La tendenza all’apertura e all’integrazione di aree economiche al di là dei confini fra Stati nazionali non è stato soltanto un fenomeno europeo. Infatti nel 1992 Stati Uniti, Canada e Messico siglarono il NAFTA (North American Free Trade Agreement), mentre nel 1991 Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay diedero vita al Mercosud (Mercato Comune del Sud), uno spazio commerciale comune che avrebbe presto inglobato Cile e Bolivia, generando effetti positivi sulle esportazioni dei paesi aderenti.

In America Latina l’integrazione e lo sviluppo furono però frenati dalla cronica instabilità delle economie. Negli anni ’90 del ‘900 si ebbe un ritorno della democrazia, ma anche dell’inflazione e della crescita del debito estero. La situazione sembrò stabilizzarsi durante il decennio, partendo dai paesi più grandi e popolosi del continente. In Argentina il governo di ispirazione peronista guidato da Meném varò, contraddicendo le sue stesse basi ideologiche, una serie di ordinanze atte a garantire un energico risanamento finanziario. In Brasile la situazione si stabilizzò con la creazione di una nuova moneta, il Real, sotto la presidenza del socialdemocratico Fernando Cardoso, mentre il Cile diede un nuovo impulso alla crescita avviata sotto il regime di Pinochet, basato su una notevole apertura agli investimenti stranieri.

Anche il Messico si trovò protagonista di un’inaspettata quanto fragile crescita, avviata sulle premesse cilene. La fragilità venne messa a nudo quando, a cavallo tra il 1994 e il 1995, scoppiò una grave crisi finanziaria che portò alla nascita di un movimento di guerriglia detto “zapatista” (prese il nome di Emilio Zapata, eroe della rivoluzione messicana), animato dalle compagini più povere degli Indios stanziati nella poverissima regione del Chiapas.

Per i gradi paesi del Sud America (Brasile e Argentina), a partire dal 1998, si profilò una nuova crisi. Le cause di essa furono essenzialmente due: da un lato l’attenuarsi delle misure di austerità e il ritorno a politiche di spesa facile (il caso dell’Argentina alla fine del secondo mandato di Meném), dall’altro le difficoltà del sistema finanziario internazionale (rispetto al quale i paesi in questione erano fortemente indebitati) in seguito al dissolvimento delle Repubbliche socialiste sovietiche e soprattutto all’insolvenza della Russia. In Brasile gli effetti della crisi non furono così disastrosi, poiché il paese assorbì senza troppi traumi il passaggio dei poteri che si verificò nell’ottobre del 2002, con l’elezione a Presidente della Repubblica di Inàcio Lula da Silva, ex-operaio sindacalista leader del Partito dei lavoratori. La terra d’Argentina, dove i peronisti nel 1999 avevano scalzato i radicali di Fernando de la Rua, si inabissò invece in una gravissima crisi finanziaria. La scelta già attuata dal governo Meném di scongiurare l’inflazione ancorando la moneta nazionale al dollaro, finì con il frenare le esportazioni e col rendere impossibile il pagamento del debito estero. La crisi raggiunse il suo culmine nel 2001, quando il governo bloccò i depositi bancari, facendo scoppiare una violenta protesta popolare che costrinse De la Rua ad abbandonare la presidenza. Dopo un periodo di interregno molto caotico si ebbe una parziale stabilizzazione con le elezioni del 2003 che videro la vittoria del peronista Nestor Kirchner. Al contrario del passato, la crisi economica non compromise la tenuta delle istituzioni democratiche. Al contrario, si consolidò la tendenza alla stabilizzazione di quest’ultime, seppur in presenza di scontri per il potere drammatici e la sempre maggior vitalità dei movimenti populisti.

Tipicamente populista fu la spinta che portò al potere in Venezuela l’ex generale Hugo Chavez (coinvolto pochi anni prima in un colpo di Stato fallito) che consentì, l’anno seguente, l’approvazione mediante referendum di una nuova costituzione che rafforzava i poteri del Presidente della Repubblica, invano contestata dalle forze di opposizione che cercarono più volte di deporlo. Sviluppi contrari si videro invece in Perù, dove nel 2000 il presidente Fujimori venne deposto dal Parlamento e fu costretto a fuggire all’estero per non per non essere catturato. Le seguenti elezioni del 2001 videro la vittoria del progressista Alejandro Toledo, che aprì il paese agli investimenti stranieri, mentre un altro rivolgimento pacifico di portata storica si verificò in Messico, dove le elezioni del 2000 interruppero il dominio del Partito rivoluzionario istituzionale, che durava da più di settant’anni. A vincere fu il conservatore Vincente Fox, che esordì con alcune misure volte a combattere la corruzione e a risolvere la crisi del Chiapas con la concessione di maggiori autonomie agli Indios.