24 Febbraio 2019 | Music Pills
Da poco più di una settimana è passata la festa di San Valentino e in un modo o nell’altro si è celebrato l’amore nelle sue molteplici forme. Tuttavia, dopo l’annuale e bulimica abbuffata d’amore si ricominciano a percepire nuovamente gli acidi conati del quotidiano che in modo subdolo ci consumano con lentezza. Svegliandoci un lunedì mattina, improvvisamente, quasi in modo Kafkiano, la nostra trasformazione è completa: siamo diventati delle farfalle che non gioiscono per la loro leggiadria, ma imprecano per la loro vita effimera. Per fortuna la musica ogni tanto si occupa anche della rabbia e di tutti i suoi surrogati aiutandoci a esorcizzare tutto ciò che ci fa sentire dei miserabili privi (o privati) di prospettive. Per l’occasione, ecco la mia personale top 10 di brani tracotanti di sentimenti da perdenti, di gocce che fanno traboccare il vaso e di schietto umorismo sulla vita.
Buon ascolto.
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La Macabra Moka – Radio fa
Cominciamo con un brano dei cuneesi La Macabra Moka. Le chitarre distorte, le dissonanze e una corposa base ritmica accompagnano le urla di Pietro (il cantante) in un amalgama vincente. La critica alla quotidianità culmina con uno sfogo sui singoli radiofonici ricchi di sentimenti perbenisti e poco genuini. Ideale per il lunedì mattina prima di andare al lavoro.
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Umberto Emo – Disco Infermo
In Disco infermo c’è tutto ciò che rappresenta una generazione di ragazzi incazzati già di partenza. L’arrangiamento si propone con sonorità che strizzano l’occhio ad un’allegra produzione pop creando un palpabile divario con il contenuto del testo ricco invece di imprecazioni e sfoghi personali. La produzione tragicomica degli Umberto Emo è qualcosa da conoscere sicuramente per sentirsi perdenti, ma meno soli.
- Bluvertigo – Iodio
Nel 1995 Morgan e i Bluvertigo scrivono un brano sulla pari possibilità di amare e odiare. Qui l’amore si presenta quotidianamente sotto mentite spoglie soffocando la rabbia che, per quanto negativa, è comunque necessaria al nostro equilibrio.
- Linea 77 – Inno all’odio
I Linea 77 in una fase ancora acerba della loro carriera ci regalano questa piccola perla. Inno all’odio è un brano che anticipa di una decina d’anni i temi che infestano la musica di oggi: la precarietà del futuro e la frustrazione di non essere sufficientemente adatti a reagire.
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Skiantos – Non ti sopporto più
Gli Skiantos sono i gran maestri del disgusto, i pesi massimi dell’ignoranza. Questo brano descrive senza fronzoli il momento in cui si sorpassa il limite della sopportazione e la nostra razionalità lascia le redini al caos.
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Verme – Va tutto malone
Pur con un solo album, i Verme hanno lasciato una traccia profonda nella musica underground italiana. Questo brano rappresenta forse al meglio la loro poetica: una lamentela verso chi ha sempre da sbuffare e trascina nei suoi problemi le persone più care.
- Black Flag – Nervous Breakdown
Questa canzone è l’esatta rappresentazione di quando uno perde le staffe e non ci vede più per un paio di minuti. Quando riapre gli occhi scopre che nella foga ha distrutto tutto ciò che lo circondava nel raggio di 10 metri e le imprecazioni hanno fulminato un paio di anziane signore per la strada.
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Descedents – Everything Sux
Il titolo è già eloquente e la rabbia anche qui sgorga come l’acqua da una sorgente in alta quota. Se siete credenti pregate di non incontrare mai il protagonista di questo pezzo: vi farebbe a brandelli.
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Fast Animals and Slow Kids – Come reagire al presente
Questo è forse il pezzo più violento di tutta la lista. In questo caso però la violenza è psicologica, dettata dalla rassegnazione ai propri fallimenti e dall’incapacità di aver reagito prontamente. Se ci aggiungete il resto dell’album (Alaska) potreste trarre piacere dalla musica, ma la vostra voglia di vivere toccherebbe i minimi storici incollandovi al letto in un vuoto esistenziale.
- Police – So lonely
Concludiamo con qualcosa di leggero. Questo squisito pezzo di reggae bianco descrive il ritorno alla solitudine e il senso di smarrimento che essa comporta. Nonostante il cantato incomprensibile di Sting questo rimane a mio avviso uno dei loro brani più divertenti.
