Casa è mondo

Pasta, pizza e mafia. Per un australiano l’Italia è questo. Surf, barriera corallina e canguri. Per un italiano, invece, questa è l’Australia. Che si viaggi con l’intento di tornare, o con quello di restare, lo scambio è garantito. Londra è una capitale multinazionale: lingue provenienti da ogni angolo di mondo, fisionomie a ricordarci il valore della diversità, occhi che hanno visto chissà quali meraviglie, chilometri di distanza riuniti in una sola città.
Quartiere Soho, in un qualunque Starbucks, dipendenti indiani ti preparano il caffè. Sorridono e proponendoti un assaggio della famosa english breakfast, ti salutano con un “Buongiorno” dall’accento straniero. Anche se qui, il termine “straniero” quasi non esiste. Scendi in metro, ed ecco, una civiltà quasi disarmante: la moltitudine si muove senza intralciare nessuno, l’organizzazione non lascia spazi a ritardi, e la prevenzione corregge i guasti. Fuori dalla metro, due controllori di origine africana a testare il corretto funzionamento dei totem all’uscita. È immediato il paragone italiano: a Torino i controllori hanno paura degli immigrati neri che viaggiano sui pullman, tanto da venir meno al loro lavoro, non controllando i biglietti.
Quartiere di China Town, il cielo si fa rosso e a scritte cinesi sopra Londra. Una spagnola ci chiede di fargli una foto, favore poi ricambiato. Ci congediamo con un “Muchas gracias” e un sorriso, con direzione ristorante cinese. La cultura culinaria cinese, con la nostra mentalità italiana, poste in contatto dalla lingua inglese, da considerarsi patrimonio dell’umanità. In un comune McDonald londinese, incontriamo Giulia, che ci riconosce dai nostri discorsi in italiano, e che ci racconta un po’ di sé. Lei studia a Milano, vive a Londra; con il lavoro riesce a mantenersi da sola. È arrivata qui che non sapeva una parola di inglese, lo testimonia il fatto che ha tentato per dieci volte l’esame di inglese prima di passarlo. Qualche giorno di disorientamento, qualche settimana per adattarsi, e poi eccole, le radici. Non se ne andrà più via da lì. Così come Andrea, che lavora in coppia con il suo amico inglese in un Caffè nero, che riconosciamo dalla pronuncia di un inglese troppo scandito. E’ qui da qualche mese, ma è già casa sua. Giovani che con coraggio e un po’ di ingenuità, hanno deciso di trasferirsi all’estero, così come anche Emanuele, inserviente di un altro McDonald, che sogna in grande, ma per il momento, viene preso in giro da un gruppo di nigeriani che cena con hamburger e patatine. È un razzismo per noi inconsueto, che ci lascia stupefatti, perché in mezzo a tanta civiltà, ebbene sì, rimane ancora questa ignoranza, per fortuna sporadica, che fa credere inferiori i diversi.
La sera in ostello, a parlare con Josh, Tim e Troy, australiani di nascita, spiriti di mondo. Noi a sforzarci di capire il loro inglese stretto e ad esprimerci nel nostro inglese scolastico, e loro a farsi capire, parlando lentamente; perché ancora una volta l’inglese è il ponte, l’elemento comune di due civiltà, poste agli antipodi del mondo. Acquistato un camioncino, con dei soldi da parte, hanno viaggiato per tutta l’Europa, meravigliandosi della Sagrada Familia di Barcellona, dei paesaggi della Croazia, e avendo visitato più Italia di quanta ne abbia vista io. Siamo fortunati noi, dicono, che sappiamo parlare –a loro dire- due lingue, l’inglese e l’italiano, e che viviamo in Europa, il sogno di ogni australiano. Infatti Josh, pensa di trasferirsi proprio a Londra, perché in poco tempo potresti raggiungere qualsiasi città d’Europa. L’isolamento geografico dell’Australia, invece, costringe a ore di volo. Paradosso se penso che proprio questa voglia di mondo, si manifesta all’inverso nei sogni concretizzati di molti italiani: Alessandro che ci vive ormai da tempo, dirige un ristorante giapponese dove vi lavorano anche indiani, e Elena, interprete nell’ambasciata italiana australiana, insegna danza alle bambine.
Ritorni in Italia, e incontri un’amica, di ritorno da un viaggio di volontariato in India, dove a far da ponte non può essere l’inglese, parlato da un piccola parte di popolazione, contrariamente al comune pensiero, ma la propria umanità: un bacio di un bambino, uno sguardo di diffidenza, un gesto di gentilezza, l’adattarsi a costumi diversi. Lo stupore e la meraviglia, circondati da una completa mancanza di parole, che esprimono tutto.
La voglia di scoprirsi è la migliore comunicazione tra diversi. Il coraggio di partire è la più efficace opportunità. Spegnere il cellulare è il miglior modo per entrare nel mondo.

