La via della povertà

Un tempo di riposo, almeno simbolico, si avvicina con l’inoltrarsi dell’estate; dovrebbe essere un tempo di riflessione, a tutti i livelli, dopo quello che è successo. Questo è un articolo di commiato che vuole lasciare il sapore di un pensiero stimolato dalla lettura di un articolo scritto da Goffredo Parise negli anni Settanta (https://www.globalist.it/culture/2016/05/08/il-rimedio-e-la-poverta-77560.html).

Il confine tra natura e cultura è in fondo impossibile da individuare, al punto che c’è da interrogarsi sul perché l’essere umano sia una presenza spesso così dannosa per la vita: lo è per una sua essenza irrinunciabile oppure per cultura, per uno stile di vita che miopi ragioni economiche hanno imposto? Probabilmente la verità sta nel mezzo, sebbene pesi maggiormente il secondo piatto della bilancia: l’esistenza di società non consumistiche porta infatti a credere che il modello capitalistico sia davvero soltanto culturale e storicamente determinato – punto su cui Marx, d’altronde, insistette parecchio. Il cuore della questione è di stoffa antropologica prima che economica: fino a quando l’essere umano porrà al centro delle proprie scelte il denaro, non cambierà proprio nulla; fino a quando l’essere umano si farà guidare da economisti che non dispongono di un sostrato mentale umanistico e olistico, non avverrà nessun cambiamento sostanziale (presso gli Antichi non c’erano compartimenti disciplinari: l’economia non era matematica, ma progettazione della vita in una casa, in una città, tenendo conto di molti aspetti). Così è un inutile farneticare tutto ciò che non riconosce la decisività di questo aspetto del problema. Come scrive Parise in quell’articolo, il rimedio è la povertà: ci si è creduti ricchi, si è sognato che le risorse del pianeta e – perché no? – la resistenza spirituale dell’uomo fossero infinite, ma erano phantasmata. La povertà, così come l’ecologia, non è un modo di leggere la realtà, ma è parte dell’essenza stessa della realtà: il cosmo è povero ed ecologico, funziona solo se si sta alle sue regole, kosmòs è ordine. Si è parlato di ciò che è successo come di una guerra, come se un virus possa essere un nemico: come se la natura possa essere nemica dell’uomo. Eppure a generare tutto questo è stato un autogoal dell’umanità, nessuna guerra con trincee, vincitori, eroi o nemici.

Il rimedio è la povertà, si diceva. Ma la povertà di cui parla Parise non è rinuncia, ma cultura, nel duplice senso di “stile di vita” e di “conoscenza”: «povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo […]. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi».

In un tempo in cui la vita quotidiana è pesantissima per milioni di persone e di famiglie che non sanno come campare, si tenga a mente le parole di Parise. C’è qualcosa di molto più fondamentale del capitale, qualcosa che richiede un investimento lungimirante, innanzitutto in prima persona: la natura, la Terra, il Cosmo (kosmòs è ordine). Si tratta di cercare e di trovare un’armonia con tutto questo, si tratta di reinserirsi nuovamente nella natura, da cui ci si è invece tenuti fuori per molto tempo, come se si fosse dèi fuori dalla storia. Tutto è immanente, invece. Tutto è qui.

Guardate e ascoltate come funziona a meraviglia un bosco, e capirete che siamo bambini che devono soltanto stare alle regole di mamma natura.

Buona estate.

La lettrice del treno

Eravamo sul treno, tutti mascherati e naturalmente un po’ accaldati. La ragazza era davanti a me e stava leggendo «Parigi occupata» di Jean Paul Sartre. A un certo punto, con la coda dell’occhio, vedo che avvicina la cima del libro aperto al viso, come per annusarne le pagine in carta un po’ ruvida.

No, ragazza, ti sei forse dimenticata che hai un velo sul naso: non puoi odorare la realtà, non puoi sentirne il profumo.

Costretti alla stupidità

«Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo. […] Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza d’idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo».
Così Hannah Arendt conclude sul caso Eichmann nell’Epilogo di La banalità del male. Quello che la Arendt esprime è talmente spiazzante e vero che si potrebbe chiudere qui la riflessione di oggi. Ma si può provare a commentare quello che oggi si sta vivendo, mantenendo calma e lucidità.

