Recensione libro

Sentivo la certezza di una realtà che gocciolava via da me come calcio da un osso. Stavo depravando la mente con l’opacità. Provavo sempre meno sensazioni. Le parole arrivavano e le pronunciavo nella testa, poi mi accoccolavo sentendo il loro suono, mi perdevo nella musica.
(da Il mio anno di riposo e oblio, Ottessa Moshfegh)

Vi è mai capitato di desiderare di chiudere i ponti con il mondo per sempre? Di sentire il suono della sveglia e voler maledire il sole che si sta alzando in cielo? O di voler ricominciare da capo, una vita da zero? Ebbene, su queste tematiche si è interrogata Ottessa Moshfegh.

Il mio anno di riposo e oblio non ha una trama affatto complicata. Gira sulle stesse vicissitudini, andando sempre a variarle leggermente. Si concentra sugli stessi tre/quattro personaggi, mettendo in luce le loro ombre. L’impalcatura è semplice, ci si arrampica con estrema agilità. Ridicolizza l’assurdità dei rapporti umani, delle relazioni con il mondo e con la società. Fino a raggiungere l’ultimo capitolo, in cui si accumula di botto tutta la tensione che nel corso dei mesi della vita della protagonista era stata accantonata: l’esplosione di un finale crudele, che svela la profondità delle pagine che si hanno letto ridendo sotto ai baffi. Per tutto il corso della lettura mi sono più volte chiesta come sarebbe potuta andare a concludersi una vicenda così bizzarra, tanto per il contenuto quanto per la forma con cui è stata scritta, senza sfociare nel banale, nell’insensato o, ancor peggio, nel trascurato. E invece, mi ha lasciato davvero senza parole. E considerando la scrittura straordinariamente equilibrata della Moshfegh, in grado di bilanciare egregiamente l’ironia e la serietà, forse c’era da aspettarselo.

La vita è tentare, ci dice anche questo il romanzo della Moshfegh. L’attesa è sempre più lunga del momento in sé, in cui accade quanto vorremmo accadesse. Vivere è sinonimo di aspettare. Il libro tende già dal titolo ad arrivare a quel momento. Un momento che sfugge di continuo. Un momento che sembra al contempo ardere nel desiderio della protagonista e avvizzirsi nella sua paura. Sfugge da solo o viene rimandato? È veramente la concretizzazione di quel progetto l’obiettivo della protagonista?, ci si chiede. La risposta che mi sono data è che spesso ci costringiamo a convincerci a volere qualcosa, sebbene in cuor nostro non la vogliamo. Ignoriamo i segnali che ci allertano di questo masochismo, sebbene siano piuttosto evidenti. E così, finiamo per ferirci da soli, in un mondo in cui la sofferenza piove su di noi anche nelle giornate di sole. E per quanto si possa provare a scappare, l’incubo del nulla, del vuoto più totale, ci perseguita anche da svegli.