Storie dal Mondo

“Non ce la faccio, ti prego.”

“Fallo.”

“Non ci riesco.”

“Fallo, ho detto.”

“Non posso”

“Devi.”

“E’ la mia famiglia.”

“Dimenticala.”

…C’è un momento nella nostra vita in cui capiamo chi siamo, chi siamo sempre stati, chi continueremo ad essere. Ma a volte, in un momento possiamo perderci per sempre, sprofondando negli abissi più profondi… Sentiamo la terra cedere sotto i nostri piedi, il baratro spalancarsi, e cadiamo, giù, sempre più in fondo. E speriamo con tutto il cuore che qualcuno ci porga la mano, ci afferri, ci tragga in salvo. Ma quella mano adesso non c’è.

Uno sparo. Due. Tre. Dieci. Non si contano più. Il tonfo della caduta. Un urlo. Una lacrima.

“Bravo.”

Khamal, bambino soldato

 

Cara mamma, caro papà,

Stasera ripenso a voi dopo tanto tempo. Saranno le stelle che mi fanno questo effetto: le vedo brillare da una fessura nella mia capanna, e sono così belle che mi fanno pensare a quando ero ancora a casa con voi e le osservavo con Pariah mentre nonna ci raccontava le Storie degli eroi. Penso spesso a quelle storie, soprattutto mentre sono giù in miniera. A volte temo di non farcela, ma poi penso a voi, al debito da saldare per il quale mi hanno portato qui, e allora non mi fa paura niente e riprendo subito il lavoro. Perché mamma, papà, io diventerò un eroe, proprio come quelli delle storie della nonna! Salderò il vostro debito, e allora mi toglieranno questa catena e potrò tornare a casa da voi, riabbracciare Pariah, ascoltare ancora le storie della nonna sotto le stelle. Sì, tornerò da eroe! E allora nel villaggio si racconteranno le mie imprese, come sopravvissi ai mostri più crudeli, come non piansi neanche quando persi i miei compagni, come imparai a non avere paura del buio.

Ecco, le stelle si spengono, proverò a dormire un po’. Fra non molto verranno a prendermi e dovrò essere in forze per affrontare un’altra impresa! Ce la farò, sarò il vostro eroe! Buonanotte mamma, buonanotte papà. Non dimenticatemi. Tornerò.

Youssef, bambino lavoratore

 

Ti ho sempre amato, oh mare. Da piccola eri il mio compagno di giochi e di avventure; mi affascinavi con la tua potenza, mi spaventavi con la tua immensità, ma solo con te mi sentivo al sicuro. Sono cresciuta assieme a te, avvolta dalla melodia delle tue onde e trovando sulle tue sponde sempre conforto in ogni momento. E adesso, ora che sono una donna, ora che sono una madre, ancora una volta, oh mare, mi affido a te. Sono qui, su questa fragile barca, con il mio bambino, come tanti altri uomini e donne: la nostra vita è nelle tue mani. Cullaci come cullavi me da bambina, donaci quel conforto che ho sempre percepito nell’abbraccio del tuo vento, tieni accesa la nostra speranza come tante volte hai fatto nella mia vita. Portaci all’altra sponda, mare mio, portaci lontano dalla guerra che ha distrutto la nostra terra, lontano dalla morte che ha rapito i nostri fratelli, lontano da tutto quel dolore che ogni cuore spera non dover mai più provare. Portaci verso la libertà, verso la pace. Non ti dimenticare, mare, di una tua vecchia amica fedele. Io mi affido a te.

