23 Gennaio 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Amo i collegamenti nascosti. Ok, si, l’ho detto e non mi pento. In fin dei conti perché dovrei pentirmene? Non ho preso in giro nessuno, non ho nemmeno offeso nessuno, forse i collegamenti diretti, ma se ne faranno una ragione. Quelli nascosti sono i migliori, sono lì sotto i nostri occhi, non ce ne accorgiamo fino a che una epifania non ce li porta alla luce. Che bagliore! Si fa per dire ovviamente, ma eccone un esempio che mi è molto caro, un video che collega della semplice carta a dei pannelli solari, passando per la matematica. Un chiaro esempio che dietro al banale può nascondersi l’immenso. Buona visione.( sono presenti i sottotitoli in italiano)
12 Gennaio 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Una delle poche certezze del relativismo sterile nel quale viviamo è la sete di informazione che pervade ognuno di noi al fine di sentirsi realmente parte del mondo. Questo desiderio si mostra ogni giorno nello sfogliare ossessionatamene un giornale leggendone solo i titoli, nel guardare il telegiornale più volte, nel seguire il radio giornale non appena si è seduti in auto e nello sfogliare in modo assiduo le innumerevoli testate online quasi a non sentirsi mai totalmente appagati. Si vuole avere notizia di ogni movimento del proprio vicino di banco, di quale voto ha ricevuto il compagno in un compito in classe o di cosa il direttore ha comunicato privatamente al collega della scrivania a fianco.
Qui non si tratta di conoscere quanto succede a solo titolo informativo. Qui c’è da saziare un vuoto interiore. Un vuoto che non riempito lascia irrequieti.
I nostri antenati latini già avevano colto quest’aspetto che appare per lo più dimenticato. La parola informazione, infatti, deriva dal latino informatio(-nis), dal verbo informare, nel significato di “dare forma alla mente”. Ovvero dare forma a quell’insieme di funzioni superiori del cervello che ci permettono di vivere da umani, cioè da uomini in quanto tali. Quindi dare forma alla mente è cogliere quanto comunicato dall’ambiente esterno. Di certo è un’opera che solo singolarmente si può iniziare a realizzare su stessi. Solo decidendo di cogliere gli input ambientali e facendoli propri si comincia a formare la mente personale. L’informazione è capire, conoscere, criticare. E’ rendersi conto delle coordinate spazio temporali in cui si vive. L’informazione è anche sognare, realizzare. L’informazione è amare se stessi.
1000miglia crede fortemente nell’idea che i giovani siamo molto migliori di quanto si pensi. Non bisogna però cadere in una rappresentazione ideologica nell’altro senso. I ragazzi possono lasciare il segno solo se si informano di se stessi, conoscono se stessi. In altre parole, solo se iniziano ad amare se stessi, a prendere consapevolezza dell’ambiente esterno in cui vivono e attraverso le proprie capacità trasformano gli input ricevuti in vita quotidiana attiva. Se non ci fosse questa volontà di guardare il mondo esterno con occhi da sognatore, certi dei propri talenti e limiti, si annienterebbero quelle molteplici vie (pluralismo) percorribili da ognuno per rendere il mondo migliore di come lo si è trovato. L’esistenza di queste vie non determina la chiusura verso l’altra persona, anzi, il contrario. Porta a una piena apertura di se stessi verso l’altro e a una conoscenza sincera dell’altro perché si mostra così la verità più grande: la persona stessa con le sue esperienza, credenze e convinzioni.
L’informazione, quindi, è alla base della vita umana. E’ base per quei giovani che amano la propria giornata e nel cuore conservano, oggi, un sogno per il domani. L’informazione pluralistica è dispari. Infatti ammette una varietà di personalità, idee e opinioni così ampia che permette di affiancarsi con empatia ai propri amici, famigliari o a chiunque si incontri per strada, sicuri che il modo di presentarsi dell’altro è verità. Ossia che l’altra persona non è null’altro che se stessa perché sa chi è.
Non è facile intraprendere questo percorso, sopratutto per un’associazione giovane come 1000miglia, composta da ragazzi ai primi anni di università. Però è bello. E’ meraviglia avere il desiderio di annunciare che esiste una bellezza giovane che intende parlare dei giovani, informare per continuare a sognare. Una piccola forza giovanile che non vuole diventare cultura, ma vuole infondersi nelle varie culture perché ognuno possa informare il mondo della propria esistenza, cioè dire al mondo: “Sì, io esisto e di me tu, mondo, non ti dimenticherai.”
