Avverto schiacciante il peso delle discussioni di economia, di aperture di industrie, di numeri di contagi basati su statistiche parziali, di numeri di conti di numeri e di conti. E le donne? E gli uomini? Lo dico forte e chiaro: non possiamo pensare che qualcosa cambi se non sta già cambiando adesso. E le cose, adesso, non stanno cambiando, perché stiamo continuando a dimenticare completamente l’umano. Due sono le cose che mi hanno profondamente urtato in questo periodo e, siccome sono attenta alle parole, sono due semplici aggettivi.

La prima espressione è stata lungamente criticata, ed è «affetto stabile». Ma no, non voglio discutere dell’intera locuzione, ma dell’aggettivo stabile, usato come se instabile fosse sinonimo di inferiore. Per quale ragione un affetto instabile, passeggero, che può accompagnarmi per qualche mese o qualche anno (non lo posso sapere, quindi non posso nemmeno essere certa se un affetto sia stabile o meno) sarebbe per me meno fondamentale di un fidanzato? La stabilità non può essere un criterio per il semplice fatto che, quando si entra nella sfera emotiva e psicologica di milioni di persone, non ci può essere un criterio univoco. Il ragazzino di tredici anni non potrebbe andare dalla propria fidanzatina perché probabilmente quello è un amore destinato a finire, ma quell’amore instabile è per quel ragazzino (che magari vive in una casa di pochi metri con genitori che urlano da mattino a sera) la cosa più importante e salvifica che ci sia.

La seconda locuzione, che mi fa molto arrabbiare, è «lavori essenziali». Essenziale è un attributo carico di secoli di filosofia, e andrebbe usato con grande cautela: esso significa che quella cosa fa parte dell’essenza, cioè dell’identità, della natura di qualcosa: che cos’è questo qualcosa? L’economia? Le persone? La sopravvivenza biologica? Il benessere spirituale? Insomma: essenziale per chi? Parlare di lavori essenziali porta a una pessima degradazione di tutti gli altri lavori e implica una discriminazione. E così penso al potentissimo appello che Stefano Massini ha lanciato a Piazzapulita per denunciare il degrado culturale e umano che sta emergendo da questa situazione emergenziale (per questo vi invito caldamente ad ascoltare le sue parole: https://www.la7.it/piazzapulita/video/io-non-sono-inutile-il-racconto-di-stefano-massini-09-04-2020-318820). Sono stati dimenticati gli attori, quelli che hanno recitato nei film che abbiamo guardato in quarantena, sono stati scordati musicisti e compositori, quelli che suonano e scrivono la musica che ci piace tanto ascoltare: non sono lavori essenziali? Senza questi lavoratori (che lavorano, non oziano!) probabilmente ci sarebbero stati molti suicidi, perché molte persone non avrebbero avuto compagnia. Non si è mai parlato degli artisti, che non potevano lavorare (ma come campano a casa per due mesi?). Sono stati, ancora una volta, gli ultimi, e per questo non illudiamoci che cambieranno le cose che contano sul serio.

L’impressione è che ci siamo trasformati in macchine, in questa pandemia; che ci siamo comportati a lungo come se il tessuto umano, di cui non possiamo non essere fatti, non ci fosse. Abbiamo interpellato gli economisti e i virologi, senza che la medicina e l’economia fossero radicate in un terreno antropologico, quando storicamente la medicina è una branca della madre di tutte le scienze, cioè della filosofia. La sensazione è che ci sia stata tecnica, ma poca umanità. Signori, non voglio dimenticarmi che sono un essere umano, e non fatelo neanche voi. Comprendiamo che è ridicolo illuderci che il distanziamento sociale in famiglia verrà mantenuto per un anno, perché naturalmente non sarà così. Perché ricordiamoci che l’essere umano non è un corpo morto da analizzare, ma un corpo vivo abitato da una mente, anch’essa viva.