Farzana, migrante clandestina

 

A volte mi chiedo chi sono. Se conto ancora qualcosa. Se sono più di un numero su un tesserino, se valgo più di quel che produco, se ho ancora un’anima o se sono solo un ingranaggio di una macchina che di me ha bisogno finché funziono. Non ci penso spesso a queste cose, ma quando lo faccio ho paura. Ho paura perché ciò che dovrei temere è invece una tremenda normalità. Sì, è normale. Qui a Tokyo si chiama karoshi, “morte da troppo lavoro”, ed è considerata una morte dignitosa, un onore, una gloria: la vita che ci abbandona va ad alimentare ciò per cui l’abbiamo perduta, e di ciò dobbiamo essere grati. Ho 42 anni, lavoro per 18 ore ogni giorno in una fabbrica alla periferia della città. La mia vita, se mai ne abbia una, mi sfugge senza che io possa fare nulla. Non ho tempo né forza per vivere, sono solo, e probabilmente lo sarò sempre. Nei rari momenti in cui ho il coraggio di pensare, ho paura: mi vedo in gabbia, ma non ho nessuna chiave per liberarmi. Ma esiste forse un modo per liberarsi della normalità?

 Shoan, operaio

 

 

Annamaria De Lilla

Emozioni rivelatrici

Non c’è niente di più umano delle emozioni. Noi siamo rabbia, paura, disgusto, disprezzo,tristezza e felicità; siamo animali in grado di comunicare senza emettere suoni, animali che vivono in gruppo e che la natura ha dotato di linguaggi fisici per comprendersi universalmente. Il bello di tutto ciò è che già dalla nascita possediamo la capacità di capire cosa una persona sta provando; si tratta però di un qualcosa di inconscio, dato che è il nostro cervello a tradurre il messaggio cifrato. Tutti noi ben sappiamo che ogni emozione produce un comportamento differente a livello fisico: accelerazione del battito cardiaco, della respirazione, dilatazione delle pupille o, per esempio, sudorazione. Ma non tutti sanno che ad ogni sensazione emotiva viene associato un determinato insieme di movimenti di muscoli facciali. Essi sono involontari, noi non li controlliamo. Oggigiorno vengono studiati sempre di più, insegnati a membri di polizia e forze dell’ordine di tutto il mondo per combattere la criminalità e in generale migliorare le loro capacità di lie detector. Gli agenti devono imparare a diventare macchine della verità, perché quelle meccaniche da film di spionaggio non servono proprio a niente. Misurano la veridicità della risposta semplicemente verificando la variazione del battito cardiaco del soggetto, non curandosi del fatto che essa può variare a seconda di che emozione prova. Posso essere completamente innocente, ma essere così spaventato da avere il cuore a mille, dire la verità, ma essere ritenuto colpevole. Per ovviare a queste lacune si sta costruendo una macchina che è in grado di percepire le emozioni dell’interrogato attraverso l’analisi di ciò che ho prima citato, potendo così aiutare l’interrogando a collegare l’emozione con la risposta che gli viene data e decidere come strutturare l’interrogatorio. Per esempio, se alla domanda ” Lei ha mai conosciuto quest’uomo?” si risponde di no, ma la macchina ha riconosciuto una manifestazione di rabbia mista ad un aumento di temperatura corporea, allora significa che l’interrogato sta mentendo, poiché nasconde risentimento verso quella persona! Per cui non dimenticate che il vostro viso è un libro aperto, l’emotività umana è più rivelatrice di quanto pensiate.