Nel lontano 1819, Benjamin Constant spiegò che, a differenza degli antichi, i moderni non desiderano una libertà politica ma una libertà privata. Questo è chiaramente visibile nel comportamento collettivo mostrato in questi mesi: si temono le multe, si vuole restare tranquilli e così ci si ritrova ad obbedire a certe leggi che si credono profondamente incoerenti tra loro, incredibilmente confuse, stupide (confusione e mancanza d’intelligenza vanno spesso di pari passo perché l’intelligenza è sempre accompagnata da chiarezza e distinzione). Come sempre, però, esistono delle eccezioni: alcune persone, soprattutto giovani, sono state multate perché si sono abbracciate in strada o si sono tenute per mano, pur avendo l’accortezza di rimandare i baci al sottoscala di casa. S’immagini la scena: due ragazzi vengono separati per due mesi e, ovviamente, la prima cosa che fanno è abbracciarsi e lo fanno per strada, perché si dicono che sarebbe ipocrita e da stupidi fingere di rispettare le distanze; il poliziotto li vede e punisce il loro atto con una multa di 400 euro che il più delle volte sarà pagata dai genitori, magari senza stipendio. Questo è uno scorcio dell’Italia 2020. Che fare?
In molti, uomini moderni, desiderosi di una calma privatezza, abbiamo creduto che fosse infantile infrangere le regole. Ma oggi ci si trova in situazioni assurde in cui si è chiamati a sembrare stupidi e ignari della realtà: la lontananza dalla realtà, però, è male. Ed è male anche la mancanza d’idee: certo, si possono coltivare idee e convinzioni ma fingere di non averle per stare tranquilli. Però a cosa serve avere idee se le si nasconde?

Ciascuno si comporti con intelligenza e prudenza, senza eccedere nella disobbedienza ingiustificata (anche perché disobbedire sistematicamente è obbedire ad altro) né, però, nella cieca obbedienza. Servono un po’ di audacia, un po’ di franchezza, di serenità nel mettere in pratica certe convinzioni. E sarebbe bello anche ritornare a credere che il bene morale sia il sommo bene, quello a cui occorre mirare in vista della costruzione di una società giusta.
Quindi grazie, ragazzi multati, per averci insegnato che se si obbedisce a una legge stupida si è stupidi. E senza dubbio è meglio essere intelligenti, anche quando questo costa fatica.

Io sono un essere umano (instabile ed essenziale)

Avverto schiacciante il peso delle discussioni di economia, di aperture di industrie, di numeri di contagi basati su statistiche parziali, di numeri di conti di numeri e di conti. E le donne? E gli uomini? Lo dico forte e chiaro: non possiamo pensare che qualcosa cambi se non sta già cambiando adesso. E le cose, adesso, non stanno cambiando, perché stiamo continuando a dimenticare completamente l’umano. Due sono le cose che mi hanno profondamente urtato in questo periodo e, siccome sono attenta alle parole, sono due semplici aggettivi.

La prima espressione è stata lungamente criticata, ed è «affetto stabile». Ma no, non voglio discutere dell’intera locuzione, ma dell’aggettivo stabile, usato come se instabile fosse sinonimo di inferiore. Per quale ragione un affetto instabile, passeggero, che può accompagnarmi per qualche mese o qualche anno (non lo posso sapere, quindi non posso nemmeno essere certa se un affetto sia stabile o meno) sarebbe per me meno fondamentale di un fidanzato? La stabilità non può essere un criterio per il semplice fatto che, quando si entra nella sfera emotiva e psicologica di milioni di persone, non ci può essere un criterio univoco. Il ragazzino di tredici anni non potrebbe andare dalla propria fidanzatina perché probabilmente quello è un amore destinato a finire, ma quell’amore instabile è per quel ragazzino (che magari vive in una casa di pochi metri con genitori che urlano da mattino a sera) la cosa più importante e salvifica che ci sia.

