30 Ottobre 2015 | Vorrei, quindi scrivo
Sono di questi giorni i dati ISTAT che parlano di una luce in fondo al tunnel. Bankitalia alza le stime sul PIL, portandolo all’1% dopo che si attendeva una crescita di solo qualche decimale. L’economia italiana sembra in ripresa, come non si vedeva dai livelli pre-crisi, la peggiore delle crisi affrontate dal secondo dopo guerra ad oggi. Questo inizio di ripresa si riflette nell’aumento dei consumi: più spese, più merce in circolazione, più guadagni per le azienda, più investimenti, più lavoro. Una catena perfetta, almeno a livello teorico, fin tanto che non ci si ricorda che gli attori protagonisti non sono macchine, ma esseri umani dotati di intelletto e possibilità di scelta.
Questi alti e bassi a livello economico si ripetono nella storia. Le scenografie dove si sviluppano sono ogni volta differenti, però gli attori sono sempre persone umane che, con forme e mezzi differenti, hanno sempre portato in cuor loro quelle dinamiche razionali e emozionali tipiche della specie.
Era molto tempo fa quando tre fratelli litigavano per l’eredità lasciata loro dal padre. Ventitré cammelli, per testamento, erano da spartire in ordine decrescente di età: la metà al maggiore, un quarto al figlio di mezzo e un sesto al minore. Le grandi discussioni si conclusero quando un servo del padre, vedendo gli eredi discutere e litigare animosamente in quanto non comprendevano come potessero realizzare la metà di ventitré cammelli, decise di donare loro il suo cammello, frutto di una sacrificata vita di risparmi. Con ventiquattro cammelli, dodici andarono al maggiore, sei al figlio di mezza età e quattro al più piccolo. Dodici, sei e quattro rispecchiano la spartizione voluta dal padre, ma la loro somma è ventidue. Quindi due cammelli andarono al servo.
Questa piccola storiella catapulta l’essere umano in un’economia etica, basata sulla magnanimità e sul dono, dove ciò che è donato torna sempre indietro, spesso in misura maggiore alla quantità iniziale. Infatti il servo ha visto risolversi il dibattito tra i tre fratelli e ha riavuto il suo animale, ricevendone in più un secondo.
Nella società individualistica in cui viviamo, il personalismo del servo (l’uomo è sempre al centro, ma non solo in relazione con se stesso, ma con gli altri) mostra come l’amore, la gratuità e la benevolenza verso il prossimo possano essere basi per un’etica economica dove l’essere non vuole tutto, ma dà tutto per il bene comune. Infatti, la risoluzione del litigio tra i fratelli diede continuità all’attività iniziata dal padre, quindi tutti i contadini e servi continuarono a lavorare presso il podere in un clima disteso, dove la realizzazione di ognuno e il manifestarsi dei talenti di ciascun lavoratore si manifestarono giorno dopo giorno.
Perché al centro delle relazioni non mettere amore e amicizia di fronte alla egocentrica voglia di saziare un’aspirazione pecuniaria e terrena? Forse, anche in caso di discussione o idee differenti, una scelta personalistica metterebbe al centro la persona e non se stessi. Metterebbe al centro il vivere nel rispetto dell’altra persona che, sebbene questa non rappresenti il proprio ideale di simpatia, può certamente contribuire a una società più ricca di attenzione e riguardo verso l’altro a modo proprio.
In un capitolo particolare del ventunesimo secolo come quello che stiamo scrivendo, scegliere un’economia di cuore e intelletto magnanime, rappresenta non solo una piccola ripresa come mostrato dai dati ISTAT, ma certamente una rivoluzione economicamente copernicana. E il paragone non è scontato perchè le persone coinvolte in un’economia civile e di comunione sarebbero l’universo di persone che popolano l’intero pianeta.
E’ passato il tempo delle sole parole. Per cambiare è necessario mettere in pratica il dire ed elevarsi dalla diffusa ignavia già ben conosciuta in periodo dantesco. Maria De Filippi non piace a nessuno, ma quanti la spengono?
E’ terribile dare ragione a Amartya Sen: “Il vero uomo economico forse è in effetti vicino al vero idiota sociale.” E’ meraviglioso affermare che l’uomo economico figlio di un’economia civile e di comunione è un intelligente sociale.
27 Ottobre 2015 | Vorrei, quindi scrivo
Cari adulti, anzi, cari bambini degli anni ’50, ’60, ’70, ’80. Voi che, da quanto raccontate, andavate a dormire dopo Carosello. Che siete cresciuti leggendo le strisce dei Peanuts, che c’eravate quando i Beatles si sono sciolti e avete visto nascere i Queen.
