25 Ottobre 2021 | Segnalibro
Un romanzo d’altri tempi, quello scritto da Stefano Benni nel 2012 e intitolato Di tutte le ricchezze.
Come è d’altri tempi il protagonista, un certo Martin B., professore universitario settantenne in pensione, ancora molto stimato nel suo ambiente, che ha mollato tutto e tutti per ritirarsi nella solitudine della vecchiaia in una casa isolata al di fuori del piccolo paese di Borgoconio, sull’Appennino.
Martin è l’unico studioso dell’opera di Domenico Rispoli, detto Il Catena, un poeta naïf morto in manicomio, che ha scritto numerose poesie leggibili all’inizio di ogni capitolo del romanzo, intervallate alla narrazione vera e propria; questi componimenti rivelano la sua pazzia, ma allo stesso tempo la sua profonda genialità.
Tuttavia, il professore non è completamente solo: con lui c’è il suo fedele compagno Ombra, un grosso cane nero, e poi ci sono tutti gli animali del bosco (il gufo, la capra, la volpe, il tasso) con cui il professore intrattiene discussioni filosofiche a fine giornata. Le telefonate di Umberto, suo figlio che abita lontano, e le visite di alcuni amici, sia recenti sia di vecchia data, riescono ad allietare le piatte giornate del protagonista.
La rottura di questo equilibrio iniziale avviene quando, nella casa azzurra di fronte a quella del professore, disabitata da tempo, arriva una giovane coppia proveniente dalla città: lui è un pittore e un gallerista, lei una ballerina e attrice. Entrambi sono fuggiti dal caos della metropoli per ritrovare l’ispirazione. Presto il professore li conosce e li soprannomina Il Torvo e La Principessa del grano (per via dei capelli biondi della giovane donna, che ricordano a Martin un antico amore perduto).
La vita del protagonista viene dunque scombussolata in vari modi, dal momento che i tre personaggi diventano sempre più intimi, fino a quando emergeranno ricordi dolorosi del passato, litigi e inevitabili separazioni, che porteranno Martin a riflettere sul suo presente, ma soprattutto sulle scelte del suo passato.
Questo è senza dubbio un romanzo che parla della solitudine, e nello specifico quella di un anziano che, per diversi motivi, ha scelto di vivere da solo. Questa condizione viene messa in mostra con una luce tutt’altro che negativa, anche se si evidenziano le varie ombre che inevitabilmente compaiono di giorno in giorno. Nello stesso tempo, la ventata di novità e giovinezza portata dalla coppia metropolitana riempie e arricchisce la vita del professore, facendogli rivivere sentimenti non più provati da tempo.
È anche un romanzo che parla di letteratura: frequenti sono i riferimenti letterari (ad esempio, ci sono alcuni rimandi a Le notti bianche di Dostoevskij), e il volume stesso è una sorta di mélange tra prosa, poesia e teatro, dal momento che oltre alla storia compaiono le meravigliose poesie del Catena e alcune scene vengono raccontate dall’autore sotto forma di copione teatrale.
Dunque solitudine, letteratura, e amore, tantissimo amore: per la natura e i suoi animali, per la cultura, e per la bellezza delle piccole cose della vita, anche nella vecchiaia.
24 Aprile 2021 | Segnalibro
L’isola dell’abbandono, libro di Chiara Gamberale pubblicato nel 2019, si apre con una dedica: “a chi resta”.
E questa fa sorridere una volta che si conclude questo intenso romanzo psicologico che parla prevalentemente della paura di essere abbandonati.
Secondo la versione più accreditata del mito di Teseo e Arianna, si racconta che Teseo, figlio di Egeo, re di Atene, riuscì a sconfiggere e uccidere il Minotauro solo grazie all’aiuto di Arianna, la figlia del re di Creta, Minosse. La fanciulla, innamorata di Teseo, gli aveva strappato la promessa di portarla via con sé, in cambio di un filo da dipanare lungo il labirinto dove era rinchiuso il Minotauro in modo che l’eroe ne uscisse sano e salvo. Tuttavia Teseo, una volta compiuta l’impresa, non rispettò la promessa e quando giunse con le sue navi sull’isola di Nasso per far rifornimento, abbandonò Arianna sulla spiaggia mentre dormiva. Ad oggi si crede che l’espressione “piantare qualcuno in asso” – nel senso di abbandonare qualcuno – derivi proprio da qui: la formula “in Nasso” si sarebbe trasformata, per semplificazione fonetica, nell’attuale “in asso”.
