Esistono due opzioni per chi vuole raccontare Napoli: si può scegliere di aderire al solito cliché, fatto di pizza, mandolino, Vesuvio e Pulcinella, di un popolo che mangia, canta e scherza spensieratamente, oppure si può raccontare la dura realtà del capoluogo partenopeo ed esautorare la trita immagine cartolinesca che viene proposta da secoli. Ai due modelli di narrazione corrispondono anche due Napoli, sideralmente lontane: da una parte troviamo quella edulcorata, in cui ogni asprezza è smussata, mentre nell’altra troviamo una città che pulsa, vive e, soprattutto, soffre. È questa seconda dimensione che Anna Maria Ortese decide di mettere in scena nella sua raccolta più celebre, Il mare non bagna Napoli; nei cinque racconti l’autrice si fa occhio, diventa un osservatorio vivente sulla plebe e ne narra le condizioni di vita disagiate, le speranze, le delusioni, la forza d’animo. Il libro è dunque un viaggio – una catabasi – nell’inferno dei vicoli cittadini, finalizzato a conoscere e far conoscere l’altro volto di Napoli, quello che spesso è passato in sordina; un viaggio che, per la scrittrice, si configura anche come un cammino dall’impersonalità, caratteristica dei primi racconti, all’estrema soggettività degli ultimi due, i quali, nei piani dell’autrice, dovevano essere due inchieste.

L’ultimo reportage è un unicum: qui, difatti, nel mirino troviamo gli intellettuali napoletani e non più gli indigenti; la Ortese offre al lettore il ritratto di un drappello di uomini che un tempo si erano battuti per sprovincializzare la cultura e aprirla a nuovi orizzonti, avevano impugnato le penne e scritto l’orrore dei vicoli ma non hanno trionfato nell’ardua lotta per il progresso. La tecnica dell’autrice consiste nell’esasperare la loro sconfitta: Erri De Luca, a proposito della fotografia di Luigi Compagnone (uno di questi vinti), scrive addirittura che lo scrittore, dal racconto della Ortese, «esce tritato fino e impacchettato in hamburger. Una polpetta umana disossata con cura, senza malanimo, anzi qua e là con tocchi amorevoli». Dunque, malgrado la volontà della Ortese, l’ultima narrazione non ha tutte le carte in regola per essere considerata un’inchiesta tout-court, perché la realtà viene alterata, i ritratti si fanno impietosi e, a causa dell’esagerazione, inverosimili.

Ricordiamo che i soggetti di questi quadri sono persone in carne ed ossa, le quali, alla lettura del testo, si sono profondamente risentite; Il silenzio della ragione – questo è il titolo del quinto racconto – e, più in generale, il libro che lo ospita, hanno dato adito a un tornado di polemiche da parte sia degli intellettuali chiamati in causa sia dei difensori della provincia partenopea: Il mare non bagna Napoli, infatti, è stato considerato da molti un libro contro la città e ha comportato persino l’esilio dell’autrice dal capoluogo campano.

Nonostante le inesattezze e il tono soggettivo di alcuni racconti, la raccolta resta comunque una stella luminosa nel firmamento delle opere che hanno segnato il Novecento, nonché una tappa fondamentale nel cammino verso il reale che, partendo dal neorealismo napoletano, è giunto fino a romanzi come Gomorra di Roberto Saviano.

«Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, con lumi brillanti a cerchio […]; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali. Fu Mariuccia per prima ad accorgersi che la bambina stava male, e a strapparne in fretta gli occhiali, perché Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava».

(Un paio di occhiali, da Il mare non bagna Napoli)