Il nostro migliore amico passa a prenderci!

Non scrivo mai in prima persona, ma oggi voglio aprirmi a voi lettori per regalarvi vicinanza e ottimismo.

Giovedì 12 marzo è stato il primo giorno davvero pesante per me: ulteriore rigidità sugli spostamenti, tutto chiuso nelle città, tutti in casa. Non posso più vedere i miei cari né la persona che amo, e allora bisogna ricorrere alle videochiamate con loro e anche con le mie amiche dell’università, che mi mancano. Lo studio in queste giornate è monotono, rallentato, un po’ distratto, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, e al mattino apro le persiane sperando sempre che sia una bella giornata per poter tenere aperte le finestre e scaldare la camera mentre studio. E nel mentre penso a tutte quelle persone che vivono in città, in un appartamento, magari in pochi metri quadri…
Ma poi mi rendo conto che l’orizzonte sereno che sto per raccontarvi si apre a ciascuno di noi. La buona notizia è sempre la stessa, quella da ricordare in ogni situazione difficile, perché è un fatto che non dipende da nessuno: il tempo passa. Mi sorprende ogni volta che ci penso, tutte le volte resto a bocca aperta come se fosse la prima: il tempo, questa misteriosa cosa che probabilmente non esiste, questo amico che ci scivola tra le dita delle mani e che non riusciamo mai, mai ad afferrare scorre portandosi via tutte le cose brutte.
Bergson differenziava il modo in cui cogliamo la realtà a seconda che lo si faccia spiritualmente oppure attraverso la misurazione matematica del tempo; secondo lui, la realtà vera risiede dentro lo spirito, dove non c’è nessun tempo divisibile, ma un unico flusso interiore non misurabile. Sono d’accordo. Ma credo che se davvero pensassimo che non ci sia un tempo fuori di noi, impazziremmo: l’anima amplifica sempre ogni cosa, e così le situazioni pesanti sarebbero insostenibili. Invece le lancette dell’orologio camminano, e nell’istante in cui pronunciamo «adesso», Adesso è passato.

Quindi, cari lettori, fidiamoci del tempo, il nostro più caro amico, invisibile, inafferrabile, ineffabile, ma che sempre ci porta con sé. E fate pensieri positivi, superando voi stessi qualora la vostra indole (come la mia) vi porti spesso a rattristarvi. Il tempo non si ferma mai, quindi le opzioni sono due: opporsi ad esso e sprecare le proprie energie nel pensiero che “mancano ancora quindici giorni al 3 aprile” oppure salire sul treno del tempo che passa a prenderci, tutti insieme, magari mantenendo la distanza di qualche chilometro, ma felici perché sul treno ci siamo tutti, proprio tutti!

… E perché Oggi, quatto quatto e senza che nemmeno ve ne accorgiate, sta già scivolando via…

Lungimiranza

Nel sesto capitolo di quello splendido testo del 1979 che è Il principio responsabilità, Hans Jonas riflette sull’importanza dei «passatempi senza risultato». Scrive: «L’interesse dello Stato al passatempo come occupazione e non agli eventuali risultati materiali dell’attività è in effetti vitale, non tanto in vista della salvezza dell’anima degli occupati, quanto piuttosto per amore dell’ordine generale. Infatti il vuoto dell’inattività, in questo caso dunque dell’ozio assistito, potrebbe anche essere colmato diversamente, e proprio con gli stessi mezzi verso i quali spingono le privazioni determinate dalla povertà della disoccupazione: la tossicomania, la ricerca di sensazioni eccitanti di ogni tipo, la criminalità».

