26 Febbraio 2017 | Vorrei, quindi scrivo
Cara *,
mi dispiace non poterti chiamare per intero, perché il tuo nome sembra esprimere la sensazione di forza che emani, ma ho l’obbligo di proteggere la tua identità. Come si fa con i supereroi.
Non sei la prima bimba senza capelli che vedo, ma sei la prima che mi sembra perfettamente normale così. E mi chiedo quanto sarai bella quando torneranno, anche se non riesco ad indovinare di che colore sono.
Con i “tle” anni che dichiari tutta orgogliosa, mostrando anche il numero con la mano e con l’aria da grande, sei andata e tornata dall’inferno. Quello vero, non quello in cui un po’ tutti i grandi si sentono ogni tanto. Un inferno con un nome difficile, da cui sei tornata senza capelli e con un paio di gambe diverse da prima. Sei dovuta stare ferma, immobile, e appena hai potuto hai liberato tutta l’energia che hai accumulato e l’hai lasciata esplodere nel nostro ambulatorio.
Hai riso, giocato, giurato di non essere stanca quando noi grandi pensavamo di sì. Ti sei guardata nello specchio sorridendo, come a fare una promessa a te stessa. Hai camminato, tanto, su quelle gambe che ancora non ti reggono come vorresti, ma che non ti fermano, perché tutta la forza che hanno perso si è spostata da qualche altra parte.
Hai imparato a sfruttare tutte le possibilità che i tuoi muscoli e i tuoi nervi ti danno. Sei riuscita ad essere una bimba di tre anni, indipendentemente da tutto il resto. E sei riuscita a farti guardare ammirata, mentre cammini sorridendo in corridoio, da tutti i grandi che forse, forti come te non si sono sentiti mai.
Dici di voler camminare da sola, senza appoggiarti da qualche parte. Dici “ho sognato che corro”, e spezzeresti il cuore di chiunque ti senta.
Ma oggi, mentre eri appoggiata a me, c’era tutta la vita del mondo negli occhi di una bimba senza capelli che non sapeva se tenersi alla mia mano o fidarsi delle sue forze. E ho capito che ci stavamo tenendo a vicenda, io ad aiutare il tuo equilibrio e tu a scuotere i miei occhi da grande, perché perdessero i filtri che mi nascondono tutta questa bellezza. Tutta questa incontenibile voglia di crescere.
Quando mamma ti ha detto di rallentare, hai risposto “tai tanquilla, non cado”, ed eri talmente determinata che abbiamo capito che avevi ragione. Ti sei lamentata quando ti hanno seduta nel passeggino, volevi camminare ancora, non eri stanca. Eppure avevi portato un uragano, in ambulatorio. Come si fa a non essere stanchi, dopo aver portato un uragano tutto da soli.
Forse quell’uragano è solo vita, nella sua forma più autentica e più luminosa, così forte da fare quasi male, così vera che non ci siamo abituati.
Non capita spesso di vedere un uragano che si mostra con tutta questa semplicità e con tutta questa fierezza, in una bimba senza capelli.
Grazie, piccolo Inno alla Vita.
16 Febbraio 2017 | Vorrei, quindi scrivo
Si sedette alla scrivania, con la voglia di scrivere. Gli piaceva lasciarsi guidare dalla penna, le prime righe erano sempre una scoperta. Poi, improvvisamente, un’idea, un’illuminazione. No, una vera e propria ispirazione. Tra le labbra un sorriso, e via, iniziava a creare. Cosa? Non lo sapeva ancora con esattezza, ma ormai la sua mente aveva un’idea, una meta. Il bello era scegliere, tra un’infinità di modi diversi, come giungere a destinazione.
Teneva sempre a mente la sua prima volta, mentre componeva: quel giorno aveva davanti a sé un blocco di fogli bianchi, alto e largo quasi quanto la sua testa, una penna blu e tanta voglia di lasciare una parte di sé su quella carta. Non sapeva però come iniziare, non aveva qualcosa da scrivere, ma solamente un forte desiderio di farlo. Non sapeva ancora che tutto ciò sarebbe diventato parte della sua vita. Quella volta i fogli furono un po’ maltrattati, d’altronde il tempo gli avrebbe insegnato che per scrivere ci vogliono solo tre ingredienti fondamentali: la fantasia, la pazienza e la conoscenza di se stessi. La fantasia non mancava, ma aveva ancora molto di sè da conoscere. Di pazienza poi ne aveva ben poca quel giorno, aveva solo dieci anni.
Ricordava sempre quel momento prima di iniziare, in modo da poterlo fare con un sorriso. Ecco, un sorriso, o una lacrima, o qualsiasi altra emozione. Quando qualcuno leggeva i suoi scritti le cercava quasi ossessivamente nei volti, negli occhi, tra le pieghe delle labbra. Si nutriva di ciò, la sua giornata diventava autentica quando riusciva a capire cosa aveva trasmesso, come si sentiva il lettore subito dopo aver terminato di leggere. Voleva incontrare i suoi lettori, parlarci, conoscerli.
Un giorno però non riuscì ad ascoltare nulla, semplicemente perché la persona che le si presentò davanti non parlò, disse solamente: “Indovina ciò che provo”. Davanti a lui sedeva una ragazza, non l’aveva mai vista, ma quando la guardò negli occhi si perse. Ci vollero cinque minuti per ricordarsi di ciò che stava facendo e cosa gli era stato detto. Non rispose nulla. Lei si alzò e andò via, senza dire altro.
Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che aveva provato qualcosa del genere. Lasciò l’incontro e corse a casa. Era di nuovo quel bambino di dieci anni, era impaziente, aveva la testa piena d’idee, ma non sapeva più chi era. Un semplice sguardo gli aveva tolto ogni certezza. Piangeva, o forse fuori pioveva. Non sapeva se l’avrebbe rincontrata. Cosa le avrebbe detto? Proprio lui, che non credeva nei colpi di fulmine, che li giudicava così stupidi.
Trasformò ciò che aveva dentro in carta ed inchiostro:
Se solo il mio cuore fosse una penna
e tu la mia pagina,
ti bacerei lentamente d’inchiostro,
e con la mia punta mi svelerei su di te.
Sulla tua pelle rimarrei impresso per sempre,
così che tra una venatura e l’altra
chiunque potrebbe scorgere il mio amore.
Qualche giorno dopo lei tornò ad un incontro. Gli si sedette davanti, stava per dire qualcosa ma lui la interruppe.
“Sai quali sono i tre ingredienti principali che servono per scrivere?”
Lei, sorpresa, rispose: “No, quali?”
“Nessuno”. E le diede un pezzetto di carta.
5 Gennaio 2017 | Vorrei, quindi scrivo
Caro prof,
ormai siamo quasi a metà dell’anno scolastico e ho il piacere di consegnarti con umiltà queste lettera con la speranza che tu possa leggerla, gustarla, apprezzarla o stracciarla, a patto che le tue mani possano toccarla concretamente, come ti auguro di fare con tutte le ferite e le gioie degli allievi che da lunedì ti ritroverai in classe.
A partire da gennaio si può parlare di secondo tempo in ambito scolastico: dopo la pausa di 15 giorni per le vacanze natalizie, dove ci si rifocilla un po’, non con un tè caldo ma con panettoni e cenoni interminabili, inizia la vera partita, quella che stabilisce il vincitore al triplice fischio finale di giugno. Ogni allievo avrà un obiettivo diverso e anche ogni professore ambirà a un risultato differente. Non oso neanche citare la volontà di qualche insegnate di diminuire il numero di allievi in classe perché ingestibile o il desiderio di regalare alti voti per lavarsi le mani di fronte alla possibilità di esami di riparazione a settembre. Almeno spero che la tua ambizione sia quella di lasciare il segno nel cuore dei tuoi ragazzi, di iniziare in loro il compimento di un progetto di vita futuro che non si fermi al completamento del programma o al raggiungimento di un voto superiore alla sufficienza.
Desidero, però, condividere con te anche questa piccola riflessione che un preside di liceo americano aveva l’abitudine di scrivere, a ogni inizio di anno scolastico, in una lettera ai suoi insegnanti: “Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi da diplomati di scuole superiori e università. Diffido – quindi – dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani” (Les mémoires de la Shoah, in “Le Monde” del 29 aprile 1995).
Credo che il testo parli abbastanza da sé e non saprei che altro aggiungere di fronte a tanta verità. Infatti la verità è così: ormai dimenticata, perché ritenuta impotente in un mondo di maschere pirandelliane, da poter disarmare anche i più forti.
Di sicuro potrebbe essere facile ribattere a questo preside sostenendo che la quotidianità di una classe di adolescenti in cerca di se stessi non è una confortevole crociera verso il diventare persone adulte e mature, ma una lotta dove, per farsi valere, è necessario utilizzare il pugno di ferro.
Prof, per piacere, non cercare giustificazioni. Combatti anche tu con te stesso come tutti quei trenta allievi che lottano con se stessi già la notte, magari non chiudendo occhio prima di venire a scuola perché persi in una battaglia senza speranza, dove il sogno di realizzarsi nel proprio futuro si scontra con l’unisona voce di un mondo consumistico e iperattivo che fa del piacere la propria unità di misura, annientando gran parte dei desideri realmente umani.
Tra le mani, prof, hai tutto per poter rendere i tuoi ragazzi umani: la tua storia, la tua passione, la tua identità. E se tutte queste cose non bastassero o fossero segnate da tormenti, non ti resta che affidarti a quegli studi che ti hanno accompagnato per tutta l’università fino a condurti a diventare insegnante. Dante risolve ogni problema d’amore, Pitagora trova soluzioni quando sembrano impossibili e Brunelleschi costruisce cupole anche quando ogni progetto risulta irrealizzabile. Per piacere, racconta tutte queste bellezze con la tua voce che si spezza di fronte a un verso indescrivibile o a una costruzione memorabile, con quelle parole che ti appartengono, che sono talmente tue da salvare gli allievi e te stesso facendo memoria del significato più profondo nascosto dietro alla lezione che mi stai spiegando. Vorresti farmi credere tu, professore di biologia, non ti sei mai emozionato davanti alla meraviglia dell’incontro tra un ovulo e uno spermatozoo o tu, professore di fisica, non ti sei mai esalto di fronte a semplici formule che spiegano la luce e la sua propagazione nell’universo? Appassiona con questi racconti, con queste teorie i tuoi ragazzi. Usa parole vere, donacele, ormai mancano in noi. Sempre più leggiamo per informarci, ma sempre meno gustiamo le parole. C’è una grande carenza nel vocabolario di noi giovani. Abbiamo poco per volta perso la ricchezza del nostro linguaggio verbale saziando il vuoto prima con Ruzzle e adesso attraverso le emoticon di Facebook: non ci sforziamo neanche più di cercare le parole, esprimiamo i nostri pensieri con un semplice clik su un pollice alzato o un cuore.
La parola è nient’altro che un suono che rimanda ad una realtà, eppure non sappiamo più rimandare il nostro pensiero a nessun altro significato oltre quello che si presenta davanti ai nostri occhi. Creatività e immaginazione sono scomparse: forse perché il programma da portare a termine durante l’anno scolastico non permette piccole evasioni, anche se approfondimento di un argomento proposto?
Chi fa delle proprie parole un’arte e un mestiere cerca di raccontarci la realtà, di entrare nelle nostre menti con “canzonette” pop che passano in radio. Eppure a volte le rifiutiamo perché apparentemente banali, non musicalmente elevate o, forse, le sentiamo senza ascoltarne una parola. Pensare che la stessa cosa succedeva alle vicende di Ulisse nell’antico mondo greco: una narrazione troppo banale per essere considerata espressione della realtà all’epoca, riscoperta come guida e opera eccelsa oggi.
In uno dei suoi ultimi singoli, J-AX, insieme a Fedez, Stash e Levante, canta: “Da bambino ero felice quando nevicava, adesso blocca il traffico, rovina la giornata”. Parole semplici, ma così vere che ormai non hanno quasi più peso perché la nostra umanità sembra essersi abituata a questa realtà, come se non valesse più la pena alzare lo sguardo per meravigliarsi di fronte a quelle manifestazioni sorprendenti della natura e di quel pianeta che ci ospita. Troppo spesso la stessa situazione si ripresenta in classe tra i banchi. Ragazzi disillusi di fronte a opere e scoperte che hanno radicalmente cambiato il vivere dell’uomo cercando di spiegarne i misteri più profondi, con insegnati scoraggiati che non sanno ritrovare il rotolo della matassa.
Partendo dal presupposto che le vicende politiche e ministeriali sembrano troppo spesso dimenticarsi della scuola, perché non ripartire da coloro che fanno la scuola? Senza allievi e insegnanti la scuola, infatti, non esisterebbe.
Per piacere, prof, questa volta non cercare surrogati. Ogni allievo si affida a te, si mette nelle tue mani. Non hai mai pensato alla grandezza e alla bellezza della tua responsabilità? Rendere umano un adolescente in cerca di risposte esistenziali nella vita. Certo, non sazierai tutti i vuoti e non darai risposta a tutti i dubbi, ma tu, prof, puoi iniziare a tracciare il sentiero.
Un proverbio ebraico recita che chi semina datteri non mangia datteri, ma non per questo un papà si rifiuta di piantarli per i propri figli. Ecco, come studente posso prometterti che se tu ci sei e non ci fai, se ti mostri fragile, mi presenti i problemi, ma non mi abbandoni ad un altro anno frustrante che mi rende ancor più frustrato nella vita, noi studenti torneremo un giorno da te e ti abbracceremo sussurrandoti qualcosa di simile al testo dell’ultimo singolo di Robbie Williams: “Pregherò (desidererò) di darti tutto ciò di cui tu hai bisogno, così un giorno tu mi dirai: – Amo la mia vita, sono pieno di energie, sono bello, sono libero”.
Queste parole sono l’espressione migliore per ricordarti, caro prof, che tutto quello che donerai ai tuoi alunni tornerà a te.
Ti auguro il meglio prof, di camminare, correre e volare in questo secondo tempo. Ti assicuro che così “sbaraglierai tutto ciò che non era vita e non scoprirai in punto di morte che non eri vissuto” (Thoreau) e che noi studenti non chiediamo tutto a te, sappiamo che anche tu sei fragile e sei umano, ma solo tu puoi appassionarci in una singolare maniera.
Prova a fidarti per una volta dei tuoi studenti: il meglio arriverà. Ricordiamoci a vicenda che “che tu sei qui, che la vita esiste e l’identità, che il potente spettacolo continui e che tu puoi contribuire con un verso” (Whitman) e il viaggio in questo mare sarà leggero, essenziale. Diventerà quasi bello naufragare nel mare della scuola.
16 Dicembre 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Chi non ha mai sognato di ricevere qualcosa di nuovo? Di alzarsi la mattina di Natale e trovare qualche regalo solo da spacchettare? Ma non solo: dei nuovi amici, un nuovo naso e delle nuove orecchie, un nuovo lavoro, un nuovo papà,… Insomma, una novità per segnare una nuova nascita nella propria vita come quelle sere che si va a letto con la convinzione che dal mattino dopo tutto cambi. E non è nuovo che il giorno dopo nulla cambi.
Paul ha 19 anni, è originario della Repubblica Centraficana e per arrivare in Italia ha attraversato tutta l’Africa sahariana con camionette di fortuna o camminando a piedi scalzi lacerati sul deserto ardente. Una traversata lancinante per approdare in Italia in cerca di quella novità negata nel suo paese natale: un nuovo lavoro, un nuovo senso a quella crudele esistenza che l’ha condannato a scappare dal proprio paese, un nuova vita.
