NBA e COVID

«Lo sport va a cercare la paura per dominarla, la fatica per trionfarne, la difficoltà per vincerla».
(Pierre de Coubertin)

Siamo da poco entrati nel 2022, ma nello sport l’aumento di contagi mette in bilico molti campionati sportivi. Le riflessioni sono molte, soprattutto sulle gestioni e sui i protocolli attuati dalle federazioni. Perciò voglio fare un salto indietro e raccontarvi di quello che è successo negli USA. e di come il campionato NBA ha gestito molto bene la pandemia, che avrebbe potuto causare molti contagi durante l’evento.

La competizione è stata sospesa il 12 Marzo 2020 per caso di positività di un giocatore ed è stata ripresa il 31 Luglio 2020; gli amministratori hanno investito 180 milioni di dollari per contenere il COVID con diversi provvedimenti. Prima di tutto, si sono isolate solamente 22 squadre su 30 delle partecipanti, che erano quelle che potevano ambire ai play-off giocando solo otto partite. Il primo strumento è stato l’anello al dito (non quello dei romanzi di Tolkien), che percepiva solo i parametri fisici dei giocatori permettendo di sapere immediatamente se fossero stati in contatto con un individuo che aveva sintomi riconducibili al COVID e consentendo l’anticipo del tampone di tre giorni. La seconda strategia è stata l’utilizzo dell’orologio di Topolino, che aveva la funzione di aprire le porte di qualsiasi tipo, consentendo agli atleti di non toccare nulla con le mani, e ostacolando così il contagio. Inoltre, sono state messe a disposizione di tutte le squadre una camera singola per ogni componente dello staff e due suite per ogni atleta. All’interno dell’isola di Orlando sono state molte le opportunità per passare il tempo, perché erano comprese attività di benessere come l’idromassaggio. In questo paradiso sportivo si sono verificate problematiche legate alle poche porzioni di cibo offerte durante i pasti, ma l’amministrazione NBA ha subito provveduto organizzando dei “self-service” dove a cucinare era uno chef. Non è mancata l’attenzione ad offrire all’interno della struttura dei parrucchieri per gli atleti negli ultimi tre mesi. Allo stesso tempo ai giocatori è stata concessa la possibilità di raggiungere per motivi personali i propri familiari: ritornati da questi, però, dovevano stare in isolamento per due giorni e monitorare il loro stato di salute sottoponendosi alle regole anti-Covid.
Il protocollo applicato è stato molto rigido e ai giocatori non è stato concesso di uscire per altri motivi dalla bolla di Orlando che difendeva dalla pandemia gli atleti NBA. Mi verrebbe da dire che sarebbe impossibile uscire da questo posto perché chiunque sognerebbe di vivere in una location del genere con tali servizi, ma a quanto pare non è così: alcuni giocatori ci sono riusciti, e hanno avuto il coraggio di uscire o di festeggiare all’interno delle proprie stanze consentendo l’accesso ad estranei; ma la dirigenza si è fatta subito sentire con multe e sospensioni definitive dal campo.

A sostegno psicologico degli atleti, i tifosi sono stati sostituiti da immagini proiettate e voci amplificate sulle mura del palazzetto, insomma robe da Blade Runner. Inoltre è stata concessa la possibilità ad ogni giocatore e membro dello staff di invitare almeno dieci familiari che potevano accedere al Disney World e che potevano entrare in contatto con i presenti solo dopo sette giorni di isolamento.
Questa perfetta gestione dell’amministrazione NBA guidata da Adam Silver (chapeau al curriculum) ha permesso di avere zero contagiati e di concludere il campionato in sicurezza. L’Italia dovrebbe imparare da questo modello perché gli USA dimostrano visione, idee e gestione di manager preparati, che meritano di stare in quei ruoli. La cultura sportiva americana, che si trova due piani al di sopra rispetto a quella italiana, ci fa capire che se si investono i soldi con le persone giuste e con gli obiettivi a lungo termine si può solamente sognare, vincendo le partite con i canestri messi da tre.

L’Enciclica allo sport

L’intervista della Gazzetta dello sport è firmata da Pier Bergonzi con l’aiuto di Don Marco Pozza, sacerdote,maratoneta e parroco del carcere “Due Palazzi” di Padova,autore delle meditazioni dell’ultima Via Crucis. Questa intervista si sviluppa in una trentina di domande che fissano il pensiero di Papa Francesco sullo sport e ne viene fuori, inaspettatamente《un’enciclica laica》.

