L’ultimo anno ha messo a dura prova l’umanità: la crisi sanitaria ha spezzato una quotidianità che era fatta di incontro, scontro e scambio sociale. Moltissime persone si sono trovate a rimanere sole e a interrompere qualunque tipo di interazione fisica con altri individui, al fine di combattere un virus che si nutre proprio della naturale socialità umana. E se non bastassero le videochiamate a sostituire il bisogno sociale che caratterizza l’uomo?

Aristotele parla dell’essere umano descrivendolo come un animale “sociale”, utilizzando un semplice aggettivo che ha la capacità di distinguerlo nettamente da tutti gli altri animali, i quali, fondando la convivenza con i loro simili su un mero rapporto di forza, non sono in grado di sfruttare l’intelletto (nous) al fine di dar vita a relazioni che, per quanto fondate sulle naturali differenze tra singoli, non generino conflitto e competitività, ma collaborazione.

Per Platone, poi, la polis stessa, paradigma della comunità in generale, si origina a partire da una necessità umana di convivere e cooperare con i propri simili, al fine non solo di sopravvivere, ma di perseguire l’esistenza migliore possibile. La città, dunque, si svilupperebbe a partire dall’intrinseco bisogno di aiuto che caratterizza la natura umana e si fonderebbe sullo scambio reciproco di prestazioni.

«Nasce dunque la città, io ritengo, perché di fatto ciascuno di noi non è autosufficiente, ma è carente di molte cose.» (Platone, Repubblica)

Ciascun individuo, infatti, è caratterizzato da molteplici bisogni e dall’incapacità di soddisfarli tutti in prima persona, in quanto ciascuno dispone di attitudini naturali a svolgere bene solo una specifica attività, non molte. Nessuno, preso singolarmente, è dunque autosufficiente, ma è condizione necessaria per la sua sopravvivenza l’aggregazione in un unico insediamento con altri individui capaci di adempiere a quei bisogni specifici che lui da solo non può soddisfare. Kallipolis, la città ipotizzata da Platone, è sì una città utopica, basata sugli ideali di collaborazione e convivenza tipici dell’antica Grecia, ma l’uomo, nel suo intrinseco bisogno di collaborazione, contatto e scambio, rimane lo stesso nel corso del tempo.

Per Thomas Hobbes, filosofo del Seicento, infatti, la necessità di una vita associata irromperebbe tra gli uomini a causa della naturale conflittualità che fa sì che le relazioni, se svincolate da qualunque contesto sociale e non regolate da leggi, generino uno stato di guerra generalizzata e una condizione di homo homini lupus, in cui l’individuo diventa un pericolo per i suoi simili. Per questo la maggior parte degli uomini avrebbe deciso di rinunciare a quella libertà che, nello stato di natura precedente alla creazione delle comunità e dei governi, sarebbe coincisa con la possibilità di agire indipendentemente dagli effetti delle proprie azioni sugli altri. Sarebbe appunto a partire da questo patto tra uomini liberi, che volontariamente rinunciano a parte della loro libertà per sottomettersi ad un potere centrale che regoli con leggi e punizioni la vita associata, che si è originata la società e insieme ad essa la possibilità di intraprendere dei rapporti di scambio e collaborazione volti alla pacifica convivenza e al mantenimento della sicurezza della comunità.

Il bisogno di instaurare dei rapporti sociali, e di conseguenza di stipulare leggi che ne garantiscano la conservazione pacifica, sarebbe radicato nell’esistenza associata dell’uomo e dunque perfettamente in linea con le regole che, nel corso dell’ultimo anno, i diversi paesi hanno messo in atto al fine di mantenere la sicurezza sanitaria della società ma che in qualche modo vanno a modificare i rapporti tra i singoli. Esse sono forse l’ultimo esempio di come l’evoluzione (tecnologica e non) sia stata in grado di permettere la permanenza di un rapporto sociale e di una vita associata anche a distanza e con l’ausilio di strumenti tecnologici sostitutivi della presenza fisica.

Da sempre è noto come l’uomo sia in grado, per natura, di adattarsi a molti dei cambiamenti che caratterizzano la sua vita, che siano essi naturali o artificiali. I social network hanno sicuramente allentato la necessità di incontrarsi concretamente ma sarà mai questo sufficiente per un essere sociale che è anche, in primis, “animale”? È forse questo il futuro delle relazioni umane? O è semplicemente una parentesi temporanea dovuta alla necessità del momento? Probabilmente una maggiore tecnologizzazione dei rapporti umani stava già avvenendo, in maniera più graduale, a partire dalla creazione dei social network, ma ritengo che l’animalità, che comunque caratterizza l’uomo in quanto essere naturale, necessiterà sempre di quel contatto reale e corporeo che, ancora, la tecnologia non è in grado di fornire.

a cura di Denise Arneodo