Eureka! Il Valore di un’Idea

Nell’articolo precedente ho parlato dell’immagine come concretizzazione, in forma prettamente visiva, di un’idea.

Ebbene, rileggendolo ho cominciato a chiedermi che valore questa abbia nella pratica artistica. Trovata la domanda poi è stato necessario rispondere e così ho fatto qui di seguito.

L’idea, in termini generici, fa da sempre parte dell’Arte ma fino alle avanguardie artistiche del secolo scorso era passata praticamente in sordina, nascosta sotto le pennellate sulla tela o dietro blocchi di marmo e bronzei condottieri a cavallo.

Ma una volta andata persa la figurazione classica, ovvero quella dalle forme identificabili, l’arte figurativa è andata via via avvicinandosi sempre più a ‘pratiche’ – le forme d’arte, come il libro d’artista, sviluppate negli anni sessanta e settanta ne sono un esempio – che preservassero l’integrità dell’idea in un tentativo di presentarla all’osservatore nella sua forma più originale possibile.

Ma quando l’idea ha cominciato a prevaricare sulla sua messa in pratica?

Prima ancora di arrivare all’Arte concettuale opere come Fontana di Duchamp o Merda d’artista di Manzoni hanno evidenziato come per veicolare efficientemente un messaggio la veste dell’opera non sia necessariamente rilevante: la veste grafica della scatoletta di Manzoni, anche se cambiasse nell’aspetto, non influirebbe sull’idea; se Duchamp avesse scelto un altro orinatoio non avrebbe minato la portata eversiva del suo messaggio cosa invece impossibile per, ad esempio, un qualsiasi artista rinascimentale. Ma perché?

Certo, tra Duchamp, o Manzoni, e l’ipotetico artista rinascimentale intercorrono circa cinque secoli; un lasso di tempo lunghissimo in cui il mondo dell’arte è cambiato enormemente.

Un artista rinascimentale era legato a doppio filo a canoni estetici tradizionali, essendo la maggioranza delle opere a tema religioso: non era possibile cambiare i colori delle vesti o la posizione di una figura all’interno della scena ritratta, altrimenti non sarebbe stata immediatamente riconoscibile.

Dell’arte rinascimentale si può infatti affermare che sia ricca di personalità e maestri eccelsi, ma non che brilli per la varietà dei temi trattati (complice il fatto che la Chiesa fosse la principale committente d’arte).

In un arte così fortemente condizionata e lontana dalla dimensione personale dell’artista rimaneva ancora spazio all’idea?

Apparentemente no, trattando quasi esclusivamente di dogmatici temi biblici. Eppure non è un caso che, del marasma di pittori che dipinsero pale d’altare e scene sacre, solo una manciata si trovi nei manuali scolastici.

Che sia bastato il virtuosismo tecnico a distinguerli dagli altri?

Prendiamo un pittore come Caravaggio: le sue opere sono apprezzate in tutto il mondo solo esclusivamente per la loro qualità tecnica o è stata, ad esempio, la sua capacità di sfruttare appieno il potenziale scenografico della luce – con fasci di luce netti, spigolosi ed estremamente carichi dal punto di vista emotivo – o fu la scelta consapevole di ritrarre figure cristiane in atteggiamenti molto più “umani” a farlo emergere?

È stato qualcosa di più significativo della “semplice” esecuzione perfetta ad affrancare la figura di Caravaggio, ovvero la sua personalissima (e molto spesso criticata) visione dei valori cristiani, la sua idea.

L’idea poi è un concetto fortemente in relazione con il titolo di questa rubrica, “Potevo farlo anch’io”. Tale frase è la conferma che chi la pronuncia non voglia accettare o comprendere che il valore di alcune opere non risiede più nell’oggetto che ammiriamo, ma nel ragionamento di cui esso è testimonianza. Nessuno si sognerebbe di affermare ciò davanti ad un dipinto di Caravaggio: questo perché viene erroneamente da pensare che il valore dell’opera stia nell’esecuzione materiale, cosa che porta a pensare che l’arte di Caravaggio sia ritrovabile unicamente nell’uso del pennello piuttosto che nella sua interpretazione dei passi biblici.

