Nell’articolo di oggi parleremo di una delle figure più emblematiche e discusse della storia dell’arte contemporanea: Lucio Fontana. Nato a Rosario di Santa Fè in Argentina nel febbraio del 1899 l’artista visse in un periodo storico piuttosto travagliato per l’umanità. Cresciuto a cavallo delle due Guerre Mondiali si trovò ben presto a fare i conti con un mondo sconvolto dai massacri e  dall’instabilità, caratterizzato dall’assenza di certezze. Fu proprio nel contesto della guerra che Fontana comprese quanto non solo nel mondo, ma anche nell’arte, nulla fosse più durevole, così come la vita tranquilla era ormai scomparsa e che la creazione artistica avrebbe da quel momento in poi  dovuto adeguarsi  a due nuovi fattori: movimento e rapidità. Spinto da queste osservazioni nel 1946 firmò insieme ad un gruppo di giovani studenti dell’ Accademia Altamira di Buenos Aires Il manifesto Blanco, punto di partenza per il movimento spaziale. Fin dalle prime righe del testo si evince una concezione dell’arte latente, che di lì a poco avrebbe subìto un cambiamento netto nella forma, così come nell’essenza. Secondo Fontana nel mondo contemporaneo, trasformato dalla scienza e dalla tecnica, non vi era più posto per le forme tradizionali dell’arte  che da quel momento in poi  avrebbe dovuto manifestarsi in una nuova sintesi. Queste idee prendono corpo nelle ricerche spaziali dell’artista, che già attorno al 1947, avvertì, per dirlo con le parole del celebre critico Gillo Dorfles (1910-2018), “ l’urgente necessità di proclamare l’insufficienza del quadro a cavalletto, della distinzione tra quadro e statua e sentisse per contro l’importanza di creare un’arte capace di trascendere gli angustissimi limiti della tela per estendersi nello spazio”. Spazio inteso in una dimensione più vasta, tale da diventare creatore di un’atmosfera e di interagire con l’architettura.

E’ proprio in questo contesto che nascono i famosi buchi e tagli. Contrariamente a quanto spesso si pensa, lo strappo non è la prima tappa della rivoluzione di Fontana: egli infatti passa prima per il foro. Questi ultimi, realizzati su superfici monocrome, risultano essere caratterizzati da una gestualità ancora accentuata, dove l’approccio dell’artista è del tutto mentale. La serie dei buchi, così definita dalla critica, permette di fissare un disegno bidimensionale e al tempo stesso di costruire una struttura plastica dove il vuoto, generato all’assenza della materia, proietta lo spettatore verso il nulla che sta dinnanzi.

I tagli invece sono veri e propri squarci con cui il rapporto dell’artista con la tela tende ad allontanarsi. Si tratta di un gesto estremo, rivoluzionario, che marca il passaggio da un’epoca dell’arte ad un’altra diversa e al tempo stesso aprirà la strada ad altre sperimentazioni. Si tratta quindi del superamento della superficie quadro, della materia, che non è più ciò che preserva l’opera dall’immortalità. Questo compito viene da qui in poi affidato all’ “atto creativo”, che diventa eterno pur durando una frazione di secondo.

In conclusione, contrariamente a quanto si pensa, i tagli non nacquero con l’intento di distruggere e di privare di contenuto l’opera, ma per creare una nuova dimensione. In essi non vi è volontà di imporsi al pubblico per portarlo a formulare interrogativi sociali, morali o artistici, ma è presente la necessità dell’artista di lasciare libera interpretazione all’osservatore, che riesce ad ambientarsi esso stesso nell’opera.

Giulia Pelassa