In pratica un documento che il Papa rivolge, per la prima volta, ad un mondo che a lui sta molto a cuore delineandone gli aspetti più importanti ed affrontando diversi argomenti. Tutte questioni su temi che, nella mia esperienza di sportivo, mi sono sempre posto. A riempire questo vuoto è arrivata la risposta del Santo Padre con una splendida conversazione sullo sport, che ricostruisce un’etica,di cui c’era tanto bisogno: 《meglio una sconfitta pulita che una vittoria sporca》.

Entrando più precisamente negli argomenti, si ruota intorno a sette concetti fondamentali: la Lealtà mette al centro il seguire le regole e il rispetto di noi stessi e degli altri. Un esempio è il problema del doping che marca un periodo storico negativo per lo sport ed 《annulla la dignità》 per il desiderio di raggiungere subito i risultati che si vogliono. 

L’Impegno, cioè l’opportunità di custodire e far fruttare i propri talenti. Le doti sportive infatti devono essere allenate e coltivate al meglio. Viene raccontata la parabola del servo che al ritorno del padrone restituisce il talento ricevuto che,per paura,aveva sotterrato. Costui viene considerato malvagio proprio perché non ha messo a frutto ciò che aveva ricevuto in dono. 

Il Sacrificio, “sacrum-facere” è dare sacralità alla fatica che, se ha un significato, diventa più lieve. Nella specialità del lancio del peso 《non è il carico a farti cadere ma come lo porti e lo lanci》. Bisogna sempre rimanere concentrati sui propri progetti perché anche se una strada in salita determina spesso delle cadute, perdere ci aiuta a crescere e a rialzarci. 《Chi vince non sa che cosa si perde》.

L’Inclusione che va di pari passo con l’attuale problema dell’immigrazione e con il rifiuto della cultura degli scarti. Il recupero del vero spirito olimpico, che ha sempre voluto costruire occasioni di pace e di fraternità, 《una delle forme più alte di ecumenismo umano》.

Lo Spirito di gruppo è determinante per far capire che nella vita siamo tutti diversi. Chi fa sport di squadra lo sa molto bene perché non è semplice per un allenatore costruire lo spogliatoio. Vuol dire mettere insieme persone con identità, storie e ormai spesso culture diverse. Ma nell’ottica del Santo Padre, se 《nessuno si salva da solo》, tantomeno ci si salva se non facendo squadra.

L’Ascesi che rappresenta la voglia di fare meglio ogni giorno, la capacità di andare più in alto e più in profondità 《per ricercare una dimensione diversa, più alta, meno abituale》.

Il Riscatto che consiste nell’imparare ad avere fame per migliorarsi. I poveri hanno desiderio di riscatto, per questo è importante incentivare lo sport amatoriale perché è opportunità per tutti indipendentemente dalla situazione economica e sociale. Il Santo Padre ricorda inoltre che molti campioni attuali hanno iniziato la loro pratica sportiva proprio negli Oratori.

 

In un periodo come questo,in cui a causa della pandemia,il settore sportivo è stato particolarmente colpito e penalizzato le osservazioni di Papa Francesco danno dignità ed anima ad un settore spesso poco considerato nel suo valore umano e sociale. Lo sport come occasione di crescita, socialità, educazione, solidarietà, uguaglianza. Tutti questi valori sono avvolti dentro una “pelota de trapo”, il pallone fatto di stracci intorno al quale, in ogni parte del mondo, anche in quello più povero, si manifesta la gioia di ogni bambino.

 

 

