Due piedi sinistri

http://https://www.youtube.com/watch?v=saDjNndz_y8

Hanno parlato di ogni sua sfumatura, ne hanno delineato ogni sfaccettatura e hanno sviscerato ogni suo singolo aspetto, ma nonostante gli innumerevoli sforzi che si sono compiuti per cercare di apprezzarne la bellezza, la diversità per molti viene ancora vista come un ostacolo.

La diversità è il luogo di ritrovo per sentirsi tutti uguali, il bivio prima di tante strade, la meta di un viaggio colmo di contraddizioni. Un pretesto per allontanarsi, uno per ritrovarsi.

Ma non uno per discriminarsi.

Ylenia

Il potere degli introversi

http://https://www.youtube.com/watch?v=FkitFVoxofw

L’americana Susan Cain, abile scrittrice e brillante avvocato, pubblica nel 2012 il libro intitolato “Il potere degli introversi”. In una società che ci persuade, fin dai nostri primi passi all’interno di essa, a credere che la modalità giusta di porci al mondo è l’estroversione, Susan ci dice che dobbiamo avere il coraggio di mantenerci noi stessi e di preservare l’attitudine di molti alla introversione. Dalla solitudine, infatti, sono nate le più memorabili rivoluzioni.

Ylenia Arese

La donna di sessant’anni e sua figlia di cinquanta

“Sarà difficile diventar grande
prima che lo diventi anche tu
tu che farai tutte quelle domande
io fingerò di saperne di più
sarà difficile
ma sarà come deve essere
metterò via i giochi
proverò a crescere”
A modo tuo, dicono Elisa e Ligabue ai loro figli. Una delle più belle dichiarazioni d’amore sottoforma di poesia musicata. Ma non è solo amore: dedizione e sforzi, paure e insicurezze. Perché essere genitore, lasciano intendere loro e tutta la retorica del nostro mondo, rimane il mestiere più duro al mondo.
Binario 1, treno delle 18.12, proveniente da Limone Piemonte, direzione Torino Porta Nuova. Cambio a Fossano, binario 7. Salgo, mi siedo, accanto a me un posto vuoto, ma solo più per poco. Un controllore lo indica ad una donna sulla sessantina, che si avvicina, insieme ad un’altra donna sulla cinquantina. Occhi piccoli e vuoti. Un principio di cifosi affossa la sua testa nella gabbia toracica. Nella mano, un’altra mano, quella della donna di sessant’anni. La donna di cinquant’anni siede accanto a me, il posto finestrino. Mi rivolge la schiena, sembra che abbia paura di me, oppure che sia estremamente timida. La donna di sessant’anni le dice di sbottonarsi il giubbotto: ci prova, ma non ci riesce. Lei la aiuta. Le chiedo se vuole sedersi, ma con tutta la dignità di questo mondo mi dice di no e rimane appoggiata alla porta.
La donna di cinquant’anni non scandisce bene le sillabe. Ma la donna di sessant’anni la capisce benissimo. Le risponde ad ogni domanda. Piange quando la donna di sessanta non le risponde, o le risponde ciò che non vuole sentirsi dire. La donna di cinquant’anni le chiede ogni trenta secondi dove siamo, e quella di sessanta le risponde con dignitosa pazienza ogni volta, facendola smettere di piangere quando le dice che siamo quasi arrivati. Ma ricomincia quando dice di aver paura di scendere dal treno, perché ci sono le scale e il treno è alto. Smette di piangere quando la donna di sessant’anni le dice che non cadrà, perché a salire non è caduta.
La donna di cinquant’anni nota i capelli lisci di una donna filippina seduta di fronte a lei, e così senza alcun preavviso, istintivamente, li accarezza. La donna di sessant’anni le toglie la mano, scusandosi mille volte per il gesto inopportuno, ma la donna di cinquanta lo rifà. La donna filippina le sorride, dicendo alla donna di sessant’anni che non fa nulla. E sorride alla donna di cinquanta come si sorride ad una bambina di quattro anni che sogna i capelli neri, lisci e lunghi quando sarà grande. Ma lei è già grande, ha i capelli corti, grigi e sporchi. Dopo trenta secondi la stessa domanda, se siamo arrivati a Fossano. Ma non siamo ancora arrivati a Fossano, prima c’è Centallo. Di nuovo la stessa domanda a Centallo, dopo altri trenta secondi, ogni trenta secondi dei successivi dieci minuti, la stessa domanda. La donna di sessant’anni le risponde, nello stesso modo in cui si tiene a bada un bambino di cinque anni. Ma ha le rughe. Sua figlia, e lei. Su entrambi i loro volti ci sono delle rughe.
La figlia non cadrà dalle scale del treno, perché sono in tre. Il padre fantasma, rosso di vergogna per una figlia che non è mai cresciuta – ma chissà per quale volontà – , si è seduto dalla parte opposta del treno, non partecipa ai dialoghi tra madre e figlia, e guarda fuori dal proprio finestrino, unica breve evasione di 15 minuti dalla propria vita. La moglie è in piedi su un treno in movimento, con addosso il peso dei suoi sessant’anni e una figlia di non si sa bene quanti. Ma sul suo volto è scolpita la dignità. Non un accenno di stanchezza. Di certo non si aspettava di dover vedere i capelli bianchi in testa alla figlia quando ancora avrebbe pianto per un viaggio in treno. Non si aspettava che lei avrebbe fatto fatica ad imparare a camminare, che non avrebbe mai imparato bene a parlare. Non si aspettava di dover essere madre di un’eterna bambina di quattro anni, alla quale non si possono più fare le trecce, intrappolata nel corpo di una donna di cinquanta che non sa di averli. Quando sua figlia aveva due anni, la immaginava una brillante ragazza di venti, una madre a trenta, brillante avvocato a quaranta, una nonna a sessanta. Ma nemmeno lei può diventarlo. Non si aspettava di dover vivere l’angoscia di pensarsi morta, mentre sua figlia non ne sarà nemmeno conscia. Non si aspettava di doversi preoccupare di sua figlia fino alla fine dei suoi giorni come è preoccupata una mamma agli inizi.
Siamo arrivati a Fossano. La donna di sessant’anni dice alla donna di cinquant’anni di mettersi il giubbotto. L’aiuta. Le dice di non alzarsi finchè il treno non si sia fermato. Sta zitta, al suo posto, in silenzio. È un momento speciale quello dell’arrivo. Deve fare attenzione a non cadere dalle scale, perché il treno è alto. Così si prepara a quel momento. Si alza quando le viene detto di alzarsi, come se nella sua testa, come se nella sua mente, non ci fosse nulla, se non gli ordini di sua madre. Con la mano della madre in una sua mano, e la mano del padre silente nell’altra, scende. La donna di sessant’anni aveva ragione. Non cade, perché a salire non è caduta.
Lascio a voi pensare alle parole da dire alla madre di un figlio che non può crescere.

Ylenia Arese

Il riso salverà il mondo

C’erano una volta un popolo che aveva tanta fame e un Dio, il Genio Buono, che non sapeva cosa fare per sfamarlo. Frustrato per la sua impotenza, si strappò i denti e li buttò al vento. I denti si trasformarono in chicchi bianco opaco e tondi, riuscirono a sfamare il popolo che aveva tanta fame e gli venne dato loro il nome di riso appiccicoso.
C’erano una volta una bellissima fanciulla indiana di nome Retna e un Dio di nome Shiva che la sposò. Come regalo di nozze, Retna chiese al Dio di sradicare la fame tra i suoi connazionali, ma la promessa non venne mantenuta, nonostante la fanciulla continuasse a stare a fianco della divinità. Per la disperazione, Retna si gettò nel Gange, dalle cui acque sacre germogliò il miracolo: dalla sua anima nacque una pianta, con la quale tutto il popolo si riuscì a sfamare, grazie ai suoi chicchi snelli e allungati, che oggi si vendono sugli scaffali dei supermercati, con il nome di riso Basmati.
Il riso è la pianta cerealicola più diffusa al mondo, coltivata soprattutto in Asia e Africa, dove circa 795 milioni di persone, ogni giorno, soffrono la fame. Non a caso, infatti, la Cina, l’India, l’Indonesia in Asia e l’Egitto e il Ciad in Africa sono i Paesi dove si ha la maggiore produzione di riso di tutto il mondo.
La mitologia, sostenuta da esplicite attuali evidenze, sembra suggerirci che il rimedio alla fame sia il riso.
Il riso viene consumato in tutto il mondo: dalle terre più remote dell’Africa, dove il riso è sopravvivenza, alle tavole più imbandite degli Occidentali, dove il riso è la base di un ottimo risotto.
Esistono 120.000 varietà differenti di riso, con origini, caratteristiche morfologiche e nutrizionali diverse.
Sembra che il riso sia nato nell’estremo oriente, e poi diffuso in Africa grazie alle carovane degli arabi dalla Mesopotamia, in Europa grazie ad Alessandro Magno, che lo portò in Grecia di ritorno da uno dei suoi viaggi in India, in America dopo la sua stessa scoperta, portato dai conquistatores.
Un chicco di riso può essere allungato e snello, oppure corto e tondo. Può essere bianco, perlato o nero. Può essere più o meno resistente alla siccità.
Cento grammi di riso contengono 362 calorie, un notevole quantitativo di fibre, vitamine, sali minerali e acidi grassi essenziali: è uno degli alimenti più nutritivi che ci sia.
Il riso è il punto di ri-partenza. Il riso salverà il mondo.
Se non ci credete, rovesciate la medaglia: anche per quella parte di mondo che da tavola si alza sempre quando è sazio, il riso la salverà. Loro si alzano e siedono, nella maggior parte dei casi, con una costante: l’assenza di riso.
In un modo o nell’altro, in un mondo o nell’altro, il riso ci salverà.

