La felicità non è qualcosa che decidi.

Non è un paio di calze che compri in saldo.

Non è il bicchiere di vino che ti versi il venerdì sera.

E non sei nemmeno tu, che giochi nella mia vita come fosse Scarabeo: parole che s’incastrano e s’illudono di essere vere ma sono in una lingua che nemmeno riesco a leggere.

Felicita è un nome femminile ma di femminile non ha proprio niente: non ha la sinuosità di un paio di gambe che avanzavano, non ha la luce di un paio di occhi che vedono per la prima volta un tramonto dopo giorni di pioggia, non è leggera come una chioma liscia che nasconde un volto timido. La felicità non è donna.

La felicità non sono io che cerco di muovermi in questa vita.

La felicità sono io che mi fermo, in silenzio e mi guardo allo specchio. Me la disegno io, segno i contorni di un corpo che mai mi è appartenuto, magari colorato d’ambra, d’argento, con lunghe forme che sembrano sfiorare il cielo e fanno invidia ai bianchi peschi che nel tardo mese di giugno fioriscono.

Ah, che bella la felicità: è la Venere di Botticelli bruna, è la Dafne di un Bernini senza tempo, è la femmina che mai potrò essere.

La felicità non esiste.

O meglio, è un rigido orologio svizzero. Ti concede circa trenta secondi di idillio per poi lasciarti in balia del vuoto, in cui ti rompi nello specchio sul quale avevi disegnato.

Mezzanotte, non hai più tempo. Lo specchio si rivela l’amara realtà che non hai mai voluto vedere, che hai sempre sfiorato senza mai vivere, è l’insicurezza che hai voluto toglierti di dosso ma che ti pulsa in cuore, che non puoi abbandonare. La vedi la luce sullo sfondo?

Un sogno che si allontana. Sei tu che non mi hai ascoltato, che non hai voluto prendermi per mano e dirmi: «la felicità non esiste ma esisti tu con una matita in mano che fai delle tue sporgenze quel che vuoi, che fai di me che ti guardo uno spettatore silenzioso nella Galleria degli Uffizi, che mi porti a vedere una stella cadente che racchiude la vita che tieni nel cassetto sinistro vicino al letto».

Che favola immacolata, che lieto fine tanto aspettato.

Ma sono frantumi. Solo cocci sparsi su un pavimento di carta.

Tu non ci sei, non ci sei mai stato, hai suonato alla porta di casa mia e una volata di vento ti ha portato via, un’onda del mare in inverno mi ha fatto credere che pronunciassi il mio nome ma era solo una goccia in un mare in tempesta.

Un giorno mi domandai se le anime si possano scegliere: mi piacerebbe andare al mercato e comprarne una estremamente attenta, loquace, non diffidente delle idee che mi possano nascere da un sorriso, che mi guardi con quell’aria spaventata che Dorian aveva quando guardava il suo dipinto, così terrorizzata e affascinata. Ecco, quanto vorrei un’anima che mi guardi così, che abbia una paura tale da divenire folle nel guardarmi, da dirmi «non c’è volta in cui ti guarderei e insieme smetterei di guardare, mi fai tremare per l’orrore della profondità dei tuoi occhi: dentro ci ho visto le verità che non mi sono mai detto».

Un occhio che nasconde un segreto.

Ma quanta voglia hai tu di guardarmi? Nessuna.

La felicità non si decide. È un rigido orologio svizzero. Ti concede trenta secondi e poi… ti accorgi che le lancette non ci sono, che i numeri sono infiniti ed il meccanismo sei tu: ingranaggio di qualcosa che non c’è e che ti sei illuso ti potesse dar sollievo dalla consapevolezza a cui non c’è riparo per solitudine di un uomo. Uomo che contempla un susseguirsi di stagioni, aspettando la brezza di un’estate che sembra profumare di felicità ma è solo l’ennesimo gelido inverno che non lascia altro che una lacrima ghiacciata sul viso.

Ricordatelo: la felicità non esiste.

La prossima volta che devi prendere una decisione: nasci e muori sola e mai nessuno verrà a trovare la bellezza che racchiudi dietro quella lacrima ghiacciata.

 

Ma a volte sono solo balle. La felicità non esiste perché ce la costruiamo noi. Pennello in mano ed egoismo nell’altra, prendiamo un ricordo piatto e lo distruggiamo, lo modelliamo, lo facciamo girare a ritmo di musica. Azzeriamo l’odio, l’insofferenza, la malinconia, tutti i “avrei potuto” e ci fermiamo.

Un secondo, in silenzio.

Guardiamoci negli occhi e nelle mani, guardiamo di nuovo per ricordarci che non va sempre tutto male, che non è una vita di merda la nostra, che non solo perché perdiamo per un attimo il volante della nostra strada allora tutto andrà in catafascio. Che anche se dentro abbiamo qualche fiore del male, possiamo comunque andare in un campo di margherite, che anche se non riusciamo più a parlare, possiamo comunque ascoltare la musica e stare in silenzio, che anche se non riusciamo più ad abbracciare non vuol dire che qualcuno non ci guardi le spalle.

Ricordiamocelo a vicenda, che magari qualche volta si perde di vista ma abbiamo ancora l’arte per salvarci dai nostri pensieri. 

Siamo felici, soprattutto adesso, soprattutto quando magari pensiamo di essere i soli a soffrire. L’arte non rimane perennemente la stessa, non esistono quadri riprodotti in serie: la felicità è il museo di quadri in cui ci muoviamo, non l’album di foto tutte uguali che guardiamo a lume di candela. Godiamoci le sfumature della nostra crescita, dei nostri sbagli, dei nostri segreti. Siamo tutti felicità ma dobbiamo avere il coraggio di provarla, perché a volte è molto più facile chiudersi nel dolore e nel silenzio e far finta che un quadro valga l’altro, che un profumo sia insipido e che uno sguardo sia vuoto.

Ricordiamocelo, che siamo artisti. Che a disegnare possiamo prenderla tutti la sufficienza. Magari anche con la lode.

 

[Ho voluto accodare ad un pezzo scritto tempo fa una continuazione, per ricordare anche a me stessa come basti togliersi dagli occhi cosa faccia male, per capire che non serva molto per trovare la propria arte. Non c’è nulla di più bello che stare nel proprio museo].

 Testo a cura di cecilia Capelli.