Luca Lazzari
PS: essere dispari nell’anno della misericordia è vivere con gioia nello stanco vivacchiare quotidiano. E la cosa sorprendente è che la misericordia non è solo per i credenti (http://www.profduepuntozero.it/2015/12/08/la-misericordia-non-e-solo-per-i-credenti/)
3 Gennaio 2016 | Vorrei, quindi scrivo
http://https://www.youtube.com/watch?v=FkitFVoxofw
L’americana Susan Cain, abile scrittrice e brillante avvocato, pubblica nel 2012 il libro intitolato “Il potere degli introversi”. In una società che ci persuade, fin dai nostri primi passi all’interno di essa, a credere che la modalità giusta di porci al mondo è l’estroversione, Susan ci dice che dobbiamo avere il coraggio di mantenerci noi stessi e di preservare l’attitudine di molti alla introversione. Dalla solitudine, infatti, sono nate le più memorabili rivoluzioni.
Ylenia Arese
27 Dicembre 2015 | Vorrei, quindi scrivo
Un gioco, a mio parere, per essere considerato un capolavoro sotto tutti gli aspetti deve riuscire a “toccare le corde dell’anima” del gamer. Mi spiego: esso deve diventare parte stessa della vita della persona, deve essere recepito come un’esperienza compiuta e deve essergli d’aiuto nella vita. Vi sono pochi titoli che, a mio modesto parere, possono fare ciò e voglio portare alcuni esempi di videogames che mi porterò sempre dietro. Uno dei tanti che mi ha insegnato com’è il mondo, la vita reale e come si svolgono le interazioni tra persone è stato “Final Fantasy XI”. Questo titolo è un j-rpg ovvero un gioco di ruolo di stampo giapponese (da non confondere con i gdr occidentali che presentano caratteristiche diverse, come si può osservare ad esempio in Fallout) che presenta meccaniche di gioco semplici, che anche un bimbo di 9 anni potrebbe comprendere, dunque è facilmente accessibile a tutti, ma esso rappresenta con queste sue meccaniche un’interpretazione semplicistica del mondo e da ciò un bambino può intuire com’è che è strutturata la “realtà esterna”.
Come già citato in precedenza un altro gioco che rimarrà sempre nel mio cuore è Fallout, uno dei più bei gdr mai prodotti della Bethesda. Grazie alle molteplici e continue scelte che devono essere affrontare dal giocatore, che si suddividono quasi sempre in buone, cattive e neutre, egli può comprendere la sua indole. Inoltre può proiettare se stesso o chi vorrebbe essere in questo titolo immedesimandosi in un personaggio, che risulta essere plasmato, da colui che detiene il controller, fin dalla sua nascita. Insomma si può essere essi stessi oppure chi si vorrebbe essere e tutto ciò può cambiare la trama è condurre ad uno dei tanti finali previsti. Un altro titolo che ho ammirato molto è “Halo”, sopratutto il terzo e il prequel “Halo Reach”.
I videogiochi possono anche insegnare. Con ciò non si vuole affermare che i videogame possano sostituirsi ad insegnanti e libri, ma che si possano affiancare ad essi. “God of War” ad esempio è utile poiché insegna la mitologia greca essendo ambientato nella Grecia del 400 a.C. “Dante’s Inferno” invece immerge il giocatore nell’Inferno descritto da Dante, con relativi personaggi e mostri presenti nella Divina Commedia. Giocandoci il bambino e/o ragazzo impara indirettamente nozioni di cultura generale come gli dei dell’Olimpo e i relativi miti ad essi collegati o i nomi e le pene che vi sono nell’ inferno dantesco. “Nazi-Zombie”, modalità multiplayer contenuta all’interno dei vari “Call of duty” 5,7 e 9 invece stimola la collaborazione tra i vari membri della squadra: è impossibile sopravvivere a ondate sempre crescenti di non morti da soli. In questo modo il videogiocatore socializza con le altre persone anche di nazionalità diverse e si diventa così “amici”. In questo modo il videogiocatore impara che la collaborazione è un elemento fondamentale se si vuole riuscire in un’ impresa.
