Orhan Pamuk, scrivo perché

Lunedì 30 novembre Orhan Pamuk, Premio Nobel turco per la Letteratura nel 2006, era al Teatro Carignano di Torino a presentare la sua ultima opera, “La stranezza che ho nella testa”. Ha divertito, entusiasmato, acceso una platea giovane e multietnica. Molti con il suo libro in mano, tanti con una penna e un foglio per appuntarsi qualche sua parola, tutti consapevoli che Pamuk sta facendo la Storia, la Storia delle Idee, regalandoci le sue, così fresche, schiette e sincere.

Alla domanda “perché scrivi?”, in un’intervista, Orhan ha risposto con queste parole, da leggere tutte d’un fiato e a voce alta:

Scrivo perché ne ho voglia.
Scrivo perché non posso fare un lavoro normale come gli altri.
Scrivo perché dei libri come i miei siano scritti e io li possa leggere.
Scrivo perché ce l’ho con voi tutti, contro il mondo.
Scrivo perché mi piace stare chiuso in una stanza tutto il giorno.
Scrivo perché non posso sopportare la realtà se non trasformandola.
Scrivo perché il mondo intero sappia che genere di vita io, gli altri, noi tutti abbiamo vissuto e continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia.
Scrivo perché amo l’odore della carta e dell’inchiostro.
Scrivo perché credo più di tutto nella letteratura, nell’arte del romanzo.
Scrivo per abitudine, per passione.
Scrivo perché ho paura di essere dimenticato.
Scrivo perché apprezzo la fama e l’interesse che ne derivano. Scrivo per star solo.
Scrivo nella speranza di capire perché ce l’ho così tanto con voi tutti, con il mondo intero.
Scrivo perché mi piace essere letto.
Scrivo, dicendomi, che bisogna finire questo romanzo, questa pagina, che ho cominciato.
Scrivo, dicendomi, che è quello che tutti si aspettano da me.
Scrivo perché come un bambino credo nell’immortalità delle biblioteche e nella posizione che vi mantengono i miei libri.
Scrivo perché la vita, il mondo, tutto è incredibilmente bello ed esaltante.
Scrivo perché è piacevole tradurre in parole tutta questa bellezza e la ricchezza della vita.
Scrivo non per raccontare una storia bensì per costruirla.
Scrivo per sfuggire al sentimento di non potere raggiungere un luogo verso cui si aspira, come nei sogni.
Scrivo perché non riesco ad essere felice qualsiasi cosa faccia.
Scrivo per essere felice.

L’ecologia dei debiti che schiaccia il debito ecologico

Si è appena conclusa la Conferenza del Clima di Parigi organizzata con lo scopo di raggiungere un accordo per salvare l’ambiente dalle destabilizzazioni climatiche. Tra i tanti discorsi di chi avrebbe potuto fare molto (ma non vuole), il discorso del Presidente di uno Stato che molti di noi nemmeno sanno piazzare precisamente sulla mappa ha rivelato il segreto per “salvare la Terra”. Si tratta di Rafael Correa, presidente dell’Ecuador.

Egli ha denunciato come le (false) proposte di chi ha portato al disastro attuale non tengano conto di una basilare realtà: la crescita all’infinito è “indesiderabile e impossibile”. Indesiderabile perché un aumento del PIL non corrisponde a un aumento della felicità. Impossibile perché non è materialmente fattibile crescere continuamente, siccome “la tecnologia e la scienza ampliano i limiti, ma non li eliminano” e dobbiamo tenerne conto, altrimenti il conto per noi e per l’ambiente sarà salato.

Correa ha avuto il coraggio di dire ciò che molti governanti del Nord del mondo si rifiutano di accettare, cioè che “è impossibile una crescita infinita in un pianeta dalla risorse finite”, per citare il teorico della decrescita felice Serge Latouche.

Cosa propone l’Ecuador? Garantire il libero accesso ai “beni comuni” per evitare un consumo superfluo dei beni ambientali, firmando un trattato vincolante per tutelare i beni naturali. È molto importante l’aggettivo “vincolante” perché fino ad ora i trattati internazionali sul clima sono stati “non vincolanti”, come quello firmato a Montreal nel 2005 che rappresenta la “base di partenza” per la COP21. La proposta di Correa è quella di introdurre una Corte Internazionale di Giustizia Ambientale per condannare i crimini ambientali.

