Va’ dove ti porta il cuore

Perché ti scrivo tutto questo? Cosa significano queste confessioni lunghe e troppo intime? A questo punto forse ti sarai stufata, sbuffando avrai sfogliato una pagina dopo l’altra. Dove vuole andare, ti sarai chiesta, dove mi porta? È vero, nel discorso divago, invece di prendere la via principale spesso e volentieri imbocco umili sentieri. Do l’impressione di essermi persa e forse non è un’impressione: mi sono persa davvero. Ma questo è il cammino che richiede quello che tu tanto cerchi, il centro.

Ti ricordi quando ti insegnavo a cucinare le crêpes? Quando le fai saltare in aria, ti dicevo, devi pensare a tutto tranne al fatto che devono ricadere dritte nella padella. Se ti concentri sul volo puoi star certa che cadranno accartocciate, oppure si spiccicheranno dirette sul fornello. È buffo, ma è proprio la distrazione che ci fa giungere al centro delle cose, al loro cuore.

Invece del cuore adesso è il mio stomaco a prendere parola. Brontola e ha ragione perché tra una crêpe e un viaggio lungo il fiume è venuta l’ora di cena. Adesso ti devo lasciare ma prima di lasciarti ti spedisco un altro odiato bacio. (da Va’ dove ti porta il cuore, S. Tamaro)

 

Abbi cura di te“. È così che si conclude la commovente lettera di una nonna per la propria nipote. Una lettera di sincerità e purezza, di tiepidi ricordi e di agrodolci auguri, di malinconico e nostalgico divagare per rimpianti e attimi gioiosi. Non un semplice pezzo di carta, bensì una solida chiave in grado di aprire il baule della memoria di una fragile, fortissima donna a cui non è stato possibile amare libera, poiché sempre in qualche modo impossibilitata a raggiungere chi amava. 

 

Come il Narciso ovidiano non poté abbracciare il suo amato riflesso, così lei non poté rifugiarsi nelle braccia dell’unico uomo che l’abbia mai amata e rispettata, né poté stringere la figlia, e ora nemmeno la nipote. Ma come ancora Narciso, ecco che ormai, all’ultimo rintocco dell’orologio della sua vita, si trasforma in un magnifico fiore, e avvolge noi e la nipote con ciò che di lei rimane: il suo profumo, la sua storia. Inchiostro di pece, per sempre impresso nel cuore.

 

Un racconto profondo ed emozionante, contornato da una scrittura elegantemente semplice, in grado di trasmettere, anche a chi non l’ha mai provata, la nostalgica emozione dell’imprimere su una lettera i propri pensieri e i propri sentimenti.



Lettere di uno sconosciuto (regia di Zhang Yimou)

(Recensione film)

…e se andrà avanti così, alla fine per lei sarò solo uno che legge le lettere.”
(da Lettere di uno sconosciuto, regia di Zhang Yimou)

Quando il marito Lu (Chen Daoming) viene allontanato per motivi politici dalla moglie Feng (Gong Li) quest’ultima, ribellandosi alla separazione, subisce un forte trauma cerebrale, perdendo per sempre la capacità di riconoscere il volto dell’amatissimo marito, anche quando questi, dopo 20 anni, riesce a ritornare a casa.
Il velo dell’oscurità cala sugli occhi di Feng: infrangibile e sottile, impenetrabile anche quando ritorna la luce che tanto gli era mancata.
Laddove dentro di sé è scomparsa ogni speranza, si perde la capacità di accettare la felicità, una seconda opportunità di vivere. La sofferenza diventa un’abitudine che, patologica, penetra nel corpo e nell’anima, e irrompe tra i tessuti con le sue robuste radici, che nonostante tutti gli sforzi, non si possono estirpare.
Ma non sarà vano quell’amore delle persone care, che cercherà instancabilmente di insinuarsi tra queste radici, di corroderle: mentre Feng continuerà ad aspettare quell’amore che non è in grado di vedere, Lu dovrà accettare di calare nelle tenebre per prendere la moglie per mano e percorrere assieme il cammino del dolore.

L’amore è gioire e soffrire insieme.

L’uomo che guardava passare i treni di Georges Simenon

Una frase non gli dava requie, nell’ultimo articolo che aveva letto. Si insisteva sulla possibilità che si tradisse da solo.
Come erano riusciti a indovinare che per lui era una sorta di vertigine, che si rassegnava a malincuore a rimanere uno sconosciuto nella folla, che talora provava il desiderio, specie quando incontrava qualcuno in una strada buia e solitaria, di esclamare a bruciapelo:
<<Ma lei lo sa chi sono io?>> .
(da L’uomo che guardava passare i treni, G. Simenon)

Kees Popinga è un uomo normale: vive la sua vita senza particolari ambizioni, ha un lavoro onesto, non ha mai tradito la moglie. Un uomo normale, insomma. Finché non si stufa! Normalità insulsa. È come se sentisse di star percorrendo una discesa con il freno a mano tirato. Lui vuole sentirsi libero. Vuole scendere a massima velocità. Squarciare il tempo. Investire tutto ciò che si oppone al suo impeto.

Con quella punta di amara ironia, Simenon riflette sulla condizione dell’uomo di autoimprigionarsi, di accettare di indossare quelle catene di convenzioni, quelle insulse identità con cui accettiamo di riconoscerci che non sono altro che maschere.