Ascolta la playlist su Spotify: https://open.spotify.com/user/9e75aj8ource25qs4b9lmclev/playlist/73VjqR0qUPU27PA5iH7jVy
5 Gennaio 2019 | Stappapensieri
Nella riflessione precedente ci siamo lasciati con questa idea: puro amore ci sarà laddove ci sarà una scelta. L’educatore deve compiere delle scelte durante il processo di formazione del bambino: deve decidere se lasciarlo davanti alla televisione una o tre ore al giorno, se regalargli un cellulare a undici o a quattordici anni, se insistere perché dica “Grazie”o se non essere pedante. Impostare un metodo educativo comporta un rischio, perché scegliere è sempre rischiare, tanto più con una creatura umana, davanti alla quale è impossibile avere la totale certezza di che cosa sia meglio fare.
Hans Jonas, nelle pagine conclusive della sua meravigliosa opera Il principio responsabilità, rende tangibile e quotidiano il concetto apparentemente astruso di responsabilità, scrivendo: L’individuo consapevole dovrà ogni volta porsi nell’ottica di poter desiderare in seguito (col senno di poi) di non aver agito o di aver agito diversamente. […]Nonpermettere che la paura distolga dall’agire, ma piuttosto sentirsi responsabili in anticipo per l’ignoto costituisce, davanti all’incertezza finale della speranza, proprio una condizione della responsabilità dell’agire: appunto quel che si definisce il «coraggio della responsabilità». Secondo il filosofo tedesco, la responsabilità avrebbe due facce complementari, la speranza e la paura. La speranza viene definita “condizione di ogni agire”, perché, se non avessi qualcosa in cui sperare, getterei la spugna; la paura è invece non quella che “dissuade dall’azione”, ma quella che “esorta a compierla”. È la paura che sorge quando mi domando che cosa accadrebbe a quella persona se io non mi prendessi cura di lei: la spaventosa risposta a questa domanda fa nascere in me il sentimento della responsabilità. Un fattore dell’attuale crisi dell’educazione sta proprio nel segno che accompagna questa paura: oggi è frequente vedere molti genitori in preda a una paura “che dissuade”, e quindi negativa e paralizzante; l’incapacità di vedere il proprio figlio lamentarsi per un “No” e l’idolo della perfezione conducono a questo timore esagerato di sbagliare, preoccupazione che porta talvolta a un’anarchia genitoriale e a lasciare l’onere della decisione al bambino. Il diffuso terrore di un trauma,che uno sbaglio educativo (come una sanzione scolastica ingiustificata, una sgridata immotivata, uno scatto d’ira isolato) causerebbe sul bambino, s’inserisce in una più ampia concezione antropologica errata che rifugge il dolore perché lo vede come qualcosa di dannoso: la sofferenza però è superabile, e quindi il figlio saprà perdonare un errore dei genitori, se questi si scuseranno e non ripeteranno più il medesimo a oltranza.
La paura è la pietra d’angolo dell’assunzione della responsabilità e del processo educativo, ma dev’essere una paura costruttiva che incentivi a fare bene il proprio lavoro, con la chiara consapevolezza della propria fallibilità. Questo non significa essere indifferenti ai propri sbagli e abituare il figlio a dolori vani e pesanti: sia chiaro. Ciò significa piuttosto che occorre tutto l’impegno nell’educazione dei figli, dimostrandosi sufficientemente sicuri della propria linea educativa, sapendo però che qualcosa scapperà di mano. Grazie al Cielo nessuna educazione è perfetta: infatti l’umanità migliora perché le nuove generazioni evitano di commettere gli errori dei padri, che sono la benedizione che permette il progresso.
Educazione è amore, amore è responsabilità e responsabilità è scelta: se non rischiamo per amore, che cosa ci facciamo su questa Terra?
23 Dicembre 2018 | Segnalibro
“Da soli” è il titolo dell’ultimo libro di Cristina Comencini (Einaudi, 2018). Scrittrice, ma anche regista e drammaturga, la Comencini racconta questa storia a quattro con assoluta maestria e grande limpidezza. Marta e Andrea, Laura e Piero: due coppie di fidanzati, poi sposi, poi genitori. Due coppie di amici che iniziano la loro storia sul pontile di una nave, quando, ancora venticinquenni, inseguono il futuro e pensano di avere tutta la vita davanti. E poi il matrimonio, e i figli. All’improvviso, quasi in contemporanea, le loro storie finiscono: Marta lascia Andrea, da un giorno all’altro, apparentemente senza motivo; e Piero lascia Laura, dopo una lunga fase di separati in casa.