Davide Ghisolfi

Grandi malattie sconfitte da piccole tecnologie

Il tempo e l’esperienza hanno reso l’uomo capace di studiare e sviluppare tecnologie sempre più grandi e sempre più piccole. Ma possono realmente esserci utili? A Basilea, per esempio, hanno pensato a un modo di usare la nanotecnologia che potrebbe rivelarsi meravigliosamente efficace.

Nonostante i grandi passi avanti compiuti in medicina, per molte malattie infettive non esiste ancora un vaccino e i farmaci attualmente usati sono sempre meno incisivi perché i parassiti sono in grado di evolversi per resistere al loro effetto. Servono quindi nuove strategie per combattere malattie come la malaria, che ogni anno secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), uccide 600000 persone, soprattutto bambini.

I parassiti della malaria invadono i globuli rossi dell’uomo, vi si nascondono e poi si replicano, facendo scoppiare la cellula, per poi infettarne altre. I ricercatori dell’Università svizzera di Basilea hanno pensato di ricorrere a una delle nuove frontiere per sviluppare un sistema in grado di spezzare questo ciclo: le nanotecnologie. Non a caso la ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica ACS Nano.

Il gruppo di ricerca, capitanato dai professori Cornelia Palivan e Wolfgang Meier, ha pensato di servirsi della “NANOMIMICA”, cioè della costruzione di strutture microscopiche capaci di imitare quelle delle cellule umane. Con questa idea hanno costruito una membrana analoga a quella dei globuli rossi, che, perciò, inganna i parassiti. Nello specifico hanno ideato delle bolle artificiali sulla cui superficie si trovano i recettori tipici della cellula ospite per i parassiti. Addirittura sono riusciti ad ottenerle ponendo semplicemente i recettori e i componenti della membrana in una soluzione acquosa: le bolle, infatti, sono in grado di autoassemblarsi! Se esse vengono iniettate nel sangue di un paziente malato, l’infezione può essere circoscritta e sconfitta. Dopo aver attaccato un globulo rosso, il parassita ne causa lo scoppio e poi, al posto di infettarne un altro, attacca la bolla artificiale. La diffusione dei parassiti viene così fermata; inoltre rimanendo legati alla membrana delle finte cellule, gli ospiti sgraditi del nostro organismo diventano facilmente attaccabili dal sistema immunitario.

Grazie a molteplici osservazioni, i ricercatori si sono assicurati della bontà della loro scoperta e possiamo quindi considerare la “NANOMIMICA” non più un termine particolare, che digitato su Google non produce alcun risultato, ma un prospetto realmente interessante per la medicina del futuro. Nonostante questo studio sia avvenuto sui parassiti della malaria, il metodo di azione è replicabile per tutte le malattie che si sviluppano allo stesso modo. Infine, proseguendo con le sperimentazioni e affinando le tecniche, può anche essere pensato un vaccino, una soluzione che permetterebbe col tempo di cancellare molte malattie infettive.

La smania dell’uomo di indagare con i mezzi che ha e con quelli che è stato capace di costruire non è soltanto una risposta alla necessità di conoscere, ma può salvare delle vite. Questo penso sia il motivo per cui essere ottimisti significa credere nel progresso.

Marco Brero

“Tenete sveglia la mia coscienza!”