E poi, la curiosità. La curiosità matta di vedere le reazioni della gente a questa libertà sfrenata. La voglia di essere sorprendenti. La voglia di sfrecciare tra la gente, invisibili e impetuosi come una folata di vento che dal nulla scompiglia i capelli e piega gli alberi, aggressiva e indomabile. 

Al diavolo tutto! Al diavolo la falsità, al diavolo la famiglia, al diavolo la legge, al diavolo le conseguenze, al diavolo la paura. Popinga si vuole divertire! 
E ci farà divertire, trasportandoci nelle sue avventure sia fisiche sia mentali.

La bottega della carne

riflessioni sulla carne coltivata, sul progresso e sulla disinformazione

La democrazia è il potere di un popolo informato.

(Alexis de Tocqueville)

Il cambiamento verso cui il mondo si sta lanciando è qualcosa di abominevole. Intelligenza artificiale, macchine elettriche, nanotecnologie di ogni tipo. Il mondo sta mutando volto. Ed è comprensibile che ciò possa provocare confusione, scetticismo e paura, soprattutto nei più anziani, che spesso si sentono comprensibilmente esclusi dal mondo (e questo è un altro enorme problema: basta pensare alla nuova moda dei ristoranti di usare solo e soltanto i menù a QR-code, provocando disagio in chiunque abbia difficoltà a usare il telefono, o, peggio, non ne sia affatto provvisto. Ma questo è un discorso a parte). Io, personalmente, vedo sempre più artificialità e meno natura, meno umanità, meno irrazionalità. È chiaro che bisogna ancora trovare un equilibrio: progresso non significa rinunciare alle radici, alle emozioni. Significa imparare ad essere flessibili, ad allungarsi verso nuovi orizzonti, più luminosi. Significa non lasciarsi accecare dal falso progresso, che è mero consumismo mascherato. Nuovi modelli di telefoni profilati ogni settimana, in cui si cambia solo il design del display o la posizione degli obbiettivi fotografici. Un bel modo di sperperare risorse naturali e desertificare il proprio portafoglio.

Secondo me il progresso vero è un altro: un nuovo farmaco, un vaccino, un nuovo tipo di energia rinnovabile. O la carne “sintetica“, di cui tanto si è discusso ultimamente. Carne vera, tra l’altro più sana, in quanto contenente più proteine e meno grassi rispetto alla carne allevata. Carne fatta in laboratorio, a partire da cellule animali, e che quindi non solo risparmierebbe le inutili e terribili sofferenze a cui è giornalmente sottoposto il bestiame, ma migliorerebbe problemi di portata mondiale, come quello ambientale, estremamente peggiorato dagli allevamenti, o della fame. 

E dunque, se sono questi i presupposti di questa nuova invenzione, quali sarebbero gli ostacoli che bloccano i governi dal metterle in commercio, o le tesi supportate da chi ha portato avanti le critiche? 

A parer mio, è tutta una questione di disinformazione. Quando si dice: “Non giudicare un libro dalla copertina”. Si legge “sintetico” e magari si pensa alla plastica, al poliestere. A qualcosa di fabbricato, di non naturale, di non sano. Ma la realtà dietro è ben diversa: non si aggiunge alla carne sintetica alcun tipo di sostanza, né la si sottopone a processi astrusi o dannosi: invito chiunque a cercare articoli di scienziati e professionisti del settore.

Il concetto è sempre il solito: non bisogna fermarsi alle apparenze. Bisogna informarsi, cercare su tante fonti e che siano affidabili, prima di mettere i paletti attorno ai propri pensieri. Le opinioni non sono univoche per definizione, ma devono essere basate sulla conoscenza, non sull’ignoranza o sul “sentito dire”.

I miserabili di Victor Hugo

“ …e in quel suo tragico sguardo vi era qualche cosa che arieggiava dell’impossibile e il riverbero d’un paradiso chiuso “

Dalla parte V, libro VI, capitolo IV, L’attrazione e l’estinzione  

 

Sicuramente un libro molto denso, sia per lunghezza (che personalmente non mi ha pesato, anzi!), sia per temi. Diverse parti sono estremamente descrittive e possono risultare pesanti, ma senza esse, Hugo non sarebbe stato in grado non solo di creare suspense, ma soprattutto di fornire il quadro a 360° di tutte le vicende raccontate: chi legge “I miserabili”, penetra i margini delle pagine e vive a pieno ogni singolo evento, entra nei panni di ogni personaggio, che, nella maggior parte dei casi, non è distinguibile come “buono” o “cattivo”, piuttosto come “vittima” del mondo in cui è immerso e giudicato in base a come reagisce ad esso. Jean Valjean, Cosetta, Fantine, Javert, Mario, Eponine. Addirittura i Thernardiers. Ci si riesce ad affezionare ad essi, come fossero davvero nostri conoscenti: uno dopo l’altro si esplorano i loro meandri più profondi e tragici, impeccabilmente descritti dall’autore. Si percorrono piano piano, al passo dei protagonisti, luoghi, paesaggi e scene: dall’abitazione del Vescovo di Vigne, al convento, al parco dove un certo fazzoletto ha provocato tanto turbamento nei ciechi occhi di un cuore innamorato, fino alle più putride aree della Parigi ottocentesca. 

L’unico libro che è stato in grado di far sgorgare lacrime dai miei occhi. L’unico libro che è stato in grado di farmi provare una sincerissima, purissima ed estrema commozione per l’uomo che ha tenuto stretta la mano di Cosetta da un lato, dall’altro, dopo tutte quelle pagine, la mia.



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