Voi che, in molte occasioni, non resistete alla tentazione di osservare i bambini e gli adolescenti di oggi, e di paragonare i primi anni della vostra vita ai loro, decretando quasi sempre che la vostra infanzia è stata “migliore”, più sana ed autentica di quella che si vive oggi.
Noi, i bambini degli anni 90 e tutti i nati nel nuovo millennio, vi sentiamo spesso affermare come, sotto mille punti di vista, qualche decina d’anni fa si crescesse meglio, più responsabili, più socievoli, con un’educazione più severa e più efficacie.
Quando eravate piccoli voi non c’era internet da cui copiare i compiti. Di certo Wikipedia ha aperto un mare di possibilità a noi studenti moderni, ma non provate a convincerci di non aver mai fatto un “copia e incolla” ante litteram da un’enciclopedia o da un articolo di giornale.
Non c’erano intolleranze alimentari, bevevamo tutti dalla stessa bottiglietta e non era un problema per nessuno, tornavamo a casa con le ginocchia sbucciate e nessuno se ne preoccupava. Prendete un gruppo di bambini di oggi e lasciateli liberi dall’influenza dei genitori per un pomeriggio. Perderanno tempo a cercare dei bicchieri? Smetteranno di giocare per disinfettare una ferita? Se sono obbligati a farlo è quasi sempre a causa di un genitore. E proprio quel genitore fa parte della generazione dei “bambini sani e non iperprotetti” degli anni ’50, ’60, ’70, ’80.
Nessuno era dislessico, disgrafico o iperattivo. C’erano semplicemente quelli che a scuola non brillavano, e nessuno andava dallo psicologo per questo. Chi era lento a leggere faceva un lavoro che non lo richiedesse, mica bisogna essere tutti medici o avvocati. Anche oggi c’è chi a scuola non brilla. Ma ci sono anche bambini con un disturbo specifico dell’apprendimento, ed è troppo facile dirsi che se la caveranno anche così. Guardate un bambino disgrafico mentre scrive. Che conosce e ripete a voce alta le lettere che compongono una parola ma non riesce a ricordare che forma abbiano, oppure lo ricorda ma non sa fare movimenti abbastanza precisi da scrivere i grafemi correttamente. Dategli un’occhiata, e pensate se davvero lo si può definire solo “lento a scrivere”.
Guardate l’ambiente in cui un bambino di oggi nasce e si trova a vivere, sforzatevi di osservarlo uscendo dal vostro punto di vista, dai vostri ricordi splendidi, forse (e giustamente) un po’ idealizzati. Cercate di vedere l’infanzia di oggi anche nei suoi aspetti positivi. Perché sì, voi avete passato più tempo all’aria aperta, e sì, non comunicavate con gli amici se non faccia a faccia. Ma questa non è una sfida generazionale.
Apprezzate, e lasciateci apprezzare, le possibilità che crescere in questi anni ci ha dato e ci dà. Non spingeteci a vivere la maggiore attenzione che c’è nei confronti di certi disturbi, la possibilità di comunicare con ogni parte del mondo, la nostra capacità di ragionare davanti ad un computer, come qualcosa di negativo.
Lasciateci sfruttare ciò che il terzo millennio ha da offrire, così come voi avete fatto con gli anni in cui “eravate piccoli”. E se tra qualche decennio ci lamenteremo dell’infanzia del 2040, spero che qualche nuovo bambino ci farà vedere il suo punto di vista.
18 Ottobre 2015 | Vorrei, quindi scrivo
http://isabellasalvetti.it/project/due-piedi-sinistri/
Un gruppo di amici e un pallone. Un mito: Francesco Totti. Due piedi sinistri e una disabilità, fisica. Scherzi, risa e sfottò per un breve cortometraggio girato nella città eterna che in pochi minuti rende interna una condizione fisica vinta da un cono gelato.
15 Ottobre 2015 | Vorrei, quindi scrivo
C’erano una volta un popolo che aveva tanta fame e un Dio, il Genio Buono, che non sapeva cosa fare per sfamarlo. Frustrato per la sua impotenza, si strappò i denti e li buttò al vento. I denti si trasformarono in chicchi bianco opaco e tondi, riuscirono a sfamare il popolo che aveva tanta fame e gli venne dato loro il nome di riso appiccicoso.