L’idea quindi, nella sua unicità, fa, da sempre, parte di quel valore ‘mistico’ e irripetibile che rende tale un’opera d’arte, così come le nostre impronte digitali ci identificano come individui unici.

Bianco per tutti

Foto: La Costituzione cancellata di Emilio Isgrò in “Una indivisibile minorata”, 2010, Tecnica mista su libro

Nel secondo articolo ho parlato della fotografia e del ruolo che questa ebbe nel modificare la pratica artistica. Ho terminato poi affermando quanto sia ormai facile raccontarsi per immagini piuttosto che verbalmente: se devo raccontarvi le vacanze che ho appena trascorso vi mostrerò le fotografie che ho realizzato piuttosto che limitarmi a descriverne a parole gli eventi, i luoghi, i colori, le particolarità che l’hanno caratterizzata.

Si dice “un’immagine vale più di mille parole” ma che cos’è effettivamente?

Un’immagine è una rappresentazione in forma visiva della figura e dell’aspetto suscettibile di riproduzione e confronto e percepibile unicamente attraverso il senso visivo; e la cui potenza espressiva, con tutto il suo bagaglio di citazioni richiamate, somiglianze, assonanze e possibili collegamenti,  è ormai ben chiara, in particolare agli artisti, a chiunque abbia come proprio obiettivo la veicolazione di un messaggio. L’arte d’altronde è una forma di comunicazione: essa è la concretizzazione fisica di un’idea che sceglie la via, a parere di chi la genera, più funzionale e  migliore. L’uomo ha iniziato a raccontarsi attraverso immagini fin da quando trovava riparo nelle caverne, così come ha continuato sulle mura degli edifici a lui più cari, dalle piramidi alle chiese, fino alle città intere.

Ma cosa comporta l’uso iperattivo dell’immagine? Proviamo a masticare qualche numero, assolutamente non reale, ma quanto meno plausibile: mettiamo a confronto un uomo vissuto durante il medioevo e uno qualsiasi di noi.

Nel caso dell’uomo medievale, e solamente nel caso questo appartenesse a determinate classi sociali quali nobili ma sopratutto ecclesiastici, si può dire che questo ipotetico uomo X si potesse ritenere assai fortunato se nell’arco della sua intera vita, a cui diamo una durata ipotetica di quarant’anni, avesse visto cento immagini…

Paragonate alle 216.000 immagini di cui è composto un qualsiasi film di centocinquanta minuti (ventiquattro frame al secondo per i sessanta secondi di cui è composto ognuno dei centocinquanta minuti) quelle cento immagini sono un’inezia. Ora già mettere a confronto il numero delle immagini nei due casi ci da una vaga idea della differenza: cento nel primo caso, 216.000 nel secondo. Ma quello che è davvero sconvolgente, a mio avviso, è mettere a paragone i due dati temporali: quarant’anni contro le due ore e mezza del film.

Se dico che siamo bombardati da immagini non affermo nulla di nuovo, quello che ho scritto finora serviva più che altro per introdurre alcuni artisti che della “ipersaturazione” di significato hanno fatto un elemento centrale del proprio lavoro, interpretandola in maniera anche opposta in taluni casi.

Cancellare o non occupare uno spazio per lasciarlo nella sua dimensione di potenzialità o restituirgli questa dimensione, non dire nulla o cancellare il superfluo per far si che la propria opera non si perda nel marasma e nel rumore dei nostri tempi.

Emilio Isgrò, artista concettuale e cancellatore per antonomasia, in questi mesi in mostra al Palazzo Reale di Milano che sulla genesi della propria opera dice: “Germinò davanti a un foglio pieno di cancellature. Era un articolo tormentato di Giovanni Comisso per il Gazzettino. Pensai che le nostre vite sono piene di ripensamenti, di rimozioni, di ricordi e di gesti cancellati. E vidi in quella traccia come la testimonianza più profonda dell’essenza umana”[1].

