Pensieri sull’attore: mito, sognatore, lavoratore

Vedi l’attore (*) sul palco, e ti chiedi che strano mestiere sia il suo: tu hai sempre visto solo persone che fanno lavori con orari fissi, di giorno o di notte, ma mai che prevedono impegni saltuari e solo in alcuni periodi. Hai iniziato a vedere (o meglio il verbo “partecipare al”?) teatro qualche mese fa e ti è venuto questo pensiero. Continui a “partecipare al teatro”, cresce la tua stima per coloro che dal palco ti regalano emozioni: attori, registi, scrittori. E ad un certo punto inizi a vederli come eroi, esseri illuminati, tendenti al divino. Stop, facciamo un passo indietro.

Da quando è iniziata la mia passione per il teatro, è cresciuta in me la curiosità per l’attore: non tanto quello sul palco, ma quello che poggia la testa sul cuscino, dopo una doccia in una notte di estate per lavarsi il sudore della serata a recitare; insomma la mia curiosità per quello spazio che viene prima del palco. Spazio umano, di lavoro e vita, che nello stesso modo dello spazio del palco, è stato, con un processo di mitizzazione della mia mente, elevato a livelli divini. La mia mitizzazione dell’attore non è un approccio utile a considerarlo un lavoratore come gli altri, e infatti io lo considero un lavoratore diverso, ma, e questo ma è fondamentale: non diverso per i diritti e le garanzie che deve avere.

Secondo l’interpretazione di Marx del lavoro, l’attore è il lavoratore per eccellenza: nel suo lavoro esprime, oggettivizza se stesso, nel modo più autentico. E infatti nel mondo del lavoro di oggi sempre più artificiale e spersonalizzato a livelli diversi, l’attore sembra essere un lavoratore “strano”, ma è eccome un lavoratore. A questo punto, qualcosa non torna: allora perché io lo mitizzo? Probabilmente ho molta stima di una persona che ha ancora il coraggio di lavorare in questo modo, ho invidia della sua passione. E mitizzandolo lo pongo come modello distante da me, non reale, qualcosa a cui non posso davvero giungere: così mi precludo in partenza il percorso che potrebbe portare anche me a lottare per un mestiere che mi permetta di esprimere me stