A te, di cui porto lo stesso cognome, e del cui coraggio vorrei avere anche solo un briciolo.

 

Di solito la Camorra non ce l’ha con i giornalisti. 

Per te, invece, anche i camorristi hanno iniziato a leggere il giornale.

Evidentemente, gli articoli firmati “Giancarlo Siani”, scritti mentre eri un precario relegato alla cronaca nera della sezione di Torre Annunziata de Il Mattino, avevano urtato qualcosa di grosso. 

Ora, su quella parete in via Romaniello, resta il tuo sorriso brillante sotto gli occhiali rotondi. Alcuni scorci del tuo volto in vernice bianca e grigia – come la carta del giornale, il tuo campo di battaglia – altri in vernice verde acido, come la tua inseparabile Citroen Mehari, l’unico particolare che ti rendeva meno ordinario degli altri ventiseienni napoletani.

Su quel sedile, la sera del 23 settembre 1985, la tua testa si reclinò grondante di sangue. Discretamente, senza particolare scalpore.

Eri solo un ragazzo assetato di vita e di cambiamento, eppure, ti spararono 4 colpi.

Era il periodo della guerra tra i clan, all’inizio degli anni ‘80. A causa del terremoto e dell’elevatissimo tasso di disoccupazione, le famiglie Bardellino, Gionta e Nuvoletta avevano fatto dei paesi circumvesuviani il loro regno: le loro dimore lussuose svettavano in mezzo alle macerie e alle abitazioni di fortuna della popolazione; schiere di giovani disoccupati venivano arruolati nel giro di spaccio di eroina. 

In quel clima, la tua macchina da scrivere era la portavoce dei disagi e delle ingiustizie della gente comune.

Sei sempre stato intraprendente. Ti gettavi a capofitto tra manifestazioni, ricerche e collaborazioni con diverse testate in modo del tutto naturale, senza discorsi idealistici o presunzioni di eroismo. Anzi, nemmeno immaginavi di averne bisogno. 

Semplicemente, ti eri fatto carico della missione di informare le persone, di dare nomi e volti al marcio che tutti conoscevano, ma di cui nessuno voleva parlare.

Forse non realizzasti la portata di ciò che avresti scritto quando ti proposero una sostituzione estiva nella sede principale del Mattino, a Napoli. 

“Nonna manda il nipote a vendere l’eroina”, questo il titolo del tuo ultimo articolo, che denunciava lo scandalo dei minori coinvolti nel traffico di droga.

Grazie alla tua determinazione, chiaristi gli intricati rapporti di alleanze e inimicizie tra le famiglie camorriste della zona, e scopristi anche le loro relazioni con la mafia corleonese di Totò Riina.

Ma quello che pubblicavi sul giornale era solo la punta di un iceberg che stavi indagando ben più in profondità.

Qualcuno dice che i giornalisti vengono uccisi non per quello che hanno scritto, ma per quello che stanno per scrivere. Forse è per gli appunti gelosamente custoditi nel tuo diario che i Nuvoletta decisero che tu dovevi morire. 

Avevi telefonato a tua madre dicendole che saresti tornato a casa, perché non eri riuscito a comprare i biglietti per il concerto di Vasco Rossi a cui quella sera desideravi tanto partecipare. Ma, prima che potessi scendere dalla Mehari, due ragazzi ti si avvicinarono con le pistole puntate.

Ci sono voluti quasi vent’anni per ottenere le sentenze definitive, però, da quando quegli spari risuonarono per via Romaniello, diventasti un simbolo. Da allora, rappresenti la lotta di chi si rimbocca le maniche senza stare a congetturare sulle conseguenze, rappresenti il sudore e la fatica di scelte vissute e rinnovate attimo per attimo, rappresenti la certezza che, per essere eroi, non bisogna necessariamente ricercare le prime pagine. Anche il cantuccio in una rubrica di nicchia è prezioso