Una delle sue opere più celebri, Il Cristo Cancellatore del 1968, un’opera d’arte in forma di libro, già con il titolo ci da un assaggio della portata eversiva del lavoro dell’artista siciliano che si figura come: “Un Cristo per niente povero che invece di assumersi i peccati del mondo, li cancellava. Pierre Restany commentò con arguzia che avevo assunto l’identità di Gesù, come un pazzo che si crede Napoleone. Avevo già lavorato sulle cancellature: su libri e giornali. C’era il manifesto della Wolkswagen del 1964. E subito dopo il Cristo; nel 1970 realizzai la cancellatura della Treccani”[2]. Infatti dal 1970 Isgrò cominciò a cancellare le voci dell’enciclopedia Treccani ovvero cancellava delle convenzioni ormai date per assodate a tal punto da diventare definizioni uguali per tutti; si tratta di un mettere in discussione ciò che ormai è dato per scontato fino alla banalità del quotidiano. I giochi sono riaperti sembra dirci Isgrò con la sua arte.

Robert Ryman, all’opposto, non necessità di cancellare alcunchè dalle sue tele in quanto su di esse non c’è che il nulla, il vuoto.

Ryman, infatti, dipinge le sue tele solo ed unicamente di bianco ripetendo continuamente quel rito dell’artista, che come un dio creatore, si confronta con il vuoto della tela da riempire.

Esporre una tela bianca conferisce il titolo di artista a chiunque che davanti ad essa sia in grado di immaginare una qualsiasi cosa, di creare dal nulla  e lo nega a chi, a priori, nega il valore del dono di Ryman. In un contesto come quello descritto prima l’opera di Ryman rimane un salvagente nel mare nero del superfluo, dei milioni di immagini pubblicitarie e non, con cui dobbiamo forzatamente relazionarci ovunque e ogni giorno. Sono una boccata d’aria pulita in una città invasa di smog.

Io sinceramente credo che ,dopo la sensazione di stasi di Edward Hopper nelle sue tele, la rappresentazione del vuoto, in tutte le sue accezioni, non potesse che passare attraverso l’uso del  bianco totale. Il colore dell’inizio.

L’uso ipertrofico dell’immagine come veicolo di un messaggio, la facilità e la velocità con cui ora si producono immagini è uno dei fattori per cui il valore della qualità tecnica e andata via via scemando in favore di un maggiore interesse verso l’originalità dell’idea ed il valore assoluto ed unico che essa ha: Ryman da forma all’idea di vuoto in relazione al processo creativo; Isgrò all’opposto fa della saturazione la base, il supporto per la sua opera che nella base è già contenuta ma va fatta riemergere eliminando il superfluo.

Due idee simili che si concretizzano in modi tra loro opposti ma che si configurano come una panacea per il gran mal di testa che la complessità dei giorni nostri spesso ci crea.

[1]    Emilio Isgrò “Ho cancellato tutto, anche me stesso, per togliere il superfluo dall’anima” di Antonio Gnoli, su La Repubblica del 26 Giugno 2016.

[2]    Ibidem

Link immagine: http://vivimilano.corriere.it/wp-content/uploads/2016/06/emilio-isgro.jpg

Taglio netto

L’articolo dello scorso mese si concludeva con la promessa che vi avrei illustrato, a grandi linee, la rilevanza della fotografia nell’evoluzione delle arti visive.

Ebbene, la fotografia nella linea temporale dell’espressione artistica, metaforicamente parlando, si configura come un giro di boa: prima di essa le arti puntavano a ricreare la realtà come essa si presentava agli occhi del pittore e di coloro che ne ammiravano l’opera ma dall’avvento della fotografia – perché di un avvento realmente si tratta e non solo dal punto di vista artistico, ma anche da quello sociale e culturale – la arti hanno puntato i propri interessi verso l’indagine di ciò che si cela dietro la realtà tangibile, hanno voluto attraversare il velo di maya, così come la tela, per scandagliare concetti ed emozioni fino a quel momento ritratti unicamente attraverso allegorie e simboli.

