intero sembrava il Fantabosco e i nostri occhi di bambini erano puri e innocenti… Scopriamo insieme chi è Vermio, cioè chi è Riccardo Forte! Ah, ah, ah!

  1. Come le è venuto in mente di iniziare la sua carriera da attore?

Sono stato folgorato dal teatro mentre facevo le scuole superiori. Io sono un geometra mancato perché ho sbagliato scuola ma un giorno, mentre facevo “le vasche” sotto i portici con un amico, quest’ultimo mi dice di un corso di dizione che facevano al liceo Bruni (attuale conservatorio) e così mi sono iscritto. All’epoca ero anche folgorato dal rock: avevo un gruppo e suonavo la chitarra. Poi anche passando per il rock, soprattutto il glam rock che è molto teatrale, mi sono avvicinato al teatro e ho scoperto che la dizione mi interessava molto. Così ho detto: voglio fare questo lavoro. Intanto ho preso il diploma e mi sono iscritto al centro di formazione teatrale di Teatro Nuovo, l’attuale Liceo musicale e coreutico di Germana Erba (figlia di uno dei più grandi produttori teatrali italiani: Erba, quello che girava con Gassman montando delle strutture per portare il teatro come se fosse un circo, un teatro itinerante). Dopo quattro mesi di scuola abbiamo fatto un saggio sui futuristi russi e tra il pubblico c’era Gipo Farassino, uno chansonier molto bravo che ha favorito il mio debutto a Torino. Da quel momento ho iniziato a lavorare con la Rai, con i radio drammi che oggi sono pressoché estinti. In seguito, tramite una mia amica, sono venuto a sapere che Gassman cercava allievi per la sua bottega, così ho provato a scrivere senza pretese, anche perchè nel frattempo lavoravo di nuovo nella compagnia di Farassino. Un giorno mi è arrivato un telegramma che diceva che Gassman sarebbe passato a Brescia per fare dei provini per la sua bottega, allora ho preso il treno con altre amiche e ho fatto il provino che è andato molto bene, tanto da mandarmi a Firenze per altri provini assieme ai 44 finalisti. Intanto però avevo il contratto con la compagnia di Farassino ma non volevo perdermi questa opportunità e mi sono fatto sostituire. Ecco, tutto è iniziato così…

  1. Meglio il teatro, il cinema o la tv?

Una bella domanda! Sono tre codici diversi, tre modi di recitare diversi. Il teatro è più “espressionista” a livello tecnico: se io ho una platea davanti i miei gesti devono essere amplificati, è molto più fisico. Invece, la recitazione cinematografica è “impressionista”, cioè si lavora per sottrazione, è molto importante la concentrazione: se sei in primo piano ogni tuo gesto diventa enorme, mentre a teatro nemmeno si vede. Comunque, secondo me, il naturale luogo di un attore è il teatro, io mi diverto di più facendo teatro. Per quanto riguarda la tv ho recitato per la Melevisione e devo dire che mi sono divertito molto e ho riscontrato come la recitazione di questo programma fosse molto teatrale, anche perché andavamo in tour a stretto contatto con il pubblico. Con gli attori della Melevisione ho instaurato un buon rapporto e siamo ancora amici, infatti recentemente ho prodotto una puntata zero con alcuni di loro. Tornando alla domanda, diciamo che il cinema mi piace di più guardarlo che farlo; il teatro mi piace di più farlo che guardarlo.

3. Sappiamo del suo ruolo nella Melevisione come Vermio Malgozzo. Ci descriva il suo personaggio.

Quando io ho fatto il provino, mi avevano mandato la scheda del carattere del personaggio con scritto che Vermio sarebbe dovuto essere il primo vero cattivo della Melevisione. Infatti, il primo Vermio era molto inquietante con delle cicatrici stile signor degli anelli e spaventò molto i bambini tanto che lo tolsero. Poi il produttore mi contattò per il tour ed io provai a fare un cattivo più buffo ed è piaciuto. Così Vermio è diventato un cattivo più edulcorato, all’acqua di rose, buffo. È anche un poveraccio a cui non ne va bene una, sempre senza una lira e molto amato dai bambini. Oggi la Melevisione è ancora molto amata e l’affetto non è ancora passato da parte del pubblico e ne sono felice.