C’erano una volta una bellissima fanciulla indiana di nome Retna e un Dio di nome Shiva che la sposò. Come regalo di nozze, Retna chiese al Dio di sradicare la fame tra i suoi connazionali, ma la promessa non venne mantenuta, nonostante la fanciulla continuasse a stare a fianco della divinità. Per la disperazione, Retna si gettò nel Gange, dalle cui acque sacre germogliò il miracolo: dalla sua anima nacque una pianta, con la quale tutto il popolo si riuscì a sfamare, grazie ai suoi chicchi snelli e allungati, che oggi si vendono sugli scaffali dei supermercati, con il nome di riso Basmati.
Il riso è la pianta cerealicola più diffusa al mondo, coltivata soprattutto in Asia e Africa, dove circa 795 milioni di persone, ogni giorno, soffrono la fame. Non a caso, infatti, la Cina, l’India, l’Indonesia in Asia e l’Egitto e il Ciad in Africa sono i Paesi dove si ha la maggiore produzione di riso di tutto il mondo.
La mitologia, sostenuta da esplicite attuali evidenze, sembra suggerirci che il rimedio alla fame sia il riso.
Il riso viene consumato in tutto il mondo: dalle terre più remote dell’Africa, dove il riso è sopravvivenza, alle tavole più imbandite degli Occidentali, dove il riso è la base di un ottimo risotto.
Esistono 120.000 varietà differenti di riso, con origini, caratteristiche morfologiche e nutrizionali diverse.
Sembra che il riso sia nato nell’estremo oriente, e poi diffuso in Africa grazie alle carovane degli arabi dalla Mesopotamia, in Europa grazie ad Alessandro Magno, che lo portò in Grecia di ritorno da uno dei suoi viaggi in India, in America dopo la sua stessa scoperta, portato dai conquistatores.
Un chicco di riso può essere allungato e snello, oppure corto e tondo. Può essere bianco, perlato o nero. Può essere più o meno resistente alla siccità.
Cento grammi di riso contengono 362 calorie, un notevole quantitativo di fibre, vitamine, sali minerali e acidi grassi essenziali: è uno degli alimenti più nutritivi che ci sia.
Il riso è il punto di ri-partenza. Il riso salverà il mondo.
Se non ci credete, rovesciate la medaglia: anche per quella parte di mondo che da tavola si alza sempre quando è sazio, il riso la salverà. Loro si alzano e siedono, nella maggior parte dei casi, con una costante: l’assenza di riso.
In un modo o nell’altro, in un mondo o nell’altro, il riso ci salverà.
Ylenia Arese
12 Ottobre 2015 | Vorrei, quindi scrivo
Aveva sempre creduto che gli occhi non potessero scegliere, che fossero fatti per posarsi sul mondo e assorbire tutto ciò che si trovassero di fronte. Ora invece capiva che gli occhi degli uomini avevano un potere strano, nuovo, un potere brutalmente selettivo: potevano ignorare, saltare i pezzi di mondo che non gradivano, scartare i punti più stonati. E lui era un pezzo stonato.
Tacchi, cani al guinzaglio, scarpe sportive, qualche gamba di donna in gonna, buste della spesa dall’aspetto pesante, fogli svolazzanti dalle tasche di passanti fino al pavimento lucido dei portici. Questo lui lo vedeva bene, lo osservava ogni giorno, da tre mesi ormai. Era ancora parte del mondo, anche se lo conosceva ormai soltanto dalla cintola in giù. Aveva perso in altezza, si era adattato a quella del suo umido cartone, ma non in gradi di vista. Osservava. Del resto, che avrebbe dovuto fare?
Poi un giorno si accorse di vedere male, ma credette si trattasse solo della nebbia di alcune mattine torinesi, e, appoggiata la testa al muro, si lasciò andare al sonno. Presto la vista peggiorò e per giorni non vide che macchie color pastello passeggiargli dinanzi e, per non sentire troppo il peso del tempo, si divertiva a distinguere le sottili gambe femminili da quelle degli eleganti uomini che le accompagnavano. Quando smise di vedere del tutto si toccò le palpebre e si accorse che restavano ormai sempre semiaperte, ma di fronte era un grigio annebbiato.
Capì che tutta la sua storia si giocava in questo, in un depotenziamento degli occhi. Lui si opacizzava agli occhi degli altri e questi di dissolvevano nelle sue pupille annebbiate. Era un gioco di indifferenze, una promessa di cancellazione. Lo stavano cancellando dal mondo in cui le persone si vedono, si scrutano, si sorridono con lo sguardo, si spiano, si guardano negli occhi o vi celano cattivi pensieri. Lo avevano privato di tutte le dimensioni del vedere, fino a ridurlo alla cecità. Chi si accorge di non esser visto, di sfuggire agli occhi delle persone, perde di consistenza in se stesso, si sente privato dello statuto dell’esistenza, e chi non esiste, non può nemmeno vedere.