La fotografia immobilizza il qui ed ora, un evento di un secondo o anche meno, viene congelato nelle proprie coordinate spazio-tempo.

In un secondo, sulle lastre fotografiche, s’impressionava ciò che poteva richiedere  mesi o anche anni di lavoro ad un pittore.

Eppure, nello stesso momento il cui la fotografia determinò la “distruzione” dell’arte, la fece anche rinascere sotto nuove vesti.

Gli impressionisti furono i primi ad approfittare di questa nuova possibilità scegliendo di rappresentare la realtà attraverso le impressioni istantanee colte dall’occhio del pittore: la pittura punta ad esaltare prima di ogni altra cosa la sensazione dell’attimo fuggente.

Secondo i pittori impressionisti la realtà muta continuamente d’aspetto, il realismo oggettivo doveva quindi essere sostituito dall’impressione dell’attimo.

La luce varia a ogni istante, le cose si muovono spostandosi nello spazio: la visione di un momento è già mutata nell’istante successivo. L’attimo fuggente della pittura impressionista è totalmente diverso dal momento pregnante della pittura neoclassica e romantica, non ha nulla a che fare con la narrazione: coglie le percezioni e le emozioni.

Questo modo di dipingere ha analogie evidenti con la fotografia: anche quest’ultima coglie un’immagine della realtà in una frazione di secondo.

Della fotografia, gli impressionisti, fanno propri la velocità della sensazione e i particolari tagli di inquadratura, che danno alle loro immagini un particolare sapore di modernità.

La vicinanza tra il mondo della fotografia e quello dei pittori impressionisti fu resa ancora più evidente nel 1874 quando il fotografo Nadar ospitò presso il suo studio la prima mostra di quadri impressionisti, ritenuti troppo “moderni” per essere esposti al Salon di Parigi (esposizione d’arte annuale che si teneva al Louvre).

L’avvento della fotografia contribuì a liberare la pittura dalla necessità di imitare la realtà, offrendo così la possibilità di sviluppo di movimenti di avanguardia quali futurismo, espressionismo, cubismo e dadaismo.

Per Picasso spezzare e ricomporre “l’immagine” era un modo per riportare sulla tela le tre dimensioni della realtà così come per i futuristi era invece la miglior metafora del movimento, della velocità e della modernità.

Per il Dadaismo, nato a Zurigo presso il cabaret Voltaire, l’immagine fotografica era un mezzo per manipolare la realtà e ripresentarla in maniera provocatoria, una “rivoluzione visiva”. La fotografia venne intesa come riproduzione di una realtà manipolabile, che poteva essere ritagliata e assemblata in fotomontaggi in cui la spontaneità creativa prevaleva su tutto, provocando il pubblico tramite la trasformazione inconsueta della realtà. I dadaisti utilizzavano per le loro opere, definite fotocollage, immagini tratte in prevalenza dalle fotografie di attualità dei giornali a cui, in seguito, s’aggiunse anche l’utilizzo delle tecniche pittoriche.

Pochi anni prima, nel 1910, Vassily Kandinsky aveva dipinto il primo acquerello dichiaratamente astratto e assolutamente slegato dalla necessità di dipingere il reale ma libero di esprimere emozioni pure.

Da allora i movimenti artistici hanno continuato ad allontanarsi sempre più dall’oggettivo tanto da arrivare a fare dell’arte una pura informazione, come avverrà negli anni sessanta con l’arte concettuale, che assolutamente non necessitava dell’elemento figurativo.

Oggigiorno l’immagine fotografica è parte integrante delle nostre vite, ci circonda perennemente tanto che scattare una foto è ormai un operazione banale e quotidiana proprio perché tramite essa ci raccontiamo molto più facilmente e in maniera immediata che non attraverso la parola.

“Prestare orecchio”

Nella foto: Maman, dalla serie Spiders di Louise Bourgeois.