Il lettore incontra i personaggi proprio qui, nel momento cruciale: quello dei primi mesi di separazione, dopo una vita insieme. In sequenza, la Comencini tesse abilmente la trama dei quattro punti di vista dei protagonisti, ognuno dei quali vive in modo differente questa dolorosa fase. Così, Marta e Andrea, Laura e Piero si trasformano in modelli, prototipi di reazioni possibili dopo una separazione così difficile: Marta è quella che non si sente più libera, che ha bisogno di stare da sola e di cambiare, e quindi lascia Andrea, il modello dell’uomo sentimentale e ancorato ai valori della famiglia. Andrea accetta con difficoltà la decisione inaspettata della moglie, e fatica tremendamente a ricostruire una vita senza di lei, perché in ogni luogo, in ogni momento della vita quotidiana gli torna in mente qualcosa di Marta. Invece, nell’altra coppia è Piero che lascia Laura. Piero è l’incarnazione dell’uomo egocentrico, che non si sente abbastanza amato ma che, allo stesso tempo, tradisce la moglie da anni senza alcun senso di colpa. Laura invece, nonostante sia a conoscenza dei tradimenti di Piero, reagisce malamente alla rottura, in quanto è la tipica donna che ha bisogno costantemente di una persona accanto, con cui condividere ogni aspetto della sua esistenza. Ciascun personaggio, dunque, affronta a modo suo il fantasma, pauroso e incombente, della solitudine in età adulta.
Altre figure ruotano attorno ai quattro, come satelliti: nuovi amanti, figli, amici, che riescono anche a chiarire certe idee ai protagonisti. Tuttavia, il fulcro della vicenda è fissato su diversi temi: il primo e forse più lampante è quello del peso dei ricordi, bellissimo ma lancinante. Per tutti e quattro, ma soprattutto per Andrea e Laura (i “mollati”), i ricordi sono difficilissimi da eliminare dalla mente, perché sono troppo numerosi e troppo intensi. In qualsiasi momento della vita di ogni giorno, possono comparire all’improvviso e distruggere il piccolo nuovo universo che i protagonisti stanno faticosamente costruendo.
Gli altri due temi, sicuramente centrali, sono la famiglia e il matrimonio. L’abilità della Comencini, dando voce alle due coppie, è quella di insinuare un dubbio nel lettore, che come un tarlo lo perseguita per gran parte della lettura: la possibilità, ancora al giorno d’oggi, di credere nell’autenticità del matrimonio e nella possibilità di costruire una famiglia che duri a lungo. Verso metà del romanzo, è il personaggio di Andrea che sembra dissipare ogni incertezza. Lui, marito fedele, comprende che deve mentire ai figli per tranquillizzarli, e dire loro che si è ricostruito una vita accanto ad un’altra donna, di cui è “follemente innamorato”. Arriva a sostenere suo malgrado che, ai giorni nostri, “non c’è niente di più incongruo ed antimoderno che amare una sola persona per tutta la vita”.
“Da soli” è un libro maturo, chiaro e duro nelle sue verità. È anche retrospettivo e poco consolatorio, perché si concentra soprattutto sulla vita oramai passata, e meno verso il futuro. Inoltre, “Da soli” porta inevitabilmente il lettore a riflettere: sui temi elencati prima, e anche sui rapporti umani in generale. Una volta conclusa l’ultima pagina, rimangono in testa alcune martellanti domande, che si pongono gli stessi protagonisti e a cui non si offre una risposta finale: perché la solitudine fa così male? L’essere umano ha davvero bisogno di qualcuno accanto nel corso dell’intera sua vita? E soprattutto: si può amare una sola persona, per sempre?
7 Dicembre 2018 | Stappapensieri
Massimo Recalcati, psicoanalista italiano tutt’ora vivente, su La Repubblica nel 2016 ha pubblicato un eloquente articolo intitolato Quel che resta della parola “educazione”: ha analizzato brevemente la situazione educativa genitoriale e familiare attuale, sostenendo che, in un modo esemplare e nuovo rispetto al passato, le esigenze dei bambini stanno prendendo il sopravvento sulle decisioni degli adulti. Non solo, ma in molti casi si vede l’infanzia come un periodo della vita da preservare e addirittura si diventa allergici all’educazione in sé, che viene infatti considerata come l’invasione della sfera infantile da parte dell’adulto. In sintesi, questa è l’era della crisi del padre, cioè dell’autorità e della regola: lo dimostrano gli scontri politici, in cui si affronta il potere della Costituzione, lo rivela il genitore che contesta alla professoressa la decisione di aver sanzionato il figlio a scuola, lo palesa chi dice che la scuola pone vincoli di obbedienza ai bambini, che invece dovrebbero vivere la loro infanzia senza stare seduti a un banco per ore.