In parole più semplici: senza un passatempo che davvero appassioni, la persona rischia di colmare il proprio vuoto con mezzi pericolosi per la sicurezza dello Stato (la dipendenza dal gioco, l’alcolismo, la tossicodipendenza, la violenza…). Il capitalismo ruota invece esclusivamente attorno al capitale, al denaro. Questo non significa che altre forme di vita e di politica non ruotino «in fin dei conti» intorno ai soldi, perché la politica è in parte originata dall’uomo: probabilmente è l’essere umano a cercare potere e soldi. Sto però dicendo che per lo Stato è vitale la promozione del benessere davvero profondo dei suoi cittadini, e non solo del benessere economico: ogni forma di violenza e di reato prende le mosse da una situazione esistenziale problematica ed è proprio quest’ultima a dover essere affrontata e risolta. Ecco che così si comprende la grandezza di quei grandi imprenditori del Novecento italiano, come Adriano Olivetti e Luisa Spagnoli: lì il capitalismo era indubbiamente all’opera, ma, a differenza di quanto accade oggi, era accompagnato dalla lungimiranza: l’operaio non era sfruttato non solo e non tanto per un’integrità morale del datore di lavoro, ma perché sfruttare significava esaurire prima le risorse umane; non è quindi un’etica del lavoro fine a se stessa o economicamente dannosa, ma un’etica praticamente utile.

A livello sociale, politico, economico quello che manca oggi è proprio la lungimiranza e prima ancora la responsabilità, perché responsabile è proprio quell’azione che sa farsi carico delle conseguenze, prevedendole e agendo di conseguenza. Ciò che rende grande un imprenditore, ma anche e soprattutto un politico, è proprio l’allenata abilità a vedere più in là rispetto a quanto sanno fare le persone comuni, a calcolare gli effetti di una decisione sempre e soprattutto su ampia scala.

La Vita è una. Per un’ecologia profonda

Regno Unito, 1859: Charles Darwin pubblicò, un po’ spaventato, Sull’origine delle specie per selezione naturale, ovvero la conservazione delle varietà avvantaggiate nella lotta per l’esistenza. Le reazioni del pubblico andarono da un grande interesse a una decisa condanna di ateismo, perché Darwin stava contraddicendo il racconto biblico della Genesi: dal 1859 l’uomo non era più creato da Dio, ma animale come tutti gli altri. È una teoria che oggi si conosce, che si dà per scontata e che forse non si approfondisce neanche. Ma davvero ci si rende conto delle conseguenze esistenziali, morali e religiose che tale fatto comporta?

Dagli anni ’80 circa si è iniziato a discutere molto di ecologia e ambiente e nel seno di quelle riflessioni è nata l’ecologia profonda. Essa si basa sull’assunto che la vita umana non valga più di quella degli altri animali, ma che ogni essere vivente sia ugualmente degno di vivere e di vivere in una rispettata biodiversità. Probabilmente la scoperta darwiniana ha offerto solide ragioni a questa direzione: in effetti, se si vuole prendere Darwin sul serio, allora il problema ambientale di oggi non è un problema dell’uomo, ma di tutte le specie viventi nel loro complesso; il punto non deve più essere non inquinare o non distruggere le foreste perché il suolo e gli alberi sono utili per l’uomo presente e futuro, no: il punto dev’essere rispettare l’ambiente perché è giusto in sé, perché in sé è uno sbaglio permettere che le api scompaiano. Quello dell’ecologia profonda è forse in prima battuta un modo di pensare e di sentire emotivamente l’ambiente: prima di arrivare ai coraggiosi gesti ambientalisti, l’ecologia profonda invita a considerare il ragno di campagna come un essere vivente che sta vivendo nel luogo a lui idoneo e che ha tutto il diritto di vivere, esattamente il diritto che ho io, essere umano. D’altronde, perché io sì e lui no? (Vuole essere una provocazione: la risposta sul piano evoluzionistico tirerebbe in ballo il successo del più adatto).

L’ecologia profonda richiede uno sguardo monistico verso la realtà: la Vita è una, ed essa si manifesta in un numero sterminato di specie. I sistemi filosofici monistici, come quello spinoziano, insegnano a non parcellizzare il reale, ma a vederlo come un tutto organico la cui potenza propulsiva si esprime in infiniti modi diversi. Per una serissima urgenza morale, spirituale e complessivamente esistenziale, l’essere umano è chiamato ad esercitare occhi monistici e a ripetersi ogni giorno: «La Vita è una, e io non sono che uno degli infiniti punti di sviluppo della realtà».

L’essere storico

Ogni pensatore ha offerto al mondo il proprio frutto e per questo di ogni pensatore va sempre preso il buono. Questo riesce molto facile a chi, come la sottoscritta, tende a piluccare qualcosa di utile da ogni sistema filosofico, che è poi l’idea di filosofia che Montaigne cercava di trasmettere.