Questo mito è il fulcro del romanzo stesso, perché Arianna, la nostra protagonista, verrà davvero abbandonata dal suo grande amore sull’isola greca di Naxos.
Ma procediamo con ordine: Arianna è diventata da poco madre di Emanuele, ed è, per ora, single (o gengle, cioè “genitore single”). Ha scelto di non continuare la sua storia con Damiano, padre di suo figlio e psicoterapeuta molto più vecchio di lei, e decide di scrivere ad Emanuele una lunga lettera in cui gli racconta tutto quello che è successo nella vita di sua madre prima del suo arrivo. Il romanzo non è però, come potrebbe sembrare all’inizio, una riflessione sulla maternità (tema comunque rilevante ma che viene affrontato lateralmente, all’inizio e alla fine della storia) ma è una lunga e profonda analisi di un amore sconfinato e totale, ma letale, dipendente e tossico.
Si torna, quindi, indietro nel tempo e si scopre che Arianna è stata fidanzata per anni con Stefano, un giovane architetto che soffre di una forma abbastanza grave di bipolarismo e che non è in grado di tenere sotto controllo la sua vita. Arianna vive gli alti e bassi del fidanzato come se fossero suoi, gli fa “da madre”, annullando completamente la sua personalità per adeguarsi alla sua. La ragazza è un’illustratrice per bambini e inventa storie che ricalcano effettivamente l’umore del suo fidanzato. Soffre per i continui tradimenti e ricadute di lui ma non riesce a mollare la presa. Stefano, infatti, la convince sempre a restare dicendo che per lui lei è essenziale, che non potrebbe vivere senza di lei e così il peso della malattia e dell’incapacità di stare al mondo di lui diventano anche di lei. Parafrasando una frase del libro: è come se si considerasse una vittima la persona che in realtà fa male proprio a noi. Ma Arianna questo non lo capisce, finché non viene abbandonata.
In una vacanza sull’isola greca di Naxos, Stefano la pianta definitivamente in asso: fugge di punto in bianco a Londra con una turista incontrata lì sul posto, senza dare spiegazioni. L’abbandono è brutale proprio perché improvviso; Arianna si sente privata di una parte di se stessa e non capisce come il mondo possa sembrare sempre esattamente lo stesso, nonostante tutto il dolore che lei stessa sta patendo.
Dallo strappo inevitabile che segue all’accaduto, Arianna inizia un lungo percorso di introspezione in se stessa: in questo nuovo viaggio la accompagneranno altri due uomini (uno è un certo Di, che Arianna conosce sempre sull’isola, e l’altro è appunto Damiano) che le faranno capire che il suo attaccarsi morboso ad una persona come Stefano deriva solo dal suo terrore di essere abbandonata, tanto che infatti una delle sue paure più grandi è sempre stata quella di perdere le persone care attorno a lei. Non era capace di vivere una fine, di amarsi in primis e di venire ricambiata come si meritava.
La nostra Arianna, dunque, non è l’Arianna del mito: non è un’eroina ma è piena di contraddizioni e paure. È una persona molto ansiosa per il figlio e sempre insoddisfatta di se stessa, come donna e come madre. Ci si può identificare facilmente con lei perché soffre, patisce, ama disperatamente qualcuno che non può offrirle nulla e la fa soffrire a sua volta, cade e si dispera ma si aggrappa alla vita con tutta se stessa. E poi, con un figlio e quindi con una nuova vita che fa ricominciare tutto da zero, prova definitivamente a far ordine attraverso la scrittura e a ritrovare, una volta per tutte, la sua identità.