Alcuni videogiochi riprendono anche filoni letterari come ad esempio la letteratura distopica o fantascientifica. Un esempio di gioco distopico è “Wolfenstein: the new order” nel quale si immagina come sarebbe il mondo se la Seconda Guerra Mondiale fosse stata vinta dai tedeschi. La situazione politico-sociale è la stessa presentata da Orwell in 1984: una società oppressa da un controllo soffocante, continue rastrellazioni, nessuna libertà di pensiero e di opinione e il potere in mano ad un singolo partito politico; questi sono gli elementi che legano questo testo al videogame. Un gran numero di giochi invece riprendono l’altro filone, ossia quello fantascientifico come ad esempio “Halo”, che è ambientato nel 2264, un futuro in cui l’uomo ha colonizzato metà dell’universo, oppure “Killzone”, ambientato nel 2100 circa in un mondo iper-tecnologico.
Si può affermare infine che il videogioco, al di là del suo scopo primario, il divertissment, presenta dei lati “oscuri”, visibili solo se si ha un certo grado di maturità e cultura. Esso non è né totalmente negativo né totalmente positivo. Presenta aspetti costruttivi, come la spinta alla collaborazione, e distruttivi, come ad esempio i videogiochi il cui unico scopo è distruggere o uccidere per il puro piacere di farlo.
Bisogna comunque sempre ricordare che i videogiochi rimangono videogiochi e non sono realtà. Confondendo videogioco e realtà si rischia di perdere l’inibizione che le regole sociali e comportamentali ci impongono per vivere in una comunità di persone. Nel videogame infatti non si è costretti a seguire regole ma queste le crea il videogiocatore stesso.
A mio parere videogiocare è bene, ma con coscienza e moderazione al fine di non confondere realtà e finzione, e di interpretare (in modo personale) il messaggio che essi ci voglio trasmettere.
Daniele Dutto
14 Dicembre 2015 | Vorrei, quindi scrivo
“Sarà difficile diventar grande
prima che lo diventi anche tu
tu che farai tutte quelle domande
io fingerò di saperne di più
sarà difficile
ma sarà come deve essere
metterò via i giochi
proverò a crescere”
A modo tuo, dicono Elisa e Ligabue ai loro figli. Una delle più belle dichiarazioni d’amore sottoforma di poesia musicata. Ma non è solo amore: dedizione e sforzi, paure e insicurezze. Perché essere genitore, lasciano intendere loro e tutta la retorica del nostro mondo, rimane il mestiere più duro al mondo.
Binario 1, treno delle 18.12, proveniente da Limone Piemonte, direzione Torino Porta Nuova. Cambio a Fossano, binario 7. Salgo, mi siedo, accanto a me un posto vuoto, ma solo più per poco. Un controllore lo indica ad una donna sulla sessantina, che si avvicina, insieme ad un’altra donna sulla cinquantina. Occhi piccoli e vuoti. Un principio di cifosi affossa la sua testa nella gabbia toracica. Nella mano, un’altra mano, quella della donna di sessant’anni. La donna di cinquant’anni siede accanto a me, il posto finestrino. Mi rivolge la schiena, sembra che abbia paura di me, oppure che sia estremamente timida. La donna di sessant’anni le dice di sbottonarsi il giubbotto: ci prova, ma non ci riesce. Lei la aiuta. Le chiedo se vuole sedersi, ma con tutta la dignità di questo mondo mi dice di no e rimane appoggiata alla porta.
La donna di cinquant’anni non scandisce bene le sillabe. Ma la donna di sessant’anni la capisce benissimo. Le risponde ad ogni domanda. Piange quando la donna di sessanta non le risponde, o le risponde ciò che non vuole sentirsi dire. La donna di cinquant’anni le chiede ogni trenta secondi dove siamo, e quella di sessanta le risponde con dignitosa pazienza ogni volta, facendola smettere di piangere quando le dice che siamo quasi arrivati. Ma ricomincia quando dice di aver paura di scendere dal treno, perché ci sono le scale e il treno è alto. Smette di piangere quando la donna di sessant’anni le dice che non cadrà, perché a salire non è caduta.