Sport ecosostenibile

Facendo un salto nel tempo, voglio tornare a parlare della partita giocata a San Siro tra Milan e Cagliari all’ inizio della stagione 2021/2022, più precisamente dell’“Urlo di Tonali”. Mi ha commosso! Non era solo un grido di gioia per la rete segnata al Cagliari che ha portato il Milan sull’ 1 a 0, ma era anche simbolo della commozione, dell’esultanza e della voglia di un ragazzino lombardo con il cuore rossonero e la pelle rossonera, come ha detto il telecronista di DAZN. Infatti non si trattava solo di fare bella figura davanti alla Società Milan, ma anche di fronte alla città di Milano che l’ha cresciuto e seguito dal debutto in Prima Squadra fino al compimento questi risultati. Le sue lacrime rispecchiano inoltre l’immagine dei tanti bambini che crescono con il sogno di riuscire, un giorno, a giocare e segnare nel campo della propria città. Ho usato l’espressione “Sport ecosostenibile”: che cosa intendo? Cercare di riportare al centro della propria città quel desiderio di giocare e segnare nella rete del proprio stadio  o della squadra per cui si tifa. E non mi si fraintenda! Sto parlando di tutti quei bambini che nascono e/o crescono in tutti quei territori condividendo lo stesso percorso educativo e formativo. Di conseguenza utilizzo il termine “Sport ecosostenibile”.  Ridare, dicevo, importanza all’attività sportiva dei propri figli, incoraggiandoli allo stesso tempo ad apprezzare le proprie radici, in modo tale che i futuri sportivi non vedranno più la maglia come qualcosa da comprare sul mercato, ma come un progetto vivo,  autentico e soprattutto legato al proprio territorio. Come fare? “Let’s Bridge!” direbbero gli inglesi: creare ponti tra le istituzioni scolastiche e le realtà sportive sul territorio per raggiungere gli stessi obiettivi, investendo sulle potenzialità sportive e atletiche che molti campioni del passato non avevano. Tutto questo grazie anche all’aiuto della nuova letteratura, che nel caso del panorama scientifico sportivo è sempre più in larga espansione, delle nuove tecnologie e dei nuovi strumenti che permettono di personalizzare il lavoro atletico, tecnico e tattico. 

Per fare un esempio concreto, il Governo ha istituito un fondo per il progetto “Sport e periferie” che rilancia quelle realtà già esistenti ma da ristrutturare e valorizzare perché dimenticate e abbandonate. Le periferie infatti si potrebbero includere e rilanciare se solo si investisse sulla costruzione di musei, stadi, teatri, scuole, chiese, infrastrutture…per costruire una comunità che avrebbe così tutte le potenzialità per diventare una “Smart City”. L’attrazione economica e la circolazione di denaro contribuirebbero sicuramente a questo processo per consentire l’arricchimento e il benessere di zone della città che guarderanno al futuro con occhi diversi. Progetti giovanili dedicati allo sport sono sicuramente rilevanti per dare vita a punti d’incontro, nell’ottica di una costruzione di amicizie e di un’etica sana che serviranno ai giovani per tutta la vita.  La cosiddetta “Prima Squadra” potrebbe essere sia modello di virtù, sia di economia (biglietti e sponsor), sia punto di riferimento per la realtà locale in cui si trova. Tutti questi interventi altro non farebbero che giovare alla comunità intera. A questo riguardo, il sito “Sport e Salute” sul link “Sport e Periferie”, racconta storie bellissime di luoghi sportivi che hanno creduto nei giovani e si sono rialzati dalle loro personali tragedie. Anche perché, citando il telecronista di Sky, Fabio Caressa, se sono talenti prendiamoli all’estero sti ragazzi, ma se non lo sono teniamoci i nostri. 

Oltre le vittorie

Abbiamo avuto un’estate ricca di eventi sportivi e di grandi soddisfazioni, risultati straordinari e inaspettati, dal campionato europeo di calcio alle numerose medaglie vinte alle Olimpiadi. Ma aldilà del mero aspetto sportivo voglio soffermarmi sul significato più profondo di queste vittorie.  Soprattutto direi che hanno vinto i valori, quelli veri, quelli alti.

 

La coppia Mancini e Vialli, durante il campionato europeo, è stata un esempio di grande amicizia. Il loro abbraccio, alla fine della partita che ha assegnato la coppa all’Italia, era frutto di un’intesa che va oltre l’interesse personale e lavorativo ma rappresenta l’umanità di due persone che si apprezzano, si rispettano e credono negli stessi valori. Un tipo di rapporto che vorremmo sperimentare tutti, l’amico che attraverso uno sguardo ti sa comprendere sempre, ti sostiene, con una parola o anche solo in silenzio. Quell’abbraccio ci ha parlato di comunità, rapporti interpersonali, bisogno di avere qualcuno accanto. C’è un detto: se vuoi partire fallo da solo, ma se vuoi raggiungere un obiettivo fallo con qualcuno. E loro sono arrivati insieme.

 

Federica Pellegrini, alle Olimpiadi, ci ha dimostrato che si può perdere con orgoglio perché è arrivato il tuo momento di perdere. Ci ha insegnato che nella vita bisogna combattere, provarci, allenarsi al meglio e accettare le sfide. Lei che negli anni è caduta, si è rialzata ed è tornata a brillare, ha preso atto che la sua carriera da atleta è arrivata al capolinea. Si è posta un obiettivo: la finale olimpica, la quinta della sua carriera, quella dei 200 stile e lì è arrivata. Poteva rinunciare, illudersi e illuderci di fare un estremo tentativo contro ogni legge naturale. È stata onesta con sé stessa e con il suo pubblico. È entrata in acqua per divertirsi e ha nuotato con il sorriso perché lei aveva già vinto. Sapeva di non poter andare oltre. È arrivata settima ma è rimasta “la regina”. È rimasta regina quando ha dichiarato di essersi divertita e che ormai era arrivata al termine di un bel viaggio. Lei ha guardato tutti dal traguardo, dalla meta. Erano le altre che dovevano ancora fare della strada.