9 Gennaio 2021 | Vorrei, quindi scrivo
Quando le chiedevi «come stai?» lei ti rispondeva sempre «un po’ così un po’ cosà», era un animo impenetrabile con una risata contagiosa e l’amore per la musica che l’ha da sempre contraddistinta. Amava tutti senza fine, era fragile e aveva tante paure ma era sempre pronta a far di tutto pur di non far soffrire qualcuno. Un’amica fedele con cui condividere i segreti più intimi, una donna che non sapeva amarsi abbastanza perché pensava sempre prima al bene degli altri, l’essere umano più dolce e generoso della Terra. Cuoca infallibile da cui tutti imparavano nuove ricette ma nessuno è mai riuscito a raggiungere il livello dei suoi piatti, era come se ci fosse sempre un tocco magico in più.
Oggi se le chiedi se va tutto bene cade il silenzio, non lo sa neanche lei, si guarda intorno in cerca di una risposta e qualche volta riesce a dire un debole sì. Se accendi lo stereo e c’è la sua musica preferita, inizia a canticchiare sottovoce delle parole e quel momento vorresti che non finisse mai. Non si può tornare indietro a quelle conversazioni così preziose e profonde che conservo nel cuore come un ricordo indelebile. Ormai non c’è più niente di lei, la sua anima è volata via. Il signor Alzheimer se l’è portata via quando più ne avevo bisogno. Ora ci sono solo il suo corpo, la sua presenza e il silenzio. Un silenzio assordante che la ingabbia nei suoi pensieri e lascia solo tanta rabbia intorno. È un processo lento che non sai quando o come finirà ma sai che non c’è modo per arrivare ad un lieto fine. Puoi rallentare il processo con delle medicine che però per il signor Alzheimer non sono altro che caramelle gommose.
Piano piano tutti quei piccoli gesti quotidiani che si considerano normali e facili diventano un’impresa. Bisogna essere forti a starle vicino, avere pazienza e soprattutto tanto amore. Là dentro in quel silenzio assordante deve essere una galera: poter sentire tutto ma non poter dire niente, capire tutto ma non riuscire a rispondere. Deve essere come stare in una bolla, senti tutto molto lontano, attutito e non ci sei mai veramente. Confusione, incertezza e smarrimento si percepiscono incrociando il suo sguardo. L’unica cosa che il signor Alzheimer le ha lasciato è il sorriso, ogni tanto sfoggia ancora la sua dentatura splendente.
Forse non le ho mai detto abbastanza quanto sia incredibilmente importante per me: grazie per essermi stata accanto e avermi amato così tanto. Ora è il mio turno, mi prenderò cura di te.
Se anche a voi Mr. Alzheimer ha rubato una persona cara, non siete soli, armatevi di tanto coraggio e dategli una bella lezione. Buona fortuna!
Alice Taricco
4 Novembre 2020 | Stappapensieri
«E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d’amore gli uni per gli altri, per riformare l’unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell’uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell’essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un’altra che le è complementare, perché quell’unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. È per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare».
(Platone, Simposio)
L’amore è un sentimento dalle innumerevoli sfumature: in un mondo che cerca di dare risposta e lasciare spazio a quelle manifestazioni dell’amore che, per molto tempo, non hanno avuto la possibilità di esprimersi (come l’amore omosessuale), si stanno cercando giustificazioni nuove a “problemi” che in realtà non avrebbero mai dovuto essere tali.
Platone nel Simposio, trattando il tema della natura di Eros, porta alla luce una considerazione dell’amore omosessuale che mostra come nella Grecia antica questo fosse trattato e discusso senza il timore di cadere nell’ambito del “moralmente scorretto”.