4. Quanto del vero Riccardo c’è nel personaggio di Vermio?

Credo che nell’approccio al personaggio non si possa prescindere dall’attore: io posso ingrassare, dimagrire, cambiare per fare un ruolo ma poi alla fine è la mia anima che entra nel personaggio. Quindi qualcosa c’è di Vermio in me, non nel senso che sono un filibustiere che boicotta il lavoro altrui, però qualcosa c’è… È tanto simpatico Vermio, mi fa tenerezza!

   5. Com’è nata l’idea di collaborare con la Melevisione e per la Rai?

Mi hanno chiamato per interpretare questo ruolo che secondo loro era adatto a me, ho fatto il provino e alla fine il regista ha scelto me. Stiamo parlando del 2003 o 2004.

   6. Quando la vedevano i bambini per strada, la riconoscevano?

Sì, spesso. Adesso è un po’ che non mi succede ma in passato mi è successo sovente.

   7. E’ più facile recitare per un pubblico di bambini o per adulti? Perchè?

Penso sia più facile per un pubblico di bambini: il bambino ha meno spirito critico e ci crede di più, non fa confronti. Ad esempio, per i bambini io ero davvero Vermio e loro mi vedevano così anche dopo lo spettacolo (eravamo obbligati a tenerci i vestiti di scena anche dopo lo spettacolo)… Mi accorgevo che i bambini mi vedevano in carne ed ossa e alcuni erano smarriti o impauriti, altri ridevano: una cosa è il virtuale, dietro allo schermo, un’altra cosa è il contatto fisico che coinvolge molto di più emotivamente.

   8. Nella sua carriera quali attori famosi ha conosciuto?

Parecchi! In primis Vittorio Gassman, Giulio Brogi, Pamela Villoresi, Albertazzi, Monica Vitti, Ugo Tognazzi… Non ho lavorato con tutti, ma durante l’Otello di Gassman spesso si andava a cena insieme. In teatro ho lavorato con forse il più grande attore vivente per me, Roberto Herlitzca, con cui ho recitato il Faustus di Marlowe.

   9. E’ appassionato di fiction italiane?

No, non riesco a vedere i programmi a puntate anche se fatte bene perché mi piacciono le cose che hanno un capo e una coda e l’episodio mi annoia. Non riesco a vedere nemmeno le fiction che ho fatto: “Carabinieri”, “Cesaroni”, “Centovetrine”, “Don Matteo”… A me la fiction italiana non piace tanto e trovo che abbia una qualità un po’ inferiore rispetto al cinema. Pensate che non ho nemmeno visto le puntate in cui recitavo io!

   10. Parliamo di lei. Da piccolo sognava già di fare l’attore?

No, non sognavo di fare l’attore ma ricordo che mi piaceva stare al centro dell’attenzione ed esibirmi, ad esempio mi esibivo in cortile facendo l’imitazione di Celentano per gli amici. Quale mestiere sognavo? Non me lo ricordo ma di sicuro non avevo il mito del calciatore!

  • Quale scuola ha frequentato?

Dopo il diploma da Geometra, ho frequentato il Centro di formazione teatrale per quattro mesi al Teatro Nuovo di Torino e per un anno la bottega di Vittorio Gassman.

  • Rifarebbe le scelte che ha fatto?

Sì, magari con meno romanticismo e più furbizia.

  • Oltre alla recitazione, a cos’altro s’interessa?

Mi piace il cinema: a casa ho un impianto con video proiettore e audio stile cinema; poi faccio un po’ di ginnastica; mi piace leggere…

  • Dove vive attualmente?

A  Cuneo ma lavoro soprattutto a Torino e a Milano.

  • A quale personaggio di teatro o cinema somiglia di più o in chi s’identifica meglio?

Sicuramente Macbeth. Come lui, vorrei ma non posso: non sono così cattivo da andare fino in fondo… Come dice Lady Macbeth: “Tu sai quello che vuoi ma non sei pronto a fare tutto ciò per ottenere ciò che vuoi”, quindi a calpestare gli altri etc.