Perché non condannare il “debito ecologico” se si condanna quello pubblico? Questo è il presupposto di Rafael Correa il quale afferma nel discorso che: “Nulla giustifica l’esistenza di tribunali che proteggono gli investimenti o che obbligano a pagare i debiti finanziari, ma possibile che nessuna corte possa giudicare i crimini ambientali?” E aggiunge che si tratta della “logica perversa dalla privatizzazione dei guadagni contemporaneamente alla socializzazione delle perdite.”

L’attacco ai meccanismi finanziari è forte e pienamente coerente con la storia politica di Correa. Infatti, nel suo primo mandato presidenziale, ha dichiarato parte del debito pubblico del suo paese “immorale”, e quindi detestabile perché realizzato dalla precedente dittatura, pagando ai creditori il 30% del valore nominale dei titoli invece che la totalità.

L’Ecuador non è stato il solo stato del Sud America che negli ultimi anni ha cercato una via indipendente e lontane dalla politiche neoliberiste di Washington e Bruxelles. Sempre rimanendo nell’ambito delle conferenze sul clima, Chavez nel 2009 ha affermato una grande verità, riferendosi al rapporto fra finanza e ambiente, con la frase: “Se il clima fosse una banca, lo avrebbero già salvato.”

Forse è ora anche per l’Italia di sganciarsi dal pensiero dominante e pensare soluzioni innovative e originali per salvare l’ambiente che, soffocato dal paradigma della crescita economica illimitata, è in salute più che precaria.

 

Federico Musso

Quello che il pianoforte a Porta Nuova mi ha insegnato

Non so quanti cuneesi capitino, più o meno abitualmente, nella stazione di Torino Porta Nuova. Immagino che, tra studenti e lavoratori pendolari, universitari fuori sede, liceali che cercano i fatidici “saloni dell’orientamento” per capire cosa fare della propria vita post-diploma, viaggiatori vari ed eventuali, molti di voi si siano accorti della presenza di un pianoforte. Nell’atrio, di fronte all’ingresso della metropolitana, in quello spazio che, per chi arriva a Torino in treno, rappresenta un po’ la porta d’accesso alla città.

E chiunque può sedersi e suonare.

Un pianoforte è di per sé poetico. Crea quell’atmosfera piacevole e armonica, dà l’idea che tutto sia nel posto giusto. E forse, semplicemente, questo basta per mitigare il caos frenetico della stazione, fatto di corse, annunci di ritardi e imprecazioni, persone da salutare e biglietti da comprare ad una macchinetta che porca miseria non dà resto.
Ma non è solo l’incontro tra armonia e caos, a rendere speciale un pianoforte in una stazione. Perché se ti fermi ad ascoltare chi suona, o anche solo dai un’occhiata mentre passi di fretta, ti rendi conto che sono moltissime le cose che quel pianoforte ha da dirti.

Innanzitutto, la musica che senti passando ti ricorda che, solo perché hai preso il treno delle 6.54, e stai andando a lezione, e hai decisamente troppo sonno per farlo, non significa che al mondo esistiate solo tu, il treno delle 6.54 e l’aula in cui ti rinchiuderai. C’è un mondo fuori da tutto questo, e la prova che quel mondo c’è sta nel fatto che qualcuno, a quell’ora del mattino, si è seduto a suonare. 
Ma se per qualche mattina, oltre ad ascoltare la colonna sonora che qualcuno ti sta offrendo, lanci uno sguardo a quel qualcuno, ti accorgi che spesso a suonare è una persona che, se l’avessi incontrata per strada, mai ti saresti immaginata seduta ad un pianoforte. E allora ti scrolli di dosso quello stereotipo (e forse, anche qualcuno degli altri) del pianista elegante e raffinato, con il frac e i guanti bianchi, e rimani incantato da quel clochard, o da quel ragazzo con la cresta e la giacca di pelle, e dalle loro mani che corrono sui tasti.

Che corrono, o che inciampano. Ecco un’altra cosa che ha da dire il pianoforte  di Porta Nuova. Oltre ai tanti che stupiscono perché suonano, con totale disinvoltura e senza spartiti, qualunque cosa, da Beethoven ai Coldplay, ci sono anche persone che si avvicinano timide, e sfiorano qualche tasto a caso, o provano Fra Martino. Li senti, e sorridi, se come me non ti intendi di musica, perché sai che tu non avresti mai il coraggio di farlo, chissà perché. Ma forse sorridi anche se ti intendi di musica. Perché una persona che si lancia senza paracadute in qualcosa, eroica o banale che sia, conquista la nostra simpatia. 

