“Basato su fatti realmente plausibili”

Come reagiremmo se, in un programma tv qualunque di un giorno qualunque, una dottoranda in astronomia e il suo professore ci annunciassero che un asteroide della dimensione del monte Everest si schianterà sulla Terra nel giro di pochi mesi? 

Sembra uno scenario impossibile, degno di un film fantascientifico o apocalittico, ma, se ci concentriamo non tanto sul contenuto di quell’annuncio quanto sulle reazioni e sulle conseguenze che esso scatena, allora non pare più così distante dalla realtà. 

In “Don’t look up”, film dal cast stellare uscito nel dicembre 2021, il regista Adam McKay, con la sua vena ironica e irriverente, attraverso un evento di per sé “impossibile” tratta in maniera lucida e tagliente circostanze realmente plausibili. La necessità dell’uomo del 21° secolo di trasformare tutto in audience, minimizzando e deviando l’attenzione dalle cose realmente importanti per concentrarsi su quelle “monetizzabili”, è un ritratto amareggiante quanto realistico della nostra società: di fronte a decenni di prove scientifiche sul cambiamento climatico e la necessità di agire per bloccare un meccanismo distruttivo che –  esattamente come la cometa del film, ma in un arco di tempo più ampio –  potrebbe rendere impossibile la vita umana sul pianeta, non solo aleggia un’indifferenza pericolosa e insofferente, ma nascono anche oppositori, che non riconoscono verità scientifiche evidenti, sulla base di un timore del complotto antico come l’esistenza umana.

La stessa pandemia e il virus COVID19 sono stati oggetto di ferree opposizioni: da chi nega che il virus in sé esista, a chi non si fida di vaccini e cure al fine di controllarlo. Di fronte ad una situazione di crisi epidemiologica alcune persone sono state spinte a mettere in dubbio fatti evidenti e scientificamente comprovati, generando scetticismo nei confronti della stessa scienza. Nel film il professor Randall Mindy, interpretato da DiCaprio, dice: «Ne abbiamo fatto una fotografia, di quale altra prova abbiamo bisogno? E se non riusciamo nemmeno ad essere d’accordo sul fatto che una cometa gigante, della misura del monte Everest, che si dirige verso il pianeta Terra non sia una cosa buona, allora cosa diavolo ci è accaduto? Come possiamo continuare a rivolgerci la parola l’un l’altro?».

Negare l’evidenza e preoccuparsi solo dell’imminenza, procrastinare la soluzione di problemi esistenziali e la divulgazione di fatti scientifici per lasciare spazio a frivolezza e leggerezza: sono atteggiamenti strettamente umani, così come il panico di fronte alla realtà dei fatti nel momento in cui questa diventa innegabile, prendendo il posto di una speranza che si fa sempre meno sostenibile.

Parlando di un asteroide che si dirige verso la Terra, così come di cambiamento climatico e di riscaldamento globale, spesso si fa riferimento all’espressione “fine del mondo”, ma questa racchiude in sé tutto l’egocentrismo che la natura umana ha incarnato in maniera sempre più profonda nel tempo: questi eventi, infatti, non potrebbero alla “fine del mondo”, ma alla fine dell’uomo, nel mondo. Il pianeta Terra, infatti, continuerebbe ad esistere e si rigenererebbe anche senza di noi, che siamo semplicemente una specie che lo abita, non il mondo stesso.

Il libero pensiero e la tolleranza delle posizioni altrui è spesso la bandiera innalzata da coloro che si oppongono, in maniera anche violenta, alle evidenze scientifiche: ognuno è libero di pensare ciò che vuole e di sostenere le proprie posizioni con tutte le forze, perché è suo diritto. Ma in realtà, questa infinita tolleranza, si scontra con il paradosso evidenziato da Popper, filosofo della metà del 900: «La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi» (Popper, La società aperta e i suoi nemici, 1945). 

Tollerare è bene, ma agire nell’evidenza della scienza e difendere le posizioni reali contro quelle complottiste è meglio, ed è esso stesso tolleranza, perché ne tutela l’esistenza e la coerenza.

Di fronte a minacce sempre più globali e sempre meno delimitate, è importante che gli uomini imparino ad agire insieme, in particolare i decisori: nessun singolo uomo può fermare la realtà oggettiva, né con il complotto né con la tolleranza, ma è necessario agire insieme per trovare soluzioni attuabili in tempi utili per i problemi che riguardano il mondo e la specie umana che lo abita, con tutti i suoi difetti e limiti.