La seconda locuzione, che mi fa molto arrabbiare, è «lavori essenziali». Essenziale è un attributo carico di secoli di filosofia, e andrebbe usato con grande cautela: esso significa che quella cosa fa parte dell’essenza, cioè dell’identità, della natura di qualcosa: che cos’è questo qualcosa? L’economia? Le persone? La sopravvivenza biologica? Il benessere spirituale? Insomma: essenziale per chi? Parlare di lavori essenziali porta a una pessima degradazione di tutti gli altri lavori e implica una discriminazione. E così penso al potentissimo appello che Stefano Massini ha lanciato a Piazzapulita per denunciare il degrado culturale e umano che sta emergendo da questa situazione emergenziale (per questo vi invito caldamente ad ascoltare le sue parole: https://www.la7.it/piazzapulita/video/io-non-sono-inutile-il-racconto-di-stefano-massini-09-04-2020-318820). Sono stati dimenticati gli attori, quelli che hanno recitato nei film che abbiamo guardato in quarantena, sono stati scordati musicisti e compositori, quelli che suonano e scrivono la musica che ci piace tanto ascoltare: non sono lavori essenziali? Senza questi lavoratori (che lavorano, non oziano!) probabilmente ci sarebbero stati molti suicidi, perché molte persone non avrebbero avuto compagnia. Non si è mai parlato degli artisti, che non potevano lavorare (ma come campano a casa per due mesi?). Sono stati, ancora una volta, gli ultimi, e per questo non illudiamoci che cambieranno le cose che contano sul serio.

L’impressione è che ci siamo trasformati in macchine, in questa pandemia; che ci siamo comportati a lungo come se il tessuto umano, di cui non possiamo non essere fatti, non ci fosse. Abbiamo interpellato gli economisti e i virologi, senza che la medicina e l’economia fossero radicate in un terreno antropologico, quando storicamente la medicina è una branca della madre di tutte le scienze, cioè della filosofia. La sensazione è che ci sia stata tecnica, ma poca umanità. Signori, non voglio dimenticarmi che sono un essere umano, e non fatelo neanche voi. Comprendiamo che è ridicolo illuderci che il distanziamento sociale in famiglia verrà mantenuto per un anno, perché naturalmente non sarà così. Perché ricordiamoci che l’essere umano non è un corpo morto da analizzare, ma un corpo vivo abitato da una mente, anch’essa viva.

Attesa

Attesa

Ha un sapore agrodolce questa parola: sa di lentezza, di pesantezza, ma anche di una frizzante gioia infantile, di una corda tesa nel vuoto che piace e non piace. Questo tempo sospeso si allunga a ogni decreto, sembra sempre che girato l’angolo ci sia ancora una via, e poi un’altra. E allora in questo lungo percorso mi sono domandata che senso abbia per me l’attesa. E mi è balzata alla mente quella dolce frase che la volpe dice al Piccolo Principe: «Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti». La situazione attuale è l’opposta di quella raccomandata dalla volpe, perché non sappiamo un giorno e quindi non possiamo colorare le caselle delle date sul calendario. Però è simile a quella descritta dal Vangelo, dove Cristo dice di vegliare perché non sappiamo né il giorno né l’ora in cui saremo chiamati.

Ecco, cosa significa un rito in queste circostanze, che cos’è vegliare? La veglia per me è preparare mente e spirito per concludere questo periodo soddisfatta e felice di me stessa. Per me l’attesa è l’esperienza della pazienza, della fortezza, dell’adattamento: non voglio ripiegarmi in me stessa arrabbiandomi con qualcuno né essere passiva, ma desidero scoprire l’energia che non avevo mai creduto di avere. Forse è questo che significa “prepararsi il cuore”. E adesso il prezzo della felicità è questo periodo difficile, questa sofferenza inaudita per milioni di persone al mondo, che però magari gusteranno ancora di più il sapore della gioia piena.

E poi non smetto di pensare alla sera che precederà il giorno in cui potremo uscire: forse non dormirò perché anche io «incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi», forse sorriderò come non l’ho mai fatto e mi batterà forte il cuore… E solo allora capirò davvero quanto sia stato importante far tesoro di quest’attesa.

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