Ma il dono più grande che il pianoforte fa alla stazione di Porta Nuova, è accorciare il tempo. O meglio, dare alle persone uno strumento per farlo. Sciopero delle ferrovie. Arrivi in stazione, cerchi sul tabellone il tuo treno pregando che non sia stato cancellato. Il treno dovrebbe partire tra due minuti, ma il binario non è ancora indicato. Compare “5′” nella colonna “ritardo”. Poi 10′, poi 20’…poi scompare tutto, sostituito dalla scritta “CANCELLATO”. Ma tu ormai te lo aspettavi. Ti siedi e aspetti.

L’ultima volta che mi è capitato, un ragazzo suonava “Can you feel the love tonight” al pianoforte. Mi sono fermata, rassegnata ad aspettare un’ora sperando nel treno successivo, e intanto intorno al pianoforte si era creato un piccolo gruppo di persone. Il pianista continua con tutte le canzoni Disney che ricordo, e quando attacca “Let it go”, una ragazza aspetta che le prime note le diano coraggio, poi si alza e inizia a cantare. Più tardi, chiacchierando, ho scoperto che il pianista è un medico indonesiano e sta seguendo un master a Torino, e la cantante viene della California, ha un tatuaggio del Re Leone e sta lavorando in Italia come baby sitter. Un’altra ragazza si alza, chiede al pianista se conosce una canzone, e la musica ricomincia. Il piccolo pubblico canticchia con lei, chi a bassa voce, chi “facendo il coro”. Il treno dell’ora dopo è cancellato, e anche quello dopo ancora. Ma intanto si alternano pianisti e cantanti, e un po’ del mio nervosismo se ne va. Chiacchiero con chi si trova nella mia stessa situazione, mi chiedono di dove sono, cosa faccio nella vita, la ragazza californiana e la sua amica mi dicono che il prossimo weekend andranno alle Cinque Terre e mi offrono di andare con loro.

Arrivo a casa alle nove di sera. «Sì mamma, c’era sciopero. Avevo finito lezione alle quattro, e sono stata tre ore a Porte Nuova. Ma è stato meno peggio del previsto.». Il pianoforte ha fatto, ancora una volta, una piccola magia.

Una scelta che ti cambia la vita

Un grande oratore diceva che la fortuna non esiste; esiste invece il momento in cui il talento incontra l’occasione; ecco, io credo che le occasioni nella vita bisogni cercarsele, perché nulla cade in testa come manna se non la pioggia quando ti sorprende per strada senza ombrello.

Quando ho accettato di raccontare le mie “foreign opportunities”, sapevo non sarebbe stato facile trovare le parole giuste per  trasmettere a chi mi leggerà, le emozioni più profonde che hanno accompagnato i miei soggiorni all’estero. Ci proverò ugualmente.

Tutto ha inizio quando avevo 16 anni, e vivevo immersa tra gli ulivi e i muretti a secco del mio Salento; ero felice ma cercavo qualcosa che potesse aggiungere un po’ di pepe alla mia vita. Così, senza troppi se né ma, un giorno ho detto ai miei genitori “Mamma, papà: voglio partire”, e loro, con le lacrime agli occhi, hanno subito capito che la mia felicità era la discriminante principale per la loro. Dopo un percorso di selezione con l’associazione che mi ha affiancato in questa prima avventura, sono volata in Finlandia dove ho trascorso il terzo anno del liceo tra neve, freddo e tanto amore da parte della mia host family e dei miei amici. È un posto misterioso, il Nord, affascinante e ricco di sorprese, ma è anche un posto difficile da apprezzare se sei una ragazza del Sud che, come erano soliti dire loro: “hai il sole dentro e non hai bisogno di guardarlo con gli occhi”; perché di sole, in Finlandia, se ne vedeva ben poco.