Ad esempio, è vera sia la prospettiva di chi crede in verità eterne e immutabili sia quella opposta di chi sostiene un qualche genere di relativismo. L’Ottocento e il Novecento filosofici sono stati attraversati da filoni di pensiero contrapposti su questo punto, e uno dei maggiori protagonisti di questo dibattito è stato il tedesco Wilhelm Dilthey (1833 – 1911), esponente dello storicismo che avrà grande influenza su Martin Heidegger. Secondo Dilthey, l’essere umano è innanzitutto un «essere storico» e la temporalità è il marchio del mondo umano in tutte le sue forme. Non è possibile svincolare dalla contingenza storica un sistema di pensiero, una visione del mondo o un’espressione culturale: addirittura la particolare concezione metafisica di un dato autore è tale perché quell’autore è proprio quell’uomo che vive in una determinata situazione storica. Dilthey non frena più di tanto: parla di metafisica, cioè di quella sfera tradizionalmente incontaminata, pura e, soprattutto, assoluta. Scrive infatti: «Dinnanzi allo sguardo che s’estende sulla terra e su tutto il passato svanisce la validità assoluta di ogni singola forma di concezione della vita, di religione, di filosofia». La visione metafisica e religiosa di una persona sola, malata o felicemente sposata può davvero essere considerata indipendente da quella specifica forma di vita?

L’essere umano è storico, il suo pensiero affonda le radici nel terreno su cui egli è cresciuto. Probabilmente il limite di tale prospettiva è la tendenza a scivolare nel determinismo, cioè nella teoria secondo cui la persona è determinata sempre dall’esterno ad agire in un certo modo, senza possibilità di scegliere liberamente. Tuttavia lo storicismo insegna a relativizzare molti valori e princìpi che, se assolutizzati, possono trasformarsi da valori in armi. E ricorda anche che ogni persona ha visto cose diverse e per questo penserà cose diverse, che saranno vere e giuste per lei; ricorda che ogni pensiero sgorga da occhi pieni di immagini private e che ogni idea contribuisce a dare forma allo splendido mosaico della verità.

Pestare i piedi

«Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri».

Queste parole, tratte da La democrazia in America (1835 – 1840) di Alexis de Tocqueville, esprimono la configurazione che secondo l’autore avrebbe assunto il dispotismo in futuro. Quest’opera di grande successo fu scritta a seguito del viaggio che Tocqueville fece in America nel 1831, occasione in cui egli poté conoscere la democrazia americana sia sotto il profilo politico sia sotto quello sociologico. L’autore osservò quella realtà e vi percepì individualismo, vicinanza fisica unita alla povertà di relazioni tra i cittadini. Tocqueville vide individui piccoli piccoli, mediocri, che non erano guidati da ideali e che si limitavano a ricercare il proprio piacere più rozzo. È un ritratto che rappresenta gran parte della nostra quotidianità: si sa, o almeno s’immagina, che i capi d’abbigliamento venduti dalle grandi catene internazionali hanno prezzi bassissimi perché dietro ci sta lo sfruttamento di persone. Ma ogni tanto un’occhiata la si dà. Si conosce, o almeno si dovrebbe conoscere, i diversi articoli usciti per condannare la politica di sfruttamento di Amazon. Ma si chiude gli occhi e ogni tanto qualcosa si compra. A ben vedere tutto questo rispecchia alla perfezione la fotografica espressione di Bertold Brecht: «Prima la pancia, poi la morale».

Non s’intenda che l’intera società è fatta di individui piccoli piccoli, perché ogni individuo è grande e piccolo insieme e perché oggi le coscienze si stanno risvegliando su diversi fronti. Tuttavia sarebbe giovevole ripensare ogni tanto a quel gesto facile ma audace con cui sono iniziate le grandi rivoluzioni umane: Rosa Parks semplicemente non cedette il suo posto a sedere all’uomo bianco, le suffragiste inglesi nella loro quotidianità familiare iniziarono a parlare del diritto di voto alle donne. Talvolta quello di pestare i piedi può sembrare un capriccio infantile e può darsi che lo sia, ma è dissetante reiterare il potente gesto con cui il giovane Cosimo dà il via alla storia narrata da Italo Calvino in Il barone rampante: «Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache».

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