Nel racconto del mito dell’androgino egli narra di un tempo in cui esistevano tre generi umani, i quali erano tutti compositi: il maschile (composto di due maschi), il femminile (composto di due femmine) e l’androgino (composto di un maschio e di una femmina). Tali esseri erano rotondi e con due facce, erano forti, veloci e molto intelligenti e, soprattutto, erano eterni. Questa loro forza, unita all’ambizione che li caratterizzava, li rese però una minaccia per l’ordine delle cose e per gli dei dell’Olimpo, i quali avrebbero voluto eliminarli come avevano fatto con i loro nemici precedenti. Zeus si rese però conto del fatto che eliminare gli uomini sarebbe stata una rovina per gli dei, i quali esistevano soltanto in virtù della devozione che gli esseri umani dimostravano nei loro confronti e dei sacrifici che praticano per servirli, e di conseguenza decise di non ucciderli, ma con una saetta li divise in due, indebolendoli infinitamente. Da quel momento, infatti, gli uomini cominciarono a vagare in cerca della loro metà perduta, senza la quale si ritrovarono deboli e incompleti. Una volta ritrovata la metà smarrita gli uomini però morivano in un continuo abbracciarsi e stringersi che non sarebbe mai riuscito ad emulare la loro unione precedente, caratterizzata dall’eternità. Per questo Zeus, impietosito da tanta sofferenza, concesse agli uomini la possibilità di riprodursi, affinché l’eternità individuale perduta potesse essere loro restituita a livello non più del singolo, ma almeno della specie.
Ma l’amore non è mera riproduzione, perché solo dall’unione delle due parti dell’androgino ricongiunte può nascere una nuova vita, infatti per Platone l’amore contempla anche tutte quelle unioni che non sono finalizzate alla creazione di una prole: l’amore è un sentimento di mancanza e di ricerca continua della propria metà mancante che si genera anche tra persone dello stesso sesso: in particolare il filosofo esalta l’unione tra maschio e maschio (rispecchiando il tipico maschilismo che caratterizza la Grecia antica), in quanto considerata unione generatrice di arte, andando al di là del piacere del corpo per raggiungere un piacere dell’anima.
L’amore nasce da una mancanza, dall’incompletezza che caratterizza gli uomini, ed è quindi un sentimento peculiare solo di essi, e non degli dei che, in quanto perfetti, non mancano di nulla. Eros stesso non è un dio, ma un demone nato durante il banchetto per la nascita di Afrodite dall’amore tra Poros (espediente) e Penia (povertà): proprio dalla natura della madre Eros erediterà un’eterna incompletezza, che lo spingerà alla continua ricerca del bello al di fuori di sé.
Amare significa dunque semplicemente essere umani, essere mancanti di un qualcosa che non possiamo riscontrare in noi stessi, ma solo in qualcuno a noi predestinato e compatibile: non importa il sesso di questo qualcuno, quanto la sensazione di completezza che genera in ciascuno. L’amore non si esaurisce nell’orientamento sessuale, ma è un sentimento che va ben oltre, un senso di vuoto mai completamente riempito, e qui sta la natura dell’amore, che è in parte una condanna e in parte il dono più grande che potesse esserci fatto.
Viviamo in un secolo in cui la tecnologia e la ricerca scientifica fanno ogni giorno passi da gigante, eppure cerchiamo, con scarso successo, risposte ad interrogativi che tali non sono, ma rappresentano situazioni perfettamente naturali e non problematiche che già gli antichi avevano inteso come tali. In un mondo di esseri incompleti quali siamo, di mele a metà che vivono alla ricerca della propria parte mancante, non possiamo fare altro che celebrare l’amore in tutte le sue forme in quanto sentimento che completa l’uomo in senso letterale, e gli permette di essere la versione migliore di sé.
Denise Arneodo
6 Gennaio 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Sa di tempesta questa tua sera:
ha il sapore di nuvole bionde
violente, grano danzante;
ha il colore di nebbie iridate
inquiete, monti morenti.
Col silenzio d’un lampo d’affetto
la mia notte la sveli nascosta
fra i tuoni di pioggia, brutte virtù:
paura d’un Tutto ululante.
Dalla nostra bufera sgorgata,
l’edera dalla mia terra stuprata
cresce e ti strappa il tuo sole
e sarà poi dei fiori di spine.
Non guardar le sinuose Gorgoni,
ma la serpe che abbraccia il tuo tronco!
Ché una bestia non sa più di amore
se il buio morde mente e parole:
scappa Edith, non tornare mai più.
Seduto al tramonto del mondo, carezzo
Maestrale che estingue il mio fuoco,
e vivo l’eterno ricordo dell’Odio:
è un altro
novembre
d’estate.
PL