“Bisogna riservarsi una retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Abbiamo un’anima capace di ripiegarsi in se stessa: può farsi compagnia, ha i mezzi per assalire e per difendere, per ricevere e per donare; non dobbiamo temere di marcire d’ozio noioso in questa solitudine, in solis sis tibi turba loci [nella solitudine, sii per te stesso una folla]”. In questo volgersi a se stessi Michel de Montaigne, filosofo e letterato francese sui generis vissuto nel XVI secolo, ravvisa una delle molteplici forme in cui si può conoscere la felicità. L’uomo del XXI secolo evidentemente non è il primo a provare l’esigenza di solitudine e di pace, ma sicuramente la vita è andata accelerando sempre di più e oggi sembra più raro riuscire a ritagliarsi spazi personali nel quotidiano: chi per un motivo, chi per un altro, siamo tutti immersi in un fitto miscuglio di volti e parole e, per quanto le relazioni umane siano entusiasmanti, percepiamo la sete di stare con noi stessi.
La forma in cui ognuno sceglie di ritirarsi nella propria “retrobottega” è assolutamente personale e non sottoponibile a giudizio: c’è chi ama rifugiarsi nella Letteratura, chi nel pensiero svincolato da ogni logica, chi nell’Arte, chi nella preghiera, chi nel silenzio della natura. Nessuna legge od opinione può influenzare la costruzione di questo spazio del tutto intimo o varcarne la soglia indiscretamente. Ciò che conta è che questa dimensione di privatezza rappresenti un tassello di pura felicità – il tassello più grande, secondo Montaigne. Dev’essere il luogo in cui alberga la verità. E in effetti ci si rende conto di aver trovato il proprio nido interiore quando lì ci si sente cullati e accarezzati – da che cosa, questo non conta – e quando si ha la sensazione di aver finalmente conosciuto la pienezza. Il fatto che ogni persona abbia il proprio modo di stare con se stessa e che ognuno trovi la propria felicità in modo peculiare è indice di questo carattere assolutamente personale con cui la verità si svela a ciascuno; il più delle volte si può infatti non ritrovarsi nella retrobottega dell’altro, ma questo è un mistero dolcissimo in cui non ci è dato penetrare.
Il precetto del “conoscere se stessi” è diventato retorico e popolare fino a trasformarsi in una sorta di frase da magliette o da baci Perugina. Obiettivamente è inutile cercare di capire che cosa gli antichi intendessero dire con quelle parole, perché sono vaghe e perché forse sono comprensibili intuitivamente. Le interpretazioni varie e in fondo offuscate che si possono dare non esauriscono certo tutta la profondità di questa regola di vita, ma è altrettanto vero che tutte le si avvicinano da diverse strade: forse un modo in cui si può conoscere se stessi è proprio questo dimenticare il mondo e le sue convenzioni. È la meraviglia di scoprire un luogo interiore di cui magari non si immaginava l’esistenza; è il sollievo di scoprire che nessuno ci potrà mai portare via quel tesoro tutto nostro, tutto immateriale, tutto svincolato dalla realtà visibile. È lo stupore di chi tocca con mano che lì, e solo lì, non avranno mai alcun potere il giudizio né lo sguardo degli altri.