Le difficoltà sono state tante, perché, trovarsi improvvisamente catapultati in una nuova cultura, con usanze, ritmi e lingua diversa dalla nostra, è a dir poco spiazzante. E poi la freddezza apparente dei finlandesi. E dico “apparente” perché imparando a conoscerli meglio ho compreso che in realtà sono molto più “socievoli” di quanto diano a sembrare in un primo momento. Per entrare in stretto contatto con loro ci vuole tempo, pazienza e soprattutto rispetto ma, una volta che ci si riesce, il rapporto che si instaura è vero e duraturo. Un finlandese come amico è per sempre. Dopo il trasferimento a Torino per iniziare l’università, ho intrapreso a fine dicembre 2014 una nuova esperienza che mi ha portata a Montreal, splendida città nell’area francofona canadese, per un semestre di studio. Nonostante la gioia iniziale di aver vinto la borsa di studio, i dubbi mi hanno tormentata fino a poco prima di quando sarei dovuta partire. A Torino in fondo mi trovavo bene, per quale motivo avrei dovuto interrompere l’equilibrio una terza volta? Vi lascio immaginare come è andata. Il Canada è un paese stupendo, là ho avuto la possibilità di rapportarmi con una cultura transoceanica, ho visto con i miei occhi paesaggi mozzafiato e sentito sulla mia pelle il dolore del freddo di quelle terre. Ho ammirato la gentilezza dei canadesi, e soprattutto ho stretto alcuni dei rapporti tra i più importanti della mia vita, che vanno oltre le barriere del  tempo e dello spazio; come quello con la mia “sorella” messicana, Maripaz, amica e compagna durante quei mesi ma sicuramente per sempre. Il Canada è un Paese che offre molte opportunità lavorative ai giovani, è multiculturale, l’istruzione è ottima e vivere questo periodo mi ha fatto crescere e scoprire una parte di me ancora nascosta.

Uscire dalla propria sfera di cristallo non è stato affatto facile. Ogni scelta ha comportato  rinunce, sacrifici, pianti e momenti di sconforto che però sono stati compensati da  altrettanti momenti di stupore, gioia e soddisfazione. D’altronde tutto nella vita ha un prezzo da pagare. Ma ne è valsa la pena. “when there is will, there is a way”  I sogni esistono per provare a realizzarli,  partire non vuol dire abbandonare il proprio Paese, ma anche tornare con la consapevolezza e il bagaglio di esperienze dei miei viaggi.