Con(fini) di guerra e con(fini) di pace

I nati alla fine degli anni ’90 hanno la fortuna di dare per scontato qualcosa che non lo è mai stato: la libertà di muoversi entro i confini europei. La Convenzione di Schengen ha permesso, infatti, per la prima volta nella storia degli stati moderni, la possibilità di attraversare confini, un tempo vigilati, senza quasi rendersene conto, ma, soprattutto, senza doverne rendere conto a nessuno.
Cosa sono dopotutto i confini? Limiti di spazio, tra un dentro e un fuori, tra noi e l’altro, ma chi definisce questo limite? A volte i confini sono naturali, segnati da un fiume, da una catena montuosa o da un mare, altre volte sono stati costruiti e tracciati dall’uomo, con la volontà di definire il proprio spazio di appartenenza.

Ma oggi, nel 2021, in un mondo globalizzato e collegato in maniera immediata attraverso gli strumenti tecnologici e il web, ha davvero ancora senso parlare di confini? Arthur Schopenhauer scrisse: «Ogni uomo confonde i limiti del suo campo visivo con i confini del mondo», e proprio da qui dovremmo ripartire oggi.
Dallo scoppio della pandemia molti confini sono stati chiusi o maggiormente vigilati, ma già molto tempo prima, in tutto il mondo, gli uomini hanno cominciato a costruire muri per evitare il passaggio di “barbari”, di stranieri provenienti da altri paesi, che invece di un virus avrebbero potuto portare una minaccia terroristica o “rubare il lavoro” agli abitanti di quelle terre. Barriere, distese di filo spinato, eserciti schierati: l’immagine che abbiamo del confine oggi è diversa da quella di pochi decenni fa, ma allo stesso tempo riproduce un pattern ricorrente, la necessità di sentirsi protetti in quanto circondati, almeno in caso di minaccia. Ma davvero il fatto che sia delimitato rende un territorio più sicuro? O semplicemente rende più complesso qualcosa che l’uomo ha sempre fatto e continuerà a fare, cioè spostarsi? 

Con l’11 settembre e la paura del terrorismo, e infine con il 2020 e la COVID19, la necessità di avere dei confini sicuri si è fatta sempre più fondamentale, mettendo allo stesso tempo alla luce la forte interconnessione che caratterizza gli esseri umani oggi: da una lontana città cinese, il virus ha fatto il giro del mondo in pochi giorni, anche quando gli stati hanno deciso di chiudere le frontiere. Ed è forse proprio questo fatto la dimostrazione che spesso, ancora oggi, siamo portati a confondere i nostri limiti mentali con i confini del mondo: non basta chiudere le frontiere, non serve a nulla isolarsi. Ormai, che ci piaccia o no, non siamo più solo italiani, cinesi o americani, ma siamo cittadini del mondo, di un mondo più che mai connesso, nonostante le crisi che tentano di dividerlo. Agire da soli non ha più senso, respingere famiglie e bambini al confine di uno stato non fermerà il movimento delle persone, ed erigere nuovi muri non risolverà la crisi migratoria. I confini, infatti, non sono solo quelli riportati sulle mappe, non sono solo linee, ma possono essere anche ponti, e collegare, invece di dividere. 

È necessario capire quale sia il vero confine, quello fondamentale, il confine della nostra umanità: fino a che punto si possa spingere la nostra mente non solo nel creare limiti, ma anche nell’abbatterli, un passo alla volta, nella direzione di un mondo più aperto, ma non per questo meno sicuro. Per fare questo è necessario lavorare insieme, in primis sulla percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri: con chi ci identifichiamo? Con l’appartenenza ad uno stato o con la nostra natura di esseri umani? Inizia tutto da qui, dallo spazio che lasciamo ai limiti: non necessariamente i confini vanno abbattuti, sono funzionali all’organizzazione del sistema e delle nostre vite, ma è necessario che siano trasformati da confini di guerra a confini di pace, con (veri) fini di pace. 

Il G20 e il senso della fortuna oggi

Quanto facciamo affidamento alla fortuna e al destino anche nelle occasioni importanti?

Da qualche giorno spopolano le immagini che ritraggono i leader del G20 raccolti intorno alla Fontana di Trevi e intenti a lanciare la tradizionale monetina. Probabilmente si tratta di un gesto per lo più mediatico, di una photo opportunity ben sfruttata, ma inevitabilmente spinge a pensare: quanto affidiamo le nostre decisioni e la spiegazione degli eventi della nostra vita alla fortuna? Se anche i grandi della terra, nel contesto di un Summit molto importante nel regolare gli equilibri di un sistema internazionale in trasformazione, sembrano fare affidamento ad una “scaramanzia”, allora i desideri che tutti esprimiamo di fronte alle candeline nel giorno del nostro compleanno, i riti portafortuna prima di un esame o di un’occasione importante e le routine scaramantiche “scaccia sfortuna”, sembrerebbero in qualche modo meno improbabili.

Il fatto è che, la necessità di affidarsi a qualcosa di superiore, incontrollabile e indecifrabile, è non solo caratteristico dell’esistenza umana, ma fondamento di tutte quelle credenze e necessità di spiegazione che hanno dato vita alle religioni e ai culti. Il mondo è troppo grande, gli uomini sono troppo piccoli, e, anche laddove la scienza sembra ormai poter spiegare tutto, rimane insita nella mente di molti la necessità di fare affidamento a forze superiori che giustifichino gli accaduti, di per sé senza spiegarli. 

Sotto l’aspetto filosofico la fortuna è una specificazione del caso, in quanto reca agli uomini qualche vantaggio o qualche danno: identificabile con la Tyche, la Provvidenza o il destino, a seconda delle epoche e del contesto essa assume diverse sfaccettature e significati e, per esempio, nella tragedia greca, l’eroe era tale per la sua capacità di sfidare la Tyche e rendersi libero. Ma è davvero qualcosa che regola le nostre vite, o siamo noi a scegliere di affidarci al destino? 

Guidati dalla necessità di spiegare eventi sublimi, fenomeni naturali, disastri e situazioni incontrollabili, gli uomini sono sempre stati spinti a fare affidamento ad elementi trascendenti ed ineffabili, capaci di giustificare senza analizzare nel profondo, ma anche di rassicurare circa l’imprevedibilità e l’impotenza dell’essere umano. Giustificare questo tipo di eventi con il fato o la fortuna ha permesso all’uomo di rendersi indipendente e distaccato rispetto ad essi, con la possibilità di dedicarsi alle cose del mondo pur nella consapevolezza di non poterle controllare pienamente. Con lo sviluppo della scienza, poi, le spiegazioni hanno cominciato a moltiplicarsi e il “trascendente” a farsi meno accattivante nella sua vaghezza, portando ad un processo di secolarizzazione non solo politica, ma anche culturale. Tutto questo, però, non ha portato alla completa dissoluzione delle credenze: al di là degli aspetti religiosi e di culto, infatti, ancora oggi in molti, per abitudine, ricadiamo in scaramanzie o credenze trascendenti, forse più per usanza che per vera fede nei loro risultati, e penso che il lancio della monetina sia esplicativo di questo.

I grandi leader del mondo, in fondo, non sono che persone: si tende a dimenticarlo, perché quando parliamo di Angela Merkel, Boris Johnson e Mario Draghi siamo portati a pensare a delle cariche, più che a degli individui, ma questa non è la realtà delle cose. Dietro ogni titolo c’è sempre un essere umano, con i suoi pregi e i suoi difetti, la sua logica e la sua superstizione, e anche se il gesto di fronte alla Fontana di Trevi lungi dall’essere un atto di fiducia nell’esaudizione di un desiderio, è proprio in quanto tale che è stato in grado di rimanere fissato nelle nostre menti molto più di quanto non lo siano la “Global Minimum Tax” piuttosto che tutti gli altri accordi e promesse compiute in sede di Summit. 

E allora mi chiedo: siamo davvero, nel XXI secolo, un popolo di scettici e realisti, o ci sono ancora cose in cui ci piace credere senza secondi fini, ma come rifugio sicuro in un mondo di certezze scientifiche?

Non c’è un pianeta B: l’umanità e l’ambiente

Bla bla bla. Così Greta Thunberg si rivolge ai politici di tutto il mondo: di fronte alle questioni ambientali, spesso, si parla molto e si agisce poco. Forse perché il problema ambientale sembra più lontano di quanto non sia realmente, o forse perché non si considerano i danni all’ambiente come danni ad un vero e proprio soggetto morale. Si tratta di capire, quindi, in che modo uno statuto morale possa essere applicato all’ambiente e come, di conseguenza, questo impatti sui doveri umani. 

La definizione che Treccani dà di «ambiente» è: 

«Con significato più concreto, la natura, come luogo più o meno circoscritto in cui si svolge la vita dell’uomo, degli animali, delle piante, con i suoi aspetti di paesaggio, le sue risorse, i suoi equilibri, considerata sia in sé stessa sia nelle trasformazioni operate dall’uomo e nei nuovi equilibri che ne sono risultati, e come patrimonio da conservare proteggendolo dalla distruzione, dalla degradazione, dall’inquinamento».

In questa sua definizione l’ambiente implica, oltre a dei fatti, anche degli atti, processi storici che lo hanno modificato in maniera concreta, e comportamenti necessari alla sua conservazione.
Molto dipende, però, da come consideriamo l’uomo nei confronti della natura: ne siamo padroni o custodi? Applicando il pensiero morale kantiano, l’ambiebte andrebbe trattato come mero mezzo per soddisfare i bisogni degli uomini o anche come fine?

L’evoluzionismo biologico darwiniano ha spazzato via le ipotesi circa la posizione gerarchica dell’uomo nella natura: egli non è più visto, nei confronti di quest’ultima, come un custode o come un padrone, ma semplicemente come una possibilità tra le tante dell’evoluzione. L’uomo si trova inserito in un ambiente e in una rete di relazioni che ne permettono la sopravvivenza. Esattamente come qualunque altro essere vivente, egli non è altro che una variante dell’evoluzione, e in quanto tale parte integrante della natura che lo circonda. Di conseguenza, proteggere l’ambiente dalla degradazione coinciderebbe con il proteggere se stessi e la propria sopravvivenza. 

Nell’etica applicata all’ambiente possono distinguersi due tipi di riflessione: un’ecologia della superficie, fondata sulla supposizione antropocentrica che l’uomo sia esterno rispetto all’ambiente e di conseguenza debba comportarsi nei suoi riguardi come un padrone o un custode, e un’ecologia del profondo, che si sviluppa dall’ambiente stesso e ha come soggetto la natura e non più l’uomo, che da categoria a sé stante diventa parte integrante dell’ambiente stesso.
L’antropocentrismo, dunque, non è sempre da condannare: esso varia da un tipo di pensiero fondato sull’idea che l’uomo sia padrone dell’ambiente e di conseguenza possa agire su di esso in maniera completamente arbitraria, ad una visione antropocentrica dell’uomo come custode della natura e dunque responsabile per essa.
Posto il fatto che, da ogni punto di vista, agire per proteggere il nostro pianeta ad oggi è l’unica scelta possibile, quale approccio, tra quello antropocentrico e quello ecocentrico, tra ecologia della superficie ed ecologia del profondo, è più corretto? 

Partendo dal presupposto che ormai, forse, è troppo tardi per discutere di categorie ontologiche, considerare l’uomo come parte integrante del sistema ambientale o come categoria superiore in grado di custodirlo o danneggiarlo è ormai indifferente. Abbiamo visto le conseguenze di un’umanità che si atteggia da padrona della natura e la sfrutta fino quasi all’osso per i propri fini e per i propri comodi, ma, arrivati al limite del tempo massimo per invertire una rotta che si prospetta catastrofica, poco conta che l’uomo si atteggi da custode o da componente dell’ambiente che deve salvare: in ogni caso l’umanità sarebbe danneggiata dalla crisi climatica, e in ogni caso, prima o dopo, le conseguenze di quest’ultima ci spingerebbero a reagire, almeno per limitare i danni. 

Che individualmente ci si voglia porre come custodi o come padroni, non cambia dunque il fatto che sempre, e in ogni caso, saremo anche parte di una trasformazione climatica che cambierà i connotati della natura e dell’ambiente all’interno dei quali solo possiamo esistere.
E se le parole non bastano, cosa siamo disposti a fare noi, nell’attesa (e nella speranza) che i politici di tutto il mondo trovino una strada comune con cui uscire da questa crisi? Dopotutto, in quanto «cittadini del mondo», anzi della natura, l’atteggiamento di ciascuno di noi è fondamentale per cambiare le abitudini e la rotta di un mondo che si è dimenticato di essere ambiente.

Eutanasia tra scienza, etica ed empatia

Negli ultimi anni il tema dell’eutanasia e delle pratiche di fine vita è diventato tanto centrale nel dibattito pubblico quanto controverso. È utile, dunque, portare alla luce quelli che sono gli elementi che la bioetica mette a disposizione affinché ciascuno possa crearsi un’opinione che sia effettivamente fondata.

Mentre nel XIX e XX secolo i bambini sapevano tutto sul morire, oggi sanno tutto sulla nascita e sul sesso, ma nulla sulla morte: quest’ultima è stata come cancellata, con una rimozione che, però, lungi dal negarla, pretendendo piuttosto di decidere sul da farsi. È così che sono emerse le pratiche del suicidio assistito (per mezzo del quale si forniscono all’interessato i mezzi per causare la propria morte) e dell’eutanasia (in cui a compiere l’atto che causa la morte è un terzo che agisce su richiesta esplicita dell’interessato terminale).

Ad opporsi fortemente ad esse, però, vi è il tradizionale atteggiamento del “vitalismo medico”, prospettiva secondo cui il dovere primo del medico sarebbe fare sempre tutto per prolungare la vita fisica e procrastinare la morte, partendo dalla tesi assiologica secondo cui la vita biologica sarebbe sempre buona in sé e la morte sempre il peggiore dei mali. Può darsi che in tempi passati il vitalismo fosse plausibile, ma con le scoperte mediche e l’allungarsi della prospettiva di vita hanno iniziato ad emergere i primi dubbi al riguardo.

Grazie al progresso medico e scientifico, infatti, è oggi possibile allungare la vita fisica di un individuo, ma ne vale davvero sempre la pena?  Ci sono casi in cui, arrivati a un certo stadio della malattia, gli sforzi dovrebbero essere diretti alla creazione di un’atmosfera serena e familiare, piuttosto che all’accanimento terapeutico. Questo ha portato alla nascita di una nuova branca dell’assistenza sanitaria: la medicina palliativa, che ha lo scopo di garantire una morte dignitosa e serena, rivolgendo grande attenzione alle relazioni sociali e agli interessi esistenziali del paziente.

Le critiche al vitalismo medico e l’avvento delle cure palliative segnano una svolta nell’approccio alle fasi terminali della vita, ma non sono chiare le implicazioni dal punto di vista deontologico, ossia su ciò che è concretamente lecito o illecito fare in tali situazioni. Da una parte vi è chi ritiene che la morte volontaria non sia mai moralmente ammissibile, dall’altra, invece, chi sostiene che quest’ultima sia più che lecita in presenza di una “condizione infernale”, caratterizzata da una sofferenza fisica tale da giustificare la scelta di porre fine alla propria esistenza.

I sostenitori della prima posizione propongono un’umanizzazione della morte, evitando l’accanimento terapeutico e accompagnando il morente con affetto fino alla fine, ma condannando qualunque atto teso a causare artificialmente la morte. Dal punto di vista teorico questa posizione basa le proprie considerazioni sull’idea che vi sia una differenza sostanziale tra il fare e il lasciare accadere, tra uccidere e lasciar morire, considerando cure palliative ed eutanasia pratiche alternative.

D’altra parte vi è chi ritiene che la “buona morte” richieda necessariamente la possibilità del suicidio assistito o dell’eutanasia volontaria in situazioni estreme, ritenendo che l’errore di chi le rifiuta risieda nel sopravvalutare la distinzione tra fare e lasciare accadere, al punto da limitare la nostra responsabilità solo all’azione dell’uomo e non anche all’azione della natura. Tale distinzione inevitabilmente sfuma in un’epoca in cui la morte avviene spesso in ospedale, per cui le fasi finali della vita del paziente sono tutt’altro che naturali, ma artificiali e prevedibili.

Una frequente obiezione posta alle pratiche di fine vita è legata al pericolo che esse portino a conseguenze sociali disastrose: si tratta un’obiezione empirica, perché, di principio, non ci sono motivi per condannare la morte volontaria. Tale critica obbietta che se le pratiche dovessero diffondersi le persone si sentirebbero in pericolo nella loro integrità, paragonando la situazione che si andrebbe a creare alla vita in un regime totalitario. In realtà le cose non stanno affatto così: le persone non verrebbero uccise prematuramente e senza ragione, ma l’eutanasia sarebbe attuata esclusivamente su richiesta dell’interessato affetto da una malattia terminale. Quindi, il fatto che sia una procedura volontaria, pubblica e controllata, dovrebbe essere garanzia sufficiente ad evitare eventuali abusi.

Qualunque obiezione di principio alle pratiche di fine vita, legata a credenze religiose o presupposti morali, dovrebbe essere di per sé sterile di fronte alla volontà del singolo malato terminale, unico legittimo autore di una scelta originata da una situazione di sofferenza che nessun individuo dovrebbe essere costretto a procrastinare di fronte alla possibilità pratica di porvi fine, che sia mediante la più drastica eutanasia o l’accompagnamento palliativo alla fine della propria esistenza.

Ricevi i nostri aggiornamenti

Ricevi i nostri aggiornamenti

Iscriviti alla newsletter di 1000miglia per non perderti nemmeno un articolo! Una mail a settimana, tutti i martedì.

Grazie per esserti iscritto!