«Non esistono fatti, solo interpretazioni».

Così uno tra i più grandi filosofi del secolo scorso ha scritto in un suo aforisma. Sembrerebbe una frase innocua, universalmente riconoscibile, basti pensare alla quantità di gusti culinari di ognuno. Le conseguenze che questa affermazione ha avuto nella storia del pensiero sono state notevoli. Tra le diverse correnti due in particolare hanno interloquito con la posizione nietzschiana: il post-modernismo e l’ermeneutica. Ecco che allora, dalla bella Torino, pochi anni fa, si è levata una voce di risposta a queste tesi: nel 2012 Maurizio Ferraris ha pubblicato una raccolta di saggi, dal titolo eloquente: Manifesto del nuovo realismo. Non voglio indagare le implicazioni filosofiche di questo testo o la portata del ritorno del tema del realismo, per la complessità del discorso che implicherebbe. Quello che vorrei portare alla luce e alla attenzione è un dato molto semplice, che riguarda e richiama la vita di ognuno di noi. In un mondo incerto e mutevole, che sembra non dare più alcun tipo di sicurezza, pensatori provenienti da contesti culturali molto diversi ritornano insieme su un dato comune: la realtà si impone. Oltre ogni pensiero, oltre ogni interpretazione o posizione, c’è uno zoccolo duro dell’essere – come lo definisce Umberto Eco – che non può essere eliminato. Proprio nel suo saggio Eco fa un esempio interessante e altrettanto semplice, richiamando un dialogo con un altro filosofo, Richard Rorty.

«Richard Rorty – allargando il discorso dai testi ai criteri d’interpretazione delle cose che stanno nel mondo – ricordava che noi possiamo certo interpretare un cacciavite come strumento per avvitare le viti ma che sarebbe altrettanto legittimo vederlo e usarlo come strumento per aprire un pacco. Nel dibattito orale Rorty alludeva al diritto che avremmo d’interpretare un cacciavite anche come qualcosa di utile per grattarci un orecchio».

Siamo qui dunque arrivati al punto critico del nostro ragionamento: laddove si ammettesse che posso usare un cacciavite per grattarmi l’orecchio avrei dunque eliminato ogni legame con la realtà che mi trovo di fronte: appunto, il mio orecchio.

«Un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi dentro l’orecchio, perché è appunto tagliente, e troppo lungo perché la mano possa controllarne l’azione per una operazione così delicata; per cui sarà meglio usare un bastoncino leggero che rechi in cima un batuffolo di cotone. C’è dunque qualcosa sia nella conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite che non mi permette di interpretare quest’ultimo a capriccio. […] Tornando al cacciavite di Rorty si noti che la mia obiezione non escludeva che un cacciavite possa permettermi infinite altre operazioni: per esempio potrei utilmente usarlo per uccidere o sfregiare qualcuno, per forzare una serratura o per fare un buco in più in una fetta di groviera. Quello che è sconsigliabile farne è usarlo per grattarmi l’orecchio. Per non dire (il che sembra ovvio ma non è) che non posso usarlo come bicchiere perché non contiene cavità che possano ospitare del liquido. Il cacciavite risponde di SI a molte delle mie interpretazioni ma a molte, e almeno ad una risponde di NO».

Tutto questo complesso discorso filosofico può forse essere parafrasato in un semplice esempio di vita quotidiana. Tutti i giorni per andare in università a Milano devo percorrere un tratto di strada a piedi. Non si tratta di un tragitto lungo, ma di fatto molto bello: dopo aver costeggiato il carcere di san Vittore mi trovo circondata da ville antiche e, spesso, da macchine molto costose. L’immagine dei milanesi frenetici e scorbutici già di prima mattina è assolutamente confermata dalla realtà dei fatti, quindi, come ogni mattina mi ritrovo a camminare spedita, spesso poco curante di ciò e di chi ho attorno. C’è un dettaglio però che in questa descrizione manca e mi piacerebbe sapere, se ognuno di voi potesse venire con me una mattina, quanti saprebbero dirmi che cosa non ho riportato. Ai cigli delle strade, alle entrate dei negozi o dei bar lussuosi ci sono dei ragazzi che silenziosamente mendicano. È ormai un anno che tutti i giorni percorro la stessa strada, con alcuni di loro mi è capitato di scambiare anche due parole, ma con altri mi sono sempre limitata a un sorriso e un saluto nella frenesia delle mie mattine in ritardo. Qualche giorno fa, presa come ero dalla giornata iniziata troppo tardi per una sveglia mancata e i messaggi insistenti di un’amica che mi stava aspettando in università, ho passato il tragitto con lo sguardo incollato al mio telefono. Finché, a un certo punto, sento una voce alle mie spalle “Ei ragazza, ei? Ei?”, mi volto e il ragazzo di colore si stava sbracciando per salutarmi e richiamava a sé tutta la mia attenzione. Quella mattina sono stata strappata dai miei pensieri e dalle mie preoccupazioni dal saluto di quel ragazzo che instancabilmente mi richiamava a un mondo – alla realtà, bellissima – che mi aspetta fuori dalle mie interpretazioni già iniziate alle 8 di mattina.