Aprile 2017

Io, in verità, non volevo sapere il tuo nome. Perché sapevo che se avessi saputo il tuo nome mi sarei sorpresa a pensarti, in un giorno qualsiasi, come oggi. Sono agitata, nervosa, ho mille cose da fare, pensieri per la testa ed ansie che chiudono lo stomaco. E tutto questo mi blocca. Solo un pensiero si muove e arriva a te. Lorenzo.

Lorenzo. Saperti per nome ti rende ancora più reale di come ti ha reso reale il tuo essere stato carne.

Il giorno dopo in cui ti ho incontrato, Lorenzo, pioveva. E una delle prime cose a cui ho pensato è stata che avresti dovuto sapere che non ti eri perso niente. Il cielo era grigio pieno di nuvole, piene di pioggia. Solo pozzanghere a terra e un autobus mi ha schizzato tutta l’acqua sporca di strada addosso. Sono arrivata in ospedale tutta bagnata. E continuavo a pensarlo, che in fin dei conti, non ti eri perso proprio nulla. Ma oggi, giorno in cui ti scrivo, c’è il sole, dopo giorni che piove, e sembra più luminoso, sembra più caldo. E non sono più sicura che non ti sei perso nulla.

Ci ho messo un po’ a capire cosa sentivo. Riesco a scriverlo solo ora, dopo troppi silenzi e troppi pensieri taciuti. Lo scrivo proprio oggi che c’è il sole, che ho mille persone da chiamare e a cui rispondere, mille pagine da studiare, un evento da organizzare. Radicata nel momento presente, la mia mente mi obbliga a ritornare indietro, perché lei sa che il modo per andare davvero avanti, a volte, è tornare indietro.

Ti ho incontrato al pronto soccorso, in una stanza condivisa con un settantenne miracolosamente vivo precipitato da sette metri di altezza. Eravate divisi da un solo paravento. Tu occhi chiusi, un tubo alla bocca, aghi nelle vene. I monitor scandivano i tuoi secondi. Il letto sembrava piccolo per te. Non ti muovevi. Forse sognavi. Chissà dov’eri.

Ti abbiamo aperto le palpebre. I tuoi occhi sono castano chiaro. Le tue pupille non reagiscono più alla luce. La specializzanda ritenta, mentre ci spiega il riflesso pupillare. Riprova da entrambi gli occhi. Nulla.
Ricordo di quando ero piccola: un giorno ero andata a giocare a casa di un’amica di mia sorella. Avevo tra le mani un delfino di gomma, e non so come lo spezzai in due. In modo irrimediabile. Non c’era più nulla da fare. Come quando uno prova a ricomporre il guscio di un uovo rotto, come quando uno ha sbagliato ad essersi tagliato i capelli, o come quando uno dice qualcosa ma subito se ne pente. Irreparabile. Il delfino spezzato, come un uovo che non si ricompone, i capelli che non crescono così veloci, le parole che non tornano indietro. Come le tue pupille che non reagiscono più. Se anche avessi usato lo scotch -pensai da bambina con il delfino spezzato fra le mani, ed ora di fronte ai tuoi occhi che non vedono più- si sarebbe comunque visto che era in due pezzi. Ti si sono rotti gli occhi, non si aggiusteranno più.

Ti ho auscultato i polmoni, dopo la specializzanda. Si sente che si espandono e che ritornano, con andamento ciclico. Mi vien spontaneo farti forza, perché sento chiaramente il suono del tuo respiro, e mi sento sollevata. Ma d’un tratto mi irrigidisco guardando in corrispondenza della tua testa un ventilatore che respira per te.
Il rumore delle macchine che ti tengono in vita, il tuo corpo nudo, così massiccio, di uomo appena fatto, eppure così vulnerabile e indifeso, totalmente dipendente dalle mani degli altri, come se avesse perso ogni forza e consistenza, ora che la tua mente e la tua volontà chissà dove sono. Le infermiere, con estrema dolcezza e premura si prendono cura di te. Ti girano da un lato e poi dall’altro per lavarti. Quanto amore ci mettono. Dopo profumi.

Clinicamente sei stabile, ma tu non ci sei. Dove sei?

Hai sangue in tutto il cervello e hai un tatuaggio sul braccio destro, di quelli grandi e colorati. I segni sulla pelle sono storie. Chissà se hai dovuto lottare con i tuoi genitori per potertelo fare, oppure se invece erano d’accordo. Chissà se hai dovuto discutere con loro per farti comprare quella moto. Chissà se hai una ragazza o l’hai mai avuto in questi tuoi 22 anni, se sei una brava persona, oppure se prendi in giro tutti. Chissà se ti piace studiare, oppure adori il basket. Chissà se sei mai stato in America, se qualcuno conosce tutto di te o c’è qualcosa di te che nessuno sa. Chissà qual è il tuo segreto o il gusto di gelato che preferisci. Come sorridi, o cosa ti fa ridere. Chissà qual è il suono della tua voce e se corri veloce. Oltre ai segni sulla pelle, forse anche le cose che non si sanno fanno le storie.

Sulla tua cartella clinica c’è scritto che i tuoi – chissà dove sono ora – sono informati del fatto che hai sangue in tutto il cervello. Se posso immaginare a malapena la pienezza dell’amore di un genitore verso il proprio figlio, tremo all’idea di cosa possa provare, un genitore, a perderlo.

Eri in moto e nel cervello avevi un angioma. Non si sa, né mai si saprà, se la sua esplosione è stata causa o conseguenza dell’incidente. Di certo anche le cose che non si sanno fanno le storie.

Non ti sei perso nulla nemmeno oggi in fondo. Con il tuo corpo qui, inerte, è difficile pensarti in un lì. Ma se esiste un posto dove davvero si può stare senza un corpo, ci dev’essere un bel sole, anche se piove. Un sole che scalda di sicuro più di oggi, di sicuro più di qui.