Ylenia Arese

Così come non è

Il mio vicino di casa indossa una giacca ormai sgualcita delle olimpiadi invernali del 2006 e delle scarpe dell’Adidas distrutte. Per tutto l’anno. Ha i capelli tutti appiccicati gli uni agli altri e una barba abbastanza incolta da coprirgli tutto il viso, si intravede solo un angolo di guancia. Spesso in mano ha una lattina di birra. Non so se sia piena o vuota, non so se l’abbia comprata lui, oppure se l’abbia trovata per strada, magari in un cassonetto. È sporco e puzza. La sua casa è il marciapiede. Cambia spesso lato, ma rimane sempre nella zona. Lo puoi trovare in piedi che passeggia, oppure seduto per terra. Ma non chiede mai soldi. Lo vedo ogni giorno quando torno a casa, perché quando esco è troppo presto: lui dorme ancora. C’è ogni volta, non manca mai. I suoi occhi non cantano disperazione, né alcuna nostalgia. Sono gli occhi più scuri che io abbia mai visto, non so decifrarli. Non conosco la sua storia. Potrebbe aver perso tutto, oppure potrebbe aver lasciato tutto. Qualcuno potrebbe avergli fatto male, oppure lui potrebbe aver fatto male a qualcuno. Io vedo solo che, con il sole o la pioggia, lui indossa una giacca invernale e delle scarpe distrutte, trascina i piedi sul marciapiede, attraversando gli sguardi della gente che fan finta di non vederlo, e li restituisce indietro, facendo finta di non vedere a sua volta, tutta quella gente.

Mi sono scontrata con un uomo. Era vecchio e in una mano aveva un sacchetto di plastica. Chissà cosa c’era dentro. Nell’altra teneva per il lato più lungo un quadro rettangolare. Era una tela con il volto di una donna dal collo lungo, gli occhi vuoti e a mandorla. I capelli raccolti in uno chignon. Modigliani. C’era la firma di Modigliani sopra. La tela aveva uno squarcio. “Lo squarcio nel cielo di carta”. Da quell’universo bucato, emergeva un nuovo mondo, che era lo stesso di quello da questa parte, ma sembrava diverso. Non ho visto com’era vestito. Non so il volto, la voce, il nome. So solo che un uomo passeggiava per Torino con in mano una tela di Modigliani squarciata. Il privilegio della relatività rende tutto vero. Poteva aver commissionato il suo furto a un ladro giovane, agile e sveglio, che era riuscito nel suo intento, ma aveva squarciato la tela nella fretta della fuga. Poteva essere stato il vecchio a rubarlo, per pagarsi l’affitto o per avarizia. Ma con uno squarcio, quella tela, chissà se valeva il vissuto o valeva solo più una caramella. Oppure voleva quella tela perché la donna nel dipinto era sua moglie, morta giovane, giovane amante di Modigliani, amata comunque da suo marito. Poteva essere lui il pittore, oppure poteva essere un truffatore. Oppure era stato truffato, e quello era un falso. Forse la cosa più vera era quello squarcio.

Sprizza passione da ogni poro della pelle e dai suoi piccoli occhi neri. La puoi percepire nell’enfasi che mette in ogni parola che pronuncia. Il tono è alto, le sillabe scandite. Sa ciò che dice, sente ogni cosa che dice. I suoi discorsi trasudano ansia, aspettativa, eccitazione e paura. Ma soprattutto passione. Quando la incontri per la prima volta, e anche le volte dopo, non sembra tutto questo. Lei si misura. Misura le parole, le espressioni del viso, si misura ma non si nasconde. La sua voce sembra avere addirittura un timbro diverso. Non si fa mai sentire, anche se sa comunque sempre la parte da cui schierarsi. Ammette che spesso non sa cosa dire. Nemmeno io. Confido nel fatto che non deve essere sempre necessario saper cosa dire, per dimostrare che si crede in qualcosa. Ha due anni in meno di me, ma vorrei essere come lei. I suoi pensieri sono rivolti ad un’altra dimensione, quella del futuro, ma con le riserve di tutti quei giorni passati a fantasticare sul domani. E ora a chiedersi se ha fatto bene. Il rito di passaggio, quello che da un sistema ti inserisce in un altro ma ancora non sai come è fatto, quel momento di sospensione che ti esula dal dare forma alla presente realtà, che ti fa svegliare tardi la mattina, annoiare il pomeriggio, e ti fa passare tutto il tempo a pendere dalle labbra dell’attesa, in lei ha la forma della vitalità. Poche volte ho visto tanto entusiasmo in corpi così piccoli. Entusiasmo che da spazi piccoli si espande intorno e ti raggiunge. Non so se esca da ogni poro della pelle o dai suoi piccoli occhi neri. Ma so che quelli si, si possono decifrare. Ma solo se per una frazione di secondo, anche se in un tempo passato, hai visto il mondo attraverso quegli occhi.

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