   11. Parliamo ancora di recitazione. Quali sono le caratteristiche per un buon attore?

Mmm… A me piacciono gli attori che riescono a far capire quello che pensano , vale a dire che un attore è bravo quando non si vede che sta recitando, quando sembra che dica quello che pensa veramente, non quello che ha studiato a memoria. In quel momento della recitazione deve esserci il pensiero: mi hanno insegnato che se non c’è il pensiero non viene fuori niente, perché non trasferisci qualcosa agli altri. Gassman mi ha insegnato che bisogna conoscere i metodi del teatro e le tecniche del mestiere; poi però, imparata l’arte, devi metterla da parte, dimenticarla e rendere personale ciò che fai. È come nella musica: un musicista può eseguire Chopin, però probabilmente Pollini lo farà meglio perché ci mette qualcosa di suo in più. Personalmente ho sempre cercato la via meno facile.

  • Attori si nasce o si diventa?

Come dice Edmond King: “Con la volontà non si può che ottenere la luna”, ma in realtà si nasce attori come si nasce principi, quindi un po’ devi avere estro e talento di base, come in tutto.

  • Cosa si prova ad interpretare un ruolo e come ci si immedesima?

Innanzitutto io leggo il copione, lo imparo, conosco il personaggio insieme al regista che ha le idee chiare su ciò che vuole e con lui percorro il cammino che porterà all’interpretazione finale. Per esempio in teatro si inizia con le prove a tavolino: si legge il copione con tutta la compagnia attorno ad un tavolo, ognuno legge la sua parte senza recitare e poi il regista inizia a delineare l’idea che ha in testa (il concept dello spettacolo). Successivamente si prova e riprova fino a realizzare lo spettacolo. Per quanto mi riguarda, il grosso del lavoro lo faccio da solo studiando e recitando per avere la mente pronta a capire ciò che sto recitando senza ripetere a memoria.

   12. Riguardo alla tv per bambini e ragazzi cosa trova di diverso tra i programmi di una volta, come la Melevisione, e quelli di oggi?

Gli autori di Melevisione, con cui ho recentemente collaborato per un film Disney per ragazzi  (un’adattazione della Mummia, spero mi prendano per un ruolo), hanno inventato un format unico. La caratteristica incredibile della Melevisione è che non esiste un format simile non solo in Europa, ma in tutto il mondo, tanto è vero che è conosciuta anche a Los Angeles! Pazzesco, no? Sinceramente non conosco i programmi di oggi per cui mi è difficile fare un confronto. So solo che il successo che ha avuto Melevisione non lo ha avuto nessuno.

    13. La tv spesso viene considerata una baby-sitter , cosa ne pensa?

Che brutto e triste! Troppo comodo. La cosa che ci dicevano di più i genitori è che potevano stare tranquilli perché i loro figli stavano davanti ad un programma che poteva solo insegnare loro del bene senza risvolti negativi. Al contrario, esistono programmi che fanno ai bambini un lavaggio del cervello con la pubblicità ed è insopportabile.

    14. Spostiamo l’attenzione su Cuneo. In tutta sincerità, cosa le piace e cosa no della città?

Cuneo è come tutte le cittadine di provincia. Diciamo che io ho debuttato a Torino e ho vissuto molto lì, tornando per venire a trovare i miei genitori ma non resistevo più di una settimana perché non c’era più niente di me: Torino era la mia città. Poi sono stato a Firenze per un anno circa. Insomma, mi sono allontanato da Cuneo. Poi, crescendo, ci sono tornato a vivere e oggi mi va bene stare a Cuneo e ne vedo i pro: è rassicurante, si è abbellita e mi piace di nuovo abitare qui. Inoltre da alcuni anni lavoro qui a Cuneo alla fondazione Casa Delfino presentando il corso di dizione e di recitazione. Infine i difetti di Cuneo…Come tutte le cittadine di provincia è un po’ ripiegata su sé stessa, un po’ morta a volte.

  • Cuneo offre opportunità? Offre un futuro?

Nel mio campo di sicuro no: non puoi fare il mio mestiere a Cuneo perché non c’è un teatro stabile ma solo compagnie amatoriali che sono cristallizzate nei loro errori non avendo avuto un confronto ampio con il resto del mondo del teatro e dello spettacolo.

  • Ha mai recitato in zona?

In Cuneo sì, ho recitato a volte al Toselli ma niente di più. Beh, siamo venuti con la Melevisione al palazzetto di Borgo S. Dalmazzo.

  • Cuneo diventerà mai come il Fantabosco della Melevisione?

Ah, ah, ah! No, non credo che il mondo diventerà mai come il Fantabosco che è un “non-luogo” dove non esiste il bene o il male, dove tutto è perdonabile…

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