Chiara Carlino

Austronomia

In un mondo che prigioniero è (di gas serra e inquinamento di ogni genere) a volte compaiono anche buone notizie, che non sono il frutto di chissà quale miracolo, ma semplicemente di una politica oculata e lungimirante. Lo stato della Bassa Austria, il più esteso dei nove che compongono l’Austria, con capitale Sankt Polten ha recentemente raggiunto l’obiettivo di produrre il 100% dell’energia necessaria tramite fonti rinnovabili. Il premier Erwin Proell ha dichiarato che sono stati compiuti pesanti investimenti per migliorare l’efficienza energetica ed espandere l’uso delle rinnovabili. Dal 2002 la cifra impiegata a questo scopo ha sfiorato i tre miliardi di euro e grazie a questi soldi si sono potuti costruire, per esempio, dei “parchi solari” oppure sono state rinnovate le centrali idroelettriche sul Danubio. Ora il 63% dell’energia della Bassa Austria proviene dall’idroelettrico, il 26% dall’eolico, il 9% dalle biomasse e il restante 2% dal solare. In Austria, nel suo complesso, il 75% dell’energia arriva da fonti rinnovabili e solo il restante quarto proviene da combustibili fossili. Nel 1978 l’Austria con un referendum aveva deciso di abolire lo sfruttamento dell’energia nucleare (si ricordi che il disastro di Chernobyl sarebbe avvenuto solo 8 anni più tardi, infatti in Italia l’abolizione è arrivata puntuale nel 1987). Anche dal punto di vista dell’occupazione, la “green energy” è una scommessa assolutamente vinta: in Bassa Austria sono stati creati 38000 posti di lavoro, anche se entro il 2030 l’intenzione è di portarli a 50000. Siamo all’inizio di una sensibilizzazione ormai sempre più necessaria che deve riguardare tutti i Paesi del mondo? Sicuramente la speranza è questa e un altro indizio confortante è la notizia rilanciata qualche giorno fa dal quotidiano argentino La Nacìon. Il discutibilissimo governo Kirchner ha infatti approvato un piano che porti il Paese a produrre il 20% della propria energia tramite fonti rinnovabili (a fronte del misero 1% attuale) entro il 2020. Il primo step è raggiungere l’8% nel 2017. Gli esperti, considerando il potenziale ambientale dell’Argentina, hanno ben presto fatto notare come queste stime siano poco ambiziose e come si possa fare molto di più a Buenos Aires e dintorni. Un punto importante, però, del decreto-legge varato dal governo della Presidenta è il fatto che i fruitori di grandi quantità di energia debbano, in accordo con le proporzioni statali, fare in modo di ottenere almeno parte dell’energia di cui necessitano in forma pulita. E in Italia come stiamo messi a percentuali? Per la verità, i livelli in Italia sono abbastanza buoni, anche se doverosamente migliorabili. Secondo Terna, nel primo semestre del 2015 l’Italia ha coperto il 37,1% del fabbisogno energetico del Paese tramite le energie rinnovabili, mantenendo stabili rispetto all’anno precedente le fonti bioenergetiche, ma incrementando la produzione sia a livello eolico che solare che geotermoelettrico. Ogni Paese ha caratteristiche diverse sia di conformazione del territorio sia di popolazione, ma anche di disponibilità energetica (petrolio, gas naturale…), quindi è difficile uniformare il mondo intero. Quel che è certo è che viviamo su un pianeta al collasso che necessita dei piccoli gesti consapevoli di ognuno, ma anche dei piani intelligenti e studiati dei governi. Speriamo che gli allarmi lanciati dagli esperti riguardo il costante peggioramento dei livelli di gas serra registrati e il susseguente surriscaldamento della Terra non rimangano ancora una volta inascoltati e che, per una volta almeno, chi ha la possibilità di decidere lo faccia nel migliore dei modi. Abbiamo appena visto chiudere in Italia un Expo che ha rilanciato, anche solo marginalmente, le questioni dell’alimentazione; ora la necessità è che l’Expo del 2017 che si terrà ad Astana, in Kazakistan, con il tema “Future energy” si apra con un discorso chiaro da parte di chiunque lo terrà: “per la tutela dell’ambiente in campo energetico abbiamo fatto tanto, ma resta ancora molto da fare”. Se si continuerà ancora a sottovalutare la questione, vivremo sulla nostra pelle gli effetti disastrosi del cambiamento che non siamo riusciti a portare.

Marco Brero

Flebo di fiabe

 Favola da fattoria

C’era una volta in Nonsocheluogo una grande fattoria abitata da un vecchio, un gatto ed un numero tanto elevato di galline che sarebbe bastato un incendio per sfamare l’ intero sabato del villaggio di Giacomo.

Il luogo si sarebbe dovuto chiamare gallinaio dato che non vi erano altri animali ma, poiché al vecchio non piaceva essere chiamato al paese con un nome contenente l’ immagine di quelle bestiole a lui antipatiche, si faceva chiamare fattore e la sua casa fattoria.

Essendo Colui che ci narrò tal novella amico del gallinaio, chiamò lui fattore ed essendo per la storia un dato irrilevante, parve a noi indifferente chiamare un gallinaio fattoria.

Anche se, par ingiusto ometter tale particolare, al paese il vecchiolo chiamavano fattore delle galline e la sua dimora fattoria delle galline.

Ma questo non sembra infastidirlo molto.

Quell’ uomo a forza di stare solo si era ammalato, ma non essendoci medico a Nonsocheluogo si era dovuto inventar il suo malanno.

Disse infatti un giorno a Colui, che narrò a noi, di patire di Zia acuta.

Fossimo degli psicoterapeuti potremo forse incolpar quel lutto della sorella del padre che lo colpì quando egli ancora era chiamato figlio e nipote, ma noi questo non siamo quindi ci limiteremo a riportare ciò che non trovammo sui libri di medicina: la Zia consiste nel credere di soffrire di ogni patologia finente per la sillaba zia.

Egli fu colto per convinzione dalla calvizia, dall’ avarizia, dalla balbuzia, dall’ idiozia, dalla scaramanzia, dalla sporcizia nei giorni dispari e dalla pulizia nei giorni pari ed il lavoro in giorni alterni di sporcarsi a fondo e nel ripulirsi a nuovo gli diede una grande stanchezza che lo portò all’ inerzia e questa alla pigrizia.

Quest’ ultima era una pessima dote per un uomo che aveva sposato il mestiere di custode di animali.