Com’è triste fuggire. Com’è umiliante rinnegarsi di fronte alla propria terra natia ormai solo più terra di parti. Chi nasce, scappa: fisicamente o mentalmente non importa, viverci in tutto e per tutto è deleterio.
Paul ride e ha una cicatrice sulla guancia, segno di una sigaretta spenta sulla sua pelle. Paul parla italiano e dopo tre anni di scuola in Italia ha letto una versione semplificata dell’Odissea. Prima di partire aveva promesso a sua nonna analfabeta che avrebbe studiato e letto tanti libri. Promessa è, promessa mantenuta.
Paul si paragona a Ulisse e benedice tutta la sua storia. Benedice di essere nato in Africa, di aver attraversato il Mediterraneo e dormito per terra in stazione in Italia. Paul è folle.
Alla domanda sul perché benedice tutto questo risponde: “Ogni giorno una signora anziana veniva da noi ragazzi immigrati a portarci un panino al centro di accoglienza. Non parlava con noi, ci dava solo un panino e con una carezza sul volto ci salutava. Nessuno, mai, aveva fatto così con me. Senza aver trascorso notti stipato nella stiva di un barcone non avrei ricevuto i suoi panini e le sue carezze.”
Io non credo a questa risposta, è troppo impossibile che bastino dei panini e della carezza. Intanto Paul continua a ridere.
Da domani inizierò anch’io a prepare panini per cambiare tutto: genitori, amici, lavoro, naso, vita. Non cambierà niente e nessuno, i panini cambieranno tutto, parola di Paul.
Intanto stasera vado a letto con questo pensiero.
24 Novembre 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Sono entrati nell’ambulatorio in tre. Madre, padre, figlio. C’erano due sedie. Il figlio appoggiato al muro. Struttura portante. In successione padre e madre. Lui riempiva tutta la sedia, lei solo metà. Magra, sulle mani il decorso delle vene. Negli occhi di tutti e tre quello che rimane delle lacrime.
-Signora, lo sa cosa sta succedendo? Cosa le hanno detto?
Apre bocca lei, lei con capelli neri profumati, gli occhi lucidi perfettamente truccati, sulle labbra il rossetto, ad incorniciare le parole. La pelle abbronzata e vuota, che si lascia scivolare in basso da fuori. La voce misurata da una paura controllata. Sono stati fatti degli esami, sono state trovate delle lesioni. Alterazioni della mucosa dell’intestino. La prima, grande. La seconda, piccola, rimossa con l’endoscopio. La terza, insidiosa. Né piccola, né grande. Per ora, incomprensibile. La prima e la terza, in due parti opposte dell’intestino.
Ci gira intorno per poi andare dritta al sodo.
-Dottore, parliamoci chiaro, che possibilità ho di sopravvivere?
Lei, signora curata e dignitosa, non le si addice lo status di malata. Ben tenuta, ricercata e profumata, sa di tutto meno di cancro. Ma lei vuole comunque sincerità e trasparenza. Lei sente di gente che scopre di essere malata, rimane ottimista, positiva e combattiva. E poi muore. Non capisce il senso di tutto questo. Non vede i benefici della forza e del coraggio.
-Signora, se partiamo già così non ci siamo.
Figlio e padre, strutture non più portanti, cercando di farle forza, osservano che non ci sono ancora metastasi al fegato e ai polmoni e che la tecnologia in questi ultimi anni ha fatto passi da gigante nella terapia e nel controllo del dolore. Cercano conferma nelle parole del dottore, inventando una complicità nella ricerca di sguardi estranei. Una timida e insicura voce, su cui si attacca la flebile speranza del bicchiere mezzo pieno, come un foglio di carta in equilibrio sui fili del bucato. Senza mollette. Vogliono essere di nuovo strutture portanti. Ma lei non ascolta e si lascia scivolare in basso da dentro.