Questo è grave: se non si ha bene chiaro in mente che il bambino deve diventare adulto, nei prossimi decenni ci saranno eterni bambini, persone che quindi non avranno interiorizzato il senso del limite né l’importanza dell’obbedienza. Il senso del limite, che è vitale, lo si acquisisce per esperienza e trasmissione: se non insegno a mio figlio che drogarsi è distruggere la vita, è possibile che prima o poi lo faccia, per una banale inconsapevolezza; se non insegno a mio figlio che in classe non può insultare la maestra, perché la maestra è una persona – oltre a essere un adulto che è lì per lui – e che, in quanto tale, va sempre e comunque rispettata, è probabile che si spingerà oltre l’insulto. Scrive Recalcati: Il compito dell’educazione viene aggirato nel nome della felicità del bambino che solitamente corrisponde a fargli fare tutto quello che vuole: il soddisfacimento immediato non è solo un comandamento del discorso sociale, ma attraversa anche le famiglie sempre più in difficoltà a fare esistere il senso del limite e del differimento della soddisfazione. Nulla da dire: il confine è la cifra del mortale, e, se fin da piccoli non ci si abitua a questa idea e si crede che tutto sia lecito, non si sarà capaci di stare al mondo. È normale che l’educazione debba talvolta ricorrere a metodi coercitivi, almeno fino a quando il figlio non abbia raggiunto la maturità e la piena responsabilità delle proprie azioni; come il vasaio lotta con la massa di argilla ancora informe, così l’educatore plasma il bambino talvolta obbligandolo a cedere a una certa forma che, a proprio avviso, è la migliore.
Sia chiaro: questo non vuole essere l’apologia della costrizione e dell’assenza di libertà, ma un antidoto efficace all’altrettanto profonda pochezza di formazione in cui siamo immersi. Il bambino dev’essere ovviamente circondato di amore, di affetto e gratitudine, ma è proprio questo ad implicare inevitabilmente un insieme di regole: il bambino non potrà percepire cattiveria laddove ci sarà puro amore. E puro amore ci sarà dove ci saranno cura e responsabilità: puro amore ci sarà laddove ci sarà una scelta.
Che nell’educazione, come nell’amore, si sbagli è imprescindibile… Ma questo è un altro capitolo.
24 Maggio 2017 | Sfatamito
MARIMO: a cosa vi fa pensare questa parola?
Si tratta di un’alga verde pluricellulare scoperta nel 1820 dal botanico giapponese Kawakami, ma conosciuta anche come alga a palla. La scelta del nome attribuitale dal signor Kawakami non è casuale: “MARI” significa biglia e “MO” è un termine generico per indicare le piante che crescono in acqua. Una combinazione semplice ma perfetta, che nella nostra lingua richiama casualmente il mare. Studi scientifici hanno dimostrato che queste alghe assorbono una gran quantità di nitriti, nitrati e componenti ammonici nell’acqua, rilasciando una grande quantità di ossigeno sotto forma di bollicine visibili sugli steli.
Il Marimo è stato fin da subito considerato un simbolo non solo di amore, ma anche di affetto profondo, sentimento sincero, stima e rispetto. Sulle rive del lago Akan si trova un museo dedicato a questo tipo di alghe e alla loro lunga tradizione e mitologia. Quest’ultima narra la storia di una coppia di innamorati che si rifugiarono sulle rive del lago Akan, unico luogo dove nascano i Marimo, per sfuggire alle proprie famiglie che li volevano separati.
I loro due cuori si trasformarono in Marimo per vivere in eterno il loro amore: i Marimo infatti vivono oltre 200 anni e crescono di 5 millimetri ogni anno!
Una particolarità dei Marimo è la loro danza: con la luce del giorno potranno crearsi numerose sfere di ossigeno, visibili ad occhio nudo durante la fotosintesi clorofilliana, che faranno fluttuare l’alga all’interno del suo contenitore. Questo movimento è chiamato “la danza del Marimo”.
L’alto numero di persone che cercarono nel passato di appropiarsi di queste piante ha costretto il Giappone a prendere provvedimenti per evitarne l’estinzione. Nel 1921 il Marimo è stato dichiarato Tesoro Naturale Giapponese.