 

La doppia medaglia d’oro di Tamberi e Barshim ci ha detto che esultare in due può essere più bello soprattutto se si è condivisa la sofferenza per lo stesso infortunio ed insieme si è giunti al medesimo traguardo.  Le storie di vita e di famiglia dei nostri velocisti Patta, Jacobs, Desalu e Tortu hanno messo in evidenza che bisogna imparare a convivere con i dolori del proprio passato e ad abbattere le catene che ci impediscono di volare guardando le proprie sventure da un’altra prospettiva.

 

Storie di abbandoni che si impara ad accettare, storie di vita di periferia che si riscattano attraverso i pugni dati su un ring, sul tappetino del tatami, marciando per chilometri o remando come forsennati. Storie di riconoscenza nei confronti delle famiglie che hanno sofferto insieme agli atleti in un difficile percorso di delusione, sacrificio e speranza. Storie di accoglienza e di inclusione per un’Italia multietnica e tricolore.  Abbiamo vinto una coppa e preso tante medaglie, hanno vinto degli atleti ma soprattutto lo sport ha lanciato il suo messaggio più bello: l’insegnamento di un’etica che aiuta a diventare grandi atleti ma innanzitutto persone migliori.

Sport e vita

In una recente intervista radiofonica, Filippo Magnini, l’affermato nuotatore due volte campione mondiale nei 100 metri stile libero, dichiara che per nuotatore veloci bisogna fendere l’acqua senza opporre resistenza, facendo movimenti fluidi e leggeri e dibattendosi il meno possibile. In effetti gli istruttori di nuoto spiegano a volte la differenza tra l’avanzata in acqua di una zattera e quella di una canoa. Quest’ultima riesce a navigare più velocemente e con meno forza propulsiva nella remata perché diminuisce le resistenze nell’avanzamento sfruttando una maggiore capacità di scivolamento, uno degli elementi di base per una tecnica di nuoto ottimale. Mi pongo una domanda. Può uno sport essere metafora della vita?

Ha dato una risposta l’australiano Richard Bennet, psicologo e surfista, promotore di una sua idea: il Soul Surfing, fare surf con l’anima, andare con l’onda, armonizzarsi con essa in connessione con la natura accedendo alla dimensione più intima di sé per conoscersi meglio e accettare i propri limiti, l’esatto contrario di surfare con l’ego, cioè «in modo furioso, competitivo e disarmonico, in contrasto con gli altri e con l’ambiente». Bennet propone questa disciplina sportiva come un enorme potenziale al benessere fisico e spirituale di ciascuno ritenendola approcciabile da chiunque a prescindere da ogni condizione atletica, di partenza, anche in presenza di condizioni sfavorevoli come una disabilità.

“Soul Surfer” è anche il titolo di un film del 2011 che narra la vita di Bethany Hamilton, surfista statunitense, che all’età di 13 anni perde il braccio sinistro a causa di un attacco da parte di uno squalo tigre. Bethany dopo nemmeno un anno dall’incidente torna sulla tavola per riprendere in seguito a gareggiare. La sua è una storia di speranza, la costanza di risalire sulla tavola nonostante tutto, la capacità di raggiungere comunque un equilibrio e una stabilità su qualsiasi onda.

Jon Kabat Zinn, biologo e scrittore statunitense, padre della mindfulness e fondatore della Stress Reduction Clinic presso l’Università del Massachusetts, consiglia di immaginare la nostra mente come la superficie di un lago o di un oceano. Vi sono sempre delle onde, a volte grosse, a volte piccole e a volte impercettibili. Allo stesso modo in cui non è possibile stendere una lastra di vetro sull’acqua per calmare le onde, non si possono evitare tutte quelle emozioni e pensieri che ci fanno soffrire. E Jon Kabat Zinn afferma: «Se non potete arginare le onde, imparate il surf».

Ricevi i nostri aggiornamenti

Ricevi i nostri aggiornamenti

Iscriviti alla newsletter di 1000miglia per non perderti nemmeno un articolo! Una mail a settimana, tutti i martedì.

Grazie per esserti iscritto!