– Mi dica lei, voglio sapere le alternative all’intervento. Ma non ce ne sono. L’unica via possibile per la vita deve passare attraverso i ferri e le cicatrici.
-Ma che qualità di vita? Lei con due pezzi di colon, pensa di perdere la dignità.
-Ma guardi, prima di tutto c’è la vita.- Il chirurgo.
-No, per me, prima di tutto c’è la qualità della vita.- La paziente che non vuole essere malata.
-Io non ho mai sentito pazienti che si siano lamentati della loro vita dopo l’operazione.- Il chirurgo
Ma lei non ha chiesto questo. Lei ha chiesto come e cosa dovrà mangiare dopo, il dolore che sentirà, il disagio di cenare fuori casa, la normalità e la libertà che perderà. Oppure il sollievo che avrà. In quanto tempo si riprenderà.
-Sono praticamente piena, questo non ce lo aspettavamo. È un’invasione. Lo ammette per la prima volta esterrefatta, ma non lo combatte, non vede ancora le sue armi.
-Se il dolore può far paura le dico che esistono dei cateteri peridurali che hanno lo scopo di rilasciare sostanze antidolorifiche gradualmente che riducono notevolmente il dolore durante e dopo l’intervento.
Ma a lei non fa paura il dolore. Lei ha paura di morire. Glielo si legge negli occhi, nella pelle, nel viso truccato che dice quanto si vuole bene e proprio per questo si capisce che lei ha paura di morire, e di perdere quello che rende di sua proprietà la sua stessa esistenza.
Lei si alza dalla sedia, insieme a lui. Porgono gentilmente la mano al medico. Si sono fatti bastare quelle rassicurazioni. Ringraziano educatamente. Escono. La porta rimane aperta, per accogliere il prossimo paziente.
Il sottile pugno nello stomaco tra la vita e la qualità della vita. Lei che ora ha qualità, lei che altrimenti non sarebbe vita.
-Fidatevi di me, dopo un po’ non ne potrete più di dare cattive notizie. – Il chirurgo abbassa gli occhi dicendoci questo. Li rialza quando arriva l’ultimo paziente.
Entra da sola una donna anziana. Muro portante di se stessa. Non riesce a togliersi la giacca. Puzza. Ha gli occhi storti – fortunata lei, che vede più mondo contemporaneamente. Ha una voce priva di qualsiasi tragicità. Ha l’aria trascurata, ma accenna sorrisi. Martedì deve operarsi e siamo a venerdì. Ma non ha paura di morire. La sua paura è di non riuscire a prepararsi correttamente, di sbagliare le medicine, di mangiare troppo o troppo poco. Questo perché non ha nessuno, è davvero sola. Lo dice lei stessa. Ma non ha occhi velati. Dice che martedì prenderà il primo autobus per arrivare in ospedale. E dopo sarà pronta. Muro portante di se stessa, per quei cinque minuti di fragilità, durante la visita sotto le mani esperte di chirurghi magari frustrati, ma non soli.
Corridoio del blocco blu. Piano terra. Tra la folla dell’ora di pranzo, si avvicina una carrozzina, la spinge una ragazza. Seduto un uomo, dal volto famigliare, ma scheletrito. Lo riconosco all’ultimo, gli sorrido sfuggente, con un cenno di mano. Mi torna indietro un sorriso riflesso, senza cenni di mano. Non credo mi abbia riconosciuta. Lo scopro una settimana dopo, ricoverato al sesto piano. Un amico di mio padre, sclerosi laterale amiotrofica, malattia degenerativa che colpisce progressivamente tutti i muscoli. Ecco perché non poteva più salutarmi con la mano. Non può più mangiare, né tenere alta la testa. Non riesce più a parlare. Non riuscirà più a respirare. Già adesso è completamente dipendente dalla madre, che ha 80 anni, vedova da 13. Comunica con una lavagnetta. Scrive parole, domande e risposte. Si sforza di esserci ancora nel mondo. Reagisce. Continua a vivere. Scrive, a distanza di una settimana, di avermi riconosciuta, in mezzo alla folla dell’ora di pranzo, venirgli incontro nel mio fresco camice bianco con i miei giovani compagni, lui spinto su una carrozzina da una ragazza. Mi ha visto sorridergli di sfuggita e alzargli la mano. Il suo sorriso – si, un uomo ridotto così può ancora sorridere- era un saluto.