Si dissolse del tutto in una notte di primavera. Nessuno se ne accorse.
Simona Bianco
3 Ottobre 2015 | Vorrei, quindi scrivo
“Pies para qué los quiero si tengo alas pa’ volar”.
(“Cosa me ne faccio di voi piedi se ho le ali per volare”).
Questo si chiede Frida Kahlo, pittrice messicana nata all’inizio del 1900, nel diario in cui ci apre le porte della sua vita. Una vita non sempre felice, una vita che l’ha fatta soffrire, una vita che le è spesso stata d’ostacolo, una vita che l’ha obbligata ad affrontare dolori e umiliazioni, ma una vita, sempre e comunque, vissuta al massimo e amata con tanto coraggio.
Magdalena Carmen Frieda Kahlo y Calderòn nasce a Coyoacàn, Messico, nel 1907, anche se nel corso degli anni disse di essere nata nel 1910, anno dell’inizio della Rivoluzione messicana, di cui si sentiva figlia. Fin dalla nascità soffrì di spina bifida (all’epoca scambiata dai medici per poliomelite) e a questo dolore fisico se ne aggiunsero presto altri. All’età di diciott’anni, infatti, venne coinvolta in un incidente tra un autobus e un tram a seguito del quale fu costretta a letto col busto ingessato per diversi anni e che la costrinse, nel corso della sua vita, a sottoporsi a 32 interventi chirurgici. Inoltre, durante l’incidente, una sbarra di metallo le attraversò il ventre e questo le causò, negli anni a venire, numerosi aborti. Gli anni passati a letto, però, non furono infruttuosi; iniziò infatti a dipingere (soprattutto autoritratti grazie ad uno specchio che i genitori le avevano messo sul soffitto del letto a baldacchino) e, una volta ricominciato a camminare (pur con difficoltà), portò questi dipinti a Diego Rivera, illustre pittore dell’epoca, che ne rimase meravigliato e che, oltre a presentarle i personaggi artistici più rilevanti di quel periodo, la fece entrare nel Partito Comunista Messicano, contribuendo ad aumentare il fuoco ribelle e indipendente già presente nell’animo di lei. Qualche anno dopo, nel 1929, i due si sposarono, ma questo matrimonio aggiunse altre sofferenze nella vita di Frida a causa dei frequenti tradimenti di lui. Ma uno dei più grandi dolori per la pittrice fu quello di non aver avuto figli, a causa del famoso incidente. A questi dolori emotivi possiamo aggiungere le molte difficoltà fisiche a cui andò incontro, quali l’amputazione di una gamba a causa della gangrena e l’embolia polmonare che la uccise, a soli 47 anni, nel 1954. Nonostante tutto e, anzi, forse anche grazie a questi ostacoli, il suo talento per la pittura crebbe a dismisura, e così anche la sua produzione artistica. In ogni dipinto lei raffigura la sua realtà e il suo mondo, narrandoci il suo dolore ma anche la sua incredibile forza e il suo enorme coraggio. A causa della particolarità dei suoi dipinti e dei molti simboli presenti, venne definita da André Breton “una surrealista creatasi con le proprie mani”, ma lei, che del Surrealismo diceva: “è la magica sorpresa di trovare un leone nell’armadio, dove eri sicuro di trovare le camicie”, non si sentiva rappresentata da nessun movimento artistico e affermava di dipingere, molto semplicemente, quella che era la sua realtà e, quindi, la sua vita.
Frida Kahlo ci ha narrato tutta la sua esistenza nel suo diario ma, soprattutto, tramite i suoi numerosi dipinti. Fu una donna che venne spezzata, come succede purtroppo ancora oggi, sia nel fisico che nell’animo. Fu una donna che, sin da giovane, visse attivamente la politica e la storia del suo Paese, fu una donna che seppe sempre come rialzarsi, fu una donna che, nel suo diario, dopo l’amputazione della gamba, scrisse: “spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai più”. Un grido di dolore, più che comprensibile, da parte di una donna che venne ferita, calpestata, umiliata, tradita, derisa, quasi uccisa dall’uomo che amava, dal mondo in cui viveva e dalla sua stessa esistenza. Ma un grido di dolore che viene smentito, solo otto giorni prima della morte della pittrice, da un dipinto, ancora una volta diario dell’animo di Frida, in cui lei dipinge una sorta di natura morta con frutti tropicali e in cui, con il coraggio e la vitalità che la caratterizzavano, molto semplicemente scrive:
“VIVA LA VIDA”.
Cecilia Dutto