Joker è stato sicuramente il film più chiacchierato dello scorso anno, un’opera che ha convinto critica e pubblico, diventando istantaneamente un cult. Il film è sicuramente innovativo per il genere cinecomics e si spera aprirà una nuova generazione di film supereroistici più maturi, ma rimane comunque una pellicola non priva di difetti. Dal punto di vista tecnico l’opera si presenta molto bene, a partire dalle musiche, tutte allegre, che creano un contrasto con le atmosfere del film. Le canzoni infatti rappresentano l’unico momento di evasione del film sia per gli spettatori, sia per lo stesso protagonista Arthur, il quale danza in scene diventate già iconiche.

La regia e le scenografie trasmettono una forte sensazione di oppressione: gli ambienti risultano claustrofobici, come la piccola casa di Arthur e le macchine, metro e ascensori in cui spesso troviamo i personaggi. Nelle scene all’aperto sono presenti molte persone e altri elementi che riempiono lo schermo in maniera soffocante, in senso buono però.

La punta di diamante dell’opera è sicuramente il suo protagonista, merito della meravigliosa interpretazione di Joaquin Phoenix.

I problemi del film sono nella narrazione: l’idea di base non è affatto innovativa, sono infatti tanti i film che trattano il tema dei disturbi mentali. Mi ha divertito pensare a un parallelismo tra Joker e Forrest Gump: se a Forrest va tutto bene e ci mostra il sogno americano in cui chiunque, anche una persona con dei problemi, può essere ciò che vuole, in Joker avviene il contrario. La sua malattia non è accettata né capita, il sogno americano è morto e a lui va tutto male. La prima ora e mezza del film ci mostra solo le sfighe del protagonista, aspetto che che se da un lato ci fa immedesimare ancora di più in lui, dall’altro risulta troppo lungo e prevedibile.

Nel film sono presenti dei colpi di scena che risultano essere privi di spessore [spoiler]: Phoenix è protagonista assoluto, tanto da divorare gli altri personaggi. La sua storia d’amore con Sophie è molto tiepida e il colpo di scena legato ad essa non coinvolge, perché il film non mostra praticamente nulla della ragazza: essendo troppo concentrato su Arthur, non permette allo spettatore di affezionarsi a Sophie.

Sorte simile spetta al colpo di scena su Thomas Wayne, padre di Bruce: in una rivelazione molto confusa, prima viene detto che Arthur è suo figlio, poi dicono che non lo è, poi lo è… Finisce per essere così poco chiaro da eliminare ogni pathos.

L‘omicidio della madre rappresenta per Arthur il punto di non ritorno e la nascita di Joker, ma risulta al tempo stesso incoerente, visto che il protagonista pretende comprensione per la sua malattia mentale ma risulta spietato con la sua stessa madre, anche lei affetta da problemi mentali, toccando a mio avviso il punto più basso del film.

L’unico elemento veramente sconvolgente è il finale del film, che ribalta totalmente la situazione e il significato del film: l’opera passa infatti dalla lotta di classe a qualcosa di molto più sottile e dalla dimensione più umana. A cominciare dall’invito in TV da Murray Franklin, interpretato da Robert De Niro (riferimento importante a Il ritorno del cavaliere oscuro, fumetto di Frank Miller). Il personaggio di De Niro rappresenta un’importante critica alla televisione che, come diceva Pasolini, riesce a elevare anche degli idioti, come appunto Murray, venerati dalle persone non per loro meriti ma per il semplice fatto di trovarsi in TV. L’omicidio di Murray da parte di Joker rappresenta l’uomo comune che si libera di questi falsi simboli di superiorità, ma allo stesso tempo Joker stesso diventa un simbolo, veicolando il suo messaggio tramite la televisione e riducendo il proprio gesto ad una mera sostituzione e non una liberazione. La rivoluzione violenta che si scatena, che ha come simbolo il Joker, viene infatti resa negativa e priva di senso con la scena della morte dei genitori di Bruce Wayne. Proprio a causa di questa perdita Bruce diventerà un “pazzo” che si veste da pipistrello, un nuovo Arthur, con chiari rimandi al fumetto The killing joke di Alan Moore. Molte dichiarazioni lasciavano intendere che non vi fosse nulla di fumettistico nel film, ma i riferimenti sono tanti e, soprattutto per quanto riguarda l’opera di Moore, molto influenti sul messaggio finale del film.

La pellicola si chiude con Arthur rinchiuso nell’Arkham Asylum, instillando nello spettatore il dubbio su ciò che ha visto: che sia stata tutta una sua fantasia? Ritengo che in parte sia vero, che Arthur abbia immaginato che i suoi gesti l’abbiano trasformato nel simbolo di una rivoluzione. Il regista, in maniera molto amara, ci dice che un uomo solo non può cambiare il mondo, anzi sarebbe sbagliato. Il finale diventa un inno alla follia in cui il manicomio rappresenta una prigione mentale, da cui Joker tenta in modo rocambolesco di fuggire. Un terzo atto che eleva sicuramente il film, non tanto da renderlo un capolavoro ma sicuramente un film da vedere.