È una malattia terribile quella. Ti prende pian piano tutti i muscoli e nell’arco di un anno ti rende estraneo al tuo stesso corpo. Per ogni tua necessità si inizia a dipendere dal prossimo.
Il sottile pugno nello stomaco tra la vita e la qualità della vita. Lui che ora è vita, lui che altrimenti non avrebbe qualità.
Il sottile pugno nello stomaco tra la vita e la qualità della vita blocca i pasti a metà. Fa rimbombare nel cervello i mille interrogativi della gente dei chissà, che rimbalzano da una situazione all’altra, sul muro di risposte mancanti a domande soddisfatte solo a metà.
22 Novembre 2016 | Senza categoria, Vorrei, quindi scrivo
Intervista a Elena Varvelli
Sabato ore 15.30, incontro di scrittori in città dal titolo ” I nomi dei padri”, dove tre scrittori, Andrea Cisi, Pietro Grossi e Elena Varvelli, hanno raccontato la forza motrice che li ha spinti a scrivere le loro nuove opere, ossia la necessità di filtrare e valutare il rapporto con i loro padri. Questa valutazione la riflettono nei loro personaggi e la offrono al pubblico come spunto per compiere lo stesso viaggio nella loro memoria. Elena Varvelli propone cosi a scrittori in città la vita felice, il suo ultimo romanzo.
Il dissidio padre-figlio è un tema che rimarrà sempre aperto ed è legato a filo doppio dal contesto socio-culturale in cui si è vissuti. Secondo lei, da cosa è derivata questa esigenza di riavvicinamento nei confronti del proprio padre?
La verità è che scriviamo questi libri per cercare questa risposta. Ciascuno di noi cerca di scappare dalla figura paterna, di andarsene il più lontano possibile fino ad un certo punto della vita. Poi arriva il momento in cui si ci rivolge al passato e si ci pone delle domande, domande che non ci saremmo mai posti prima in questo fuggire. Io ed Elia, il protagonista del mio libro, abbiamo vissuto la stessa esperienza; il paese in cui vive Elia si chiama Ponte ed il riferimento non è casuale, c’è sempre un ponte invisibile che collega padre e figlio. Come si ci può allontanare da una sponda, si può allo stesso modo tornare indietro. In quanto al perché di questo ritorno la risposta probabilmente la troverò scrivendo.
Oggigiorno la figura del padre si è evoluta rispetto a quella del passato, il padre moderno è quello che si prendere cura del figlio e cerca di instaurare un dialogo con lui. In tutto ciò, non si sta un po’ perdendo il ruolo chiave di maestro che, quando è necessario, rimprovera l’alunno?
Questo è un problema moderno; è un momento di grande smarrimento per i padri, che si sono abbandonati più morbidamente ad un ruolo di accudimento, di vicinanza, ma che sentono che questa vicinanza sottrae qualcosa al loro ruolo di maestro. Allo stesso modo si perdono i figli che vagano senza confini. La mia impressione è che questo, comunque, sia un periodo di passaggio necessario per l’apprendimento di nuove forme di dialogo nelle famiglie e porta, come ogni fase di passaggio, sbigottimento e tramortimento.
Ultimissima domanda, cosa consiglierebbe ad un ragazzo che si vorrebbe affacciare al mondo della scrittura?
Di scrivere senza l’esigenza di pubblicare il prima possibile. Non si scrive per se stessi, ovviamente, ma neanche per gli altri. Inoltre non bisogna avere paura dei conflitti, la letteratura è conflitto, bisogna essere un po’ sadici rispetto ai propri personaggi e metterli nei guai per tirare fuori le loro paure, che in fin dei conti sono quelle di chi scrive.