E dir che per una sola vocale egli sarebbe potuto essere affetto dalla costanza. Come è strana la favola, centinaia di lettere eppure ne sarebbe bastata una perché non venisse scritta e noi avremo potuto dormire questa notte.

L’ uomo se ne stava tutto il giorno a pulirsi e risporcarsi, balbettando parole idioti e ignorando completamente i lamenti delle sue bestiole.

Se solo avesse ascoltato quel co co minaccioso avrebbe capito che l’ ombra della protesta era vicina.

Le galline ogni giorno si radunavano attorno al grande contenitore del mangime sculettando come un esercito di signore con la borsa al braccio e gridavano al loro diritto di essere accudite, gridavano all’ ingiustizia.

Ma l’ ingiustizia faceva parte della malattia e così il vecchio non intervenne.

La protesta si limitava ad un forte co co o al massimo a metter 2 tuorli nello stesso guscio, erano galline che altro potevano fare?

Un giorno mentre il fattore era al paese per comprar del sapone, il gatto si accovacciò sopra il grande contenitore e miagolando si rivolse alle manifestanti:<Anch’ io son schiavo di quella malattia che colpisce il vecchio e tutte voi, son nero e per scaramanzia il padrone non mi si avvicina>.

Si mise a capo della protesta e convinse le galline ad un azione esemplare:<Insieme, facendovi forza l’ un l’ altra potete buttar a terra il gran contenitore, servitevi e diventate grasse come di vostro diritto>.

Elle allora, che mai avevano pensato tanto, si misero a spingere forte, becco contro sedere, sedere contro becco ed in un gran tonfo il mangime si rovesciò nel cortile.

Con co co di gioia si misero a banchettare allegramente riempedosi del sapor di vittoria.

La sera, quando il padrone tornò alla fattoria vide il contenitore rovesciato, spinto dall’ avarizia di dover comprare altro mangime, vinse la pigrizia, lo sollevò e lo richiuse.

Il giorno seguente ancora si formò il gran corteo e fu di nuovo il gatto a proporre l’ azione.

Le gallinelle infatti già avevano scordato la loro forza quando univano il becco al culo della compagna.

Erano galline ed hanno la testa troppo piccola per ricordare un potere tanto grande.

I giorni di rivolta ed i banchetti di vittoria si susseguirono fino a quando la fiaba si divise.

Colui non ricordava la conclusione più esatta allora le serviamo entrambe, a voi scegliere la più digeribile.

Secondo la prima versione le galline ingrassarono fin a diventare un boccone troppo appetibile anche per un gatto rivoluzionario che ad una ad una le mangiò stando ben attento a non ricordare loro che egli era ben più piccolo che un contenitore di mangime.

La seconda versione vuol invece premiare l’ arguzia del padrone, il quale essendo per patologia affetto alla diplomazia convocò a dispetto della scaramanzia il gatto concedendogli un pasto abbondante giornaliero se avesse abbandonato le galline al loro sfacelo.

Egli accettò ed in poco tempo le piumate volarono tutte in cielo tanto furono leggere.

La morale è la realtà:

Chi ha la forza di rovesciare l’ ingiustizia non si ricorda che già cento volte si è sfamato usando la tecnica becco culo, culo becco;

Diffida da chi ti guida se non mangia con te;

Il padrone non è altro che un vecchio idiota governato da una malattia chiamata Zia.

La Zia è una malattia oscura che si nasconde nei cuori di chi sale la scala che scende ai vertici del potere e guida chi, ammirato dal mondo intero, si sporca la coscienza per ripulirla con l’ innocenza di chi guarda muto o al massimo chioccia appena.

 

Qui si conclude la favola ma la luna è troppo piccola e lontana questa notte che, come il vecchio si è inventato la malattia, noi ci inventiamo la cura a tanto malumore, la morale è la realtà, ma è il sogno che annaffia lo sbocciar di questa conclusione.

Già in una qualche stalla, in mezzo ad una paglia che profuma di cambiamento, un piccolo pulcino nei suoi primi passi cinguetta giulivo: culo becco, becco culo, la faccia sporca di merda e il cuore puro.

E chissà che si riesca a non crocifiggerlo o a sparargli mentre sussurra di essere solo un pulcino prima che il mangime sia nel becco di tutti.

Samuele Ellena

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