Vedete, più di una volta mi è capitato di sentire, appena sussurrata, quella fatidica frase che è anche il titolo di questa rubrica: “lo potevo fare anche io”.

Ma è davvero così? Davvero lo potevo fare anche io? In azioni come il capovolgere un orinatoio, firmarlo e piazzarlo in un museo non c’è davvero nulla di più di quel che abbiamo davanti a noi? O si tratta di una banale, limitata e quantomai sbagliata semplificazione?

Tentare di spiegarvi che nell’arte contemporanea c’è molto più di quanto sta davanti ai vostri occhi è l’obbiettivo di questa rubrica, dedicata, principalmente, a tutti quelli che dicono: “io non me ne intendo”; a coloro che dell’arte non sanno propriamente cosa farsene, come gustarla; a chi, senza malignità, considera l’arte contemporanea e gli artisti alla stregua di alieni venuti da una galassia lontanissima e pertanto incomprensibili o spaventevoli ragni giganti da cui è meglio stare alla larga.

Ora, se veramente con l’arte, contemporanea e non, non avete nulla da spartire, non potrà di certo essere la mia rubrica a spalancarvi le porte di questo magnifico mondo ma se, invece, il vostro è solamente il timore di passar per ignoranti…beh questi articoli, allora, potrebbero essere un buon inizio per coltivare una nuova passione.

Vorrei tranquillizzarvi fin da subito dicendovi che non è necessario interdersi d’arte, per godersela. “Ma come?!” – starete pensando – “come faccio a capire se non me ne intendo?” – semplice: fate un respiro bello profondo, e ripetevi questo mantra, quasi socratico: “Anche chi se ne intende ha iniziato non sapendo nulla” e proseguite pensando a cose come: il cibo, la musica, lo sport per fare degli esempi.

“E queste cose che c’entrano?” – di per sé nulla ma mi sono utili per farvi capire quale dovrebbe essere il vostro approccio all’arte, non impaurito ma godereccio e gioviale.

Il calcio? Non ne so praticamente nulla, tanto che ho impiegato anni per capire le dinamiche del fuorigioco, eppure qualche partita, assieme agli amici di sempre, una birra e una pizza, l’ho guardata, per divertimento; la pizza? A chi non piace? E tutti sappiamo riconoscere quella buona pur non essendo dei pizzaioli; la musica? Io non ho mai sentito nessuno dire: “Io non ascolto musica perché non me ne intendo”!

Altro punto su cui riflettere: pensate forse che l’arte di Van Gogh sia stata apprezzata fin da subito, celebrata con mostre e riconoscimenti come invece accade ora? Tutt’altro, solo pochi seppero “prestare orecchio” a quella nuova maniera di guardare al mondo, così contorta, tormentata e affascinante da sembrare che vivesse per conto suo. Ad oggi è altissimo il numero di mostre a lui dedicate e c’è quindi da chiedersi cosa sia cambiato da allora: ci siamo abituati a quelle pennellate pesantemente materiche, che da rivoluzionarie sono diventate la quotidianità ma il cui valore non viene di certo messo in discussione. Di questo si tratta in fin dei conti, anche per l’arte contemporanea, un abituarsi a vedere, senza rifiutare a priori, ciò che è espressione del mondo che viviamo, senza ovviamente, cadere nell’errore opposto, cioè accettare tutto senza metterne in discussione il valore, compito di quelli “che se ne intendono”. A voi però, rimane l’assoluta e indiscutibile libertà di esprimere un opinione e prima ancora, se vorrete, godervi l’arte in tutte le sue caleidoscopiche sfaccettature. Cosa per cui, mi auguro, questi articoli possano esservi d’aiuto.

Nell’articolo del mese prossimo cercherò di illustrarvi come la fotografia sia stata uno, non l’unico, dei fattori che hanno determinato la morte della “vecchia arte” e contemporaneamente la nascita della “nuova arte”, apparentemente incomprensibile e così “facile” da realizzare.

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