«La fame è il condimento del cibo», asseriva Cicerone: il sapore di ciò che si mangia, difatti, dipende da infinite variabili, non è mai qualcosa di oggettivo. La sensazione di fame, così come la giusta compagnia, un luogo incantevole, una ricetta che associamo a qualcuno che amiamo e, infine, il nostro stato d’animo modificano la percezione del gusto di un piatto. Dunque, la semantica del cibo non è universale; ciò vale anche in letteratura, in cui, spesso, un alimento si connota di un preciso significato che l’autore intende veicolare al lettore.
Pensiamo a uno dei libri più celebri della letteratura contemporanea americana, Le correzioni di Jonathan Franzen; qui si narra – tra le altre – la storia di Chip Lambert, un professore universitario che perde il lavoro per aver molestato un’allieva e che è, ormai, rimasto al verde. A un certo punto, Chip va al supermercato a fare la spesa, per preparare, obtorto collo, un pranzo con i genitori a casa propria, ma si accorge che il salmone che intende acquistare è eccessivamente caro. Dunque, piuttosto che pensare a una pietanza alternativa, sceglie di nascondere l’alimento nei pantaloni e di sopportare la sensazione terribilmente sgradevole, nonché una forte umiliazione, pur di mettere in tavola un piatto pregiato e non deludere i genitori, di cui è il pupillo. Il salmone, quindi, diventa l’emblema del fallimento del protagonista.
Nella collana di Andrea Camilleri, invece, i mustazzoli, il polpo prezzemolato, gli arancini e le altre ricette, a cui sono dedicate molte righe dei bestsellers dell’autore, costituiscono un ulteriore espediente narrativo, che, insieme alla presentazione dei luoghi e al ricorso al dialetto, serve a trasportare il lettore nella Sicilia di Montalbano, fino a fargli quasi gustare, tramite le descrizioni particolareggiate, i piatti che il commissario assapora.
Ancora, in Bar sport di Stefano Benni un “personaggio” indimenticabile è la Luisona, un dolce che giace nell’apposita teca da tempo immemore e che è una sorta di monumento, per gli assidui frequentatori del bar, i quali le hanno persino dato un nome.
Infine, è quasi d’obbligo menzionare le madeleines di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Nel libro, è proprio il sapore quasi dimenticato di questo dolce a permettere al protagonista, in un istante epifanico, di richiamare alla memoria la propria infanzia e di diventare impermeabile agli affanni del presente. Le madeleines, dunque, fungono da fortunata metafora che esprime il concetto di «memoria involontaria»:
«Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente?».