La donna di cinquant’anni nota i capelli lisci di una donna filippina seduta di fronte a lei, e così senza alcun preavviso, istintivamente, li accarezza. La donna di sessant’anni le toglie la mano, scusandosi mille volte per il gesto inopportuno, ma la donna di cinquanta lo rifà. La donna filippina le sorride, dicendo alla donna di sessant’anni che non fa nulla. E sorride alla donna di cinquanta come si sorride ad una bambina di quattro anni che sogna i capelli neri, lisci e lunghi quando sarà grande. Ma lei è già grande, ha i capelli corti, grigi e sporchi. Dopo trenta secondi la stessa domanda, se siamo arrivati a Fossano. Ma non siamo ancora arrivati a Fossano, prima c’è Centallo. Di nuovo la stessa domanda a Centallo, dopo altri trenta secondi, ogni trenta secondi dei successivi dieci minuti, la stessa domanda. La donna di sessant’anni le risponde, nello stesso modo in cui si tiene a bada un bambino di cinque anni. Ma ha le rughe. Sua figlia, e lei. Su entrambi i loro volti ci sono delle rughe.
La figlia non cadrà dalle scale del treno, perché sono in tre. Il padre fantasma, rosso di vergogna per una figlia che non è mai cresciuta – ma chissà per quale volontà – , si è seduto dalla parte opposta del treno, non partecipa ai dialoghi tra madre e figlia, e guarda fuori dal proprio finestrino, unica breve evasione di 15 minuti dalla propria vita. La moglie è in piedi su un treno in movimento, con addosso il peso dei suoi sessant’anni e una figlia di non si sa bene quanti. Ma sul suo volto è scolpita la dignità. Non un accenno di stanchezza. Di certo non si aspettava di dover vedere i capelli bianchi in testa alla figlia quando ancora avrebbe pianto per un viaggio in treno. Non si aspettava che lei avrebbe fatto fatica ad imparare a camminare, che non avrebbe mai imparato bene a parlare. Non si aspettava di dover essere madre di un’eterna bambina di quattro anni, alla quale non si possono più fare le trecce, intrappolata nel corpo di una donna di cinquanta che non sa di averli. Quando sua figlia aveva due anni, la immaginava una brillante ragazza di venti, una madre a trenta, brillante avvocato a quaranta, una nonna a sessanta. Ma nemmeno lei può diventarlo. Non si aspettava di dover vivere l’angoscia di pensarsi morta, mentre sua figlia non ne sarà nemmeno conscia. Non si aspettava di doversi preoccupare di sua figlia fino alla fine dei suoi giorni come è preoccupata una mamma agli inizi.
Siamo arrivati a Fossano. La donna di sessant’anni dice alla donna di cinquant’anni di mettersi il giubbotto. L’aiuta. Le dice di non alzarsi finchè il treno non si sia fermato. Sta zitta, al suo posto, in silenzio. È un momento speciale quello dell’arrivo. Deve fare attenzione a non cadere dalle scale, perché il treno è alto. Così si prepara a quel momento. Si alza quando le viene detto di alzarsi, come se nella sua testa, come se nella sua mente, non ci fosse nulla, se non gli ordini di sua madre. Con la mano della madre in una sua mano, e la mano del padre silente nell’altra, scende. La donna di sessant’anni aveva ragione. Non cade, perché a salire non è caduta.
Lascio a voi pensare alle parole da dire alla madre di un figlio che non può crescere.
Ylenia Arese
12 Dicembre 2015 | Vorrei, quindi scrivo
Un video, alcune parole, tante risate, pochi concetti per portare avanti la rivoluzione dell’educazione scolastica.
Sir Ken Robinson racconta, in uno dei suoi più grandi interventi alle conferenze TED, come potrebbe essere una scuola a misura di sogni, di vita e, soprattutto, di ragazzi della generazione Bataclan.
20 minuti per sconvolgere il proprio pensiero, per cambiare punto di vista, per assaporare la bellezza che si nasconde nell’uomo. Per comprendere che ognuno di noi è perfetto così com’è. Ma perché questo sia vita quotidiana, forse serve davvero una rivoluzione nell’educazione.
Amore per la scuola, passione per la vita.
PS: sono presenti i sottotitoli in italiano