“Come riuscirò a tenere accesa l’attenzione di un liceale alla mia prima lezione?” potrebbe chiedersi un neo-professore che ha appena ottenuto una cattedra a tempo determinato o una sostituzione fortuita, arrivata magari dopo mesi passati a casa senza lavoro. Una sfida che i più coraggiosi raccolgono ancora ogni giorno, nonostante siano anni che mettono piede in un decadente edificio scolastico qualunque. I docenti più fortunati sfruttano l’attinenza di argomenti inerenti alla loro materia con fatti e problemi legati all’attualità per stabilire dei collegamenti che aiutano a sviluppare la lezione su molteplici fronti; come accade sovente nelle ore di filosofia, storia, italiano ecc. Ma, se foste nei loro panni, parlereste ancora di “fortuna”? Mettere a disposizione degli studenti tutti gli strumenti per far sorgere in loro dubbi e scavare a fondo nelle loro coscienze potrebbe da un lato contribuire notevolmente alla formazione di un concetto di partecipazione e cittadinanza (valori che sembrano ormai sconosciuti alle nuove generazioni), ma allo stesso tempo rischierebbe facilmente di evidenziare lo stato di apatia in cui ristagna la maggior parte dei giovani al giorno d’oggi. Non c’è nulla che possa creare un sentimento di sconforto maggiore della mancata partecipazione e presa di coscienza, come testimoniano gli occhi delusi di un professore davanti agli sguardi vuoti di ragazzi che non alzano la mano per esprimere la propria opinione.

D’altronde, chi non si è posto almeno una volta la domanda: “Cosa interessa davvero a un ragazzo di diciotto anni?”. Raggiunta la maturità legale, quando ognuno dovrebbe oramai essere pronto a prendersi le proprie responsabilità civili ed ad avere un ruolo attivo nella società, nella maggior parte dei casi mancano le basi per la costruzione di un individuo cosciente e responsabile. Default dell’educazione ricevuta o cattivo impiego dei mezzi di informazione? Se una classe di liceo venisse rinchiusa per una settimana in una stanza con alcuni viveri ed un computer con accesso ad internet, quanti si preoccuperebbero di verificare le notizie dei giornali sui fatti del mondo, oltre a navigare sui social networks?

Scappare anche solo per un istante dalla routine di tutti i giorni, che ci riserva tranquillità e abitudini consuete, è ciò che spaventa di più un giovane liceale come me. Vorremmo tutti poterci occupare solo degli affari che ci riguardano, senza rendere conto a nessuno delle nostre azioni. L’indifferenza verso tutto ciò che sta al di fuori della finestra ci porta inesorabilmente a trascorrere ogni giorno della nostra preziosa esistenza in uno stato di apatia che attenua pian piano tutte le emozioni fino a renderci impassibili di fronte a qualsiasi atrocità ci capiti sotto gli occhi. In questo caso, si può realmente parlare di “vivere”?

Lasciarsi tormentare da dubbi apparentemente senza soluzione o da domande che ci rimbombano nella testa come: “In quale modo posso contribuire al benessere del Mondo?” è un passaggio fondamentale per riuscire a sentirci davvero “vivi”. Ognuno può trovare le questioni che più lo tormentano provando a prendersi anche solo una piccola pausa dal frenetico ritmo quotidiano, spegnere la luce e pensare a quali sono i suoi reali interessi. Per il resto, un’informazione ampia ed attendibile è fondamentale solo nel caso in cui venga opportunamente completata da una conoscenza del mondo che ci spinga a scoprirlo da vicino.

Abbandonare la tranquillità della vita quotidiana per intraprendere un viaggio attraverso le diverse culture e i conflitti che alimentano le vicende globali, ma soprattutto attraverso noi stessi, è il primo passo per poterci “lasciar tormentare” e infrangere finalmente il vetro di apatia che ci intrappola.

Da grande voglio fare il pompiere!

Luglio 2014 – Esco di casa rabbrividendo, sfilo per le silenziose strade del centro e appena fuori dalle mura cittadine trovo la tramontana che mi accompagna leggera nel mio abituale tragitto mattutino. Ad accogliermi sono le consuete facce allegre dei bambini, pieni di vitalità a qualsiasi ora del giorno e della notte, pronti ad iniziare una nuova giornata colma di attività insieme. Come mi sia venuta in mente questa idea di fare l’animatore non lo so, in Francia per di più, non parliamone. Una catena di occasioni mi ha travolto in questa avventura e non mi ha lasciato il tempo di riflettere sulle mie scelte.

<<La vera felicità è quando non ti chiedi se sei veramente felice>> mi disse una volta un amico e, solo adesso che mi ritrovo senza pensieri ad apprezzare ogni giorno come un’esperienza unica, capisco a fondo le sue parole.

Mi sento parte di un progetto che coinvolge ogni persona che mi circonda, ogni vicolo desolato di questo posto, ogni minimo misterioso anfratto che ogni giorno mi induce a proseguire il mio cammino, anzi, la mia corsa, spinto dall’impulso della curiosità. Così ogni volta che rientro dal lavoro la voglia di tornare a casa diminuisce con l’avvicinarsi della porta d’ingresso, perché rinchiudermi in una stanza buia quando là fuori c’è un mondo tutto da scoprire? Cambio direzione e mi infilo in strade sconosciute, attacco bottone con estranei e mi faccio trasportare nel mondo della spensieratezza per il puro gusto di soddisfare la mia irrefrenabile voglia di non perdermi nessun istante di questa meravigliosa città.

Ma oggi c’è qualcosa di nuovo ad attendermi. Le strade del centre-ville sono interamente tappezzate da cartelloni di ogni forma e grandezza, curiosi personaggi mi vengono incontro per lasciarmi tra le mani una colorata pubblicità del loro spettacolo e un insolito affollamento di valigie turistiche scombussola i ritmi provenzali della città: il Festival del Teatro di Avignone ha ufficialmente inizio. Il più vasto panorama teatrale europeo, che offre più di 900 rappresentazioni e raccoglie nella città francese migliaia di persone si tiene ogni anno nel mese di luglio e cambia completamente la faccia e i ritmi di vita di questa città. Non solo immense code fuori dai piccoli teatri che spuntano ad ogni angolo, ma anche spettacoli di strada di artisti da tutto il mondo contribuiscono a trasformare l’atmosfera in un misto di esuberanza e vitalità che travolge in primo luogo gli abitanti oltre agli immancabili turisti. Mi perdo nei giorni seguenti abitualmente tra gli sguardi intensi della gente e cammino fino a ritrovare la via di casa.

Quando ho modo di sedermi di fronte ad un palco, che io sia in un teatro per pochi intimi o un semplice punto in un’enorme sala colma di gente, sempre le stesse emozioni risalgono la mia colonna vertebrale e mi coinvolgono appieno nello spettacolo. Guardando gli attori che interpretano personaggi di ogni tipo e mestiere, il ricordo mi trasporta alla mia infanzia, ai tempi in cui il mio futuro rimaneva un’incognita costante ma in cui avevo ogni giorno un’idea quasi ferrea di cosa sarei diventato da grande. <<Mamma, da grande voglio fare il pompiere! L’astronauta! Il medico! Lo scienziato!>>, vorrei vedere cosa ne penserebbe adesso il bambino che voleva cambiare il mondo, osservando quello che sono diventato e le scelte che ho attuato finora. Sicuramente però vorrei avere ancora il coraggio di quel bambino, che seguiva fino in fondo le sue intuizioni e i suo sogni senza lasciarsi sgualcire dal pensiero altrui, per non lasciarmi sfuggire le occasioni che la vita costantemente mi propone. Ritrovo questa spensieratezza e determinazione negli occhi dei fanciulli con cui faccio l’animatore ogni giorno e immancabilmente mi assale il pensiero che senza quella vena di intraprendenza infantile probabilmente non sarei qui in questo momento. In quante esperienze mi sarei realmente buttato, se mi fossi fatto condizionare dalla mente chiusa della società d’oggi? E cosa avrebbe pensato a quest’ora quel bambino che aveva come motto la frase di E. Roosevelt “il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni”? I suoi occhi me li porto dietro ancora oggi, e nascondono nel profondo tutte le speranze di un ragazzo che inseguirà affannosamente tutte le avventure possibili, pur di riuscire a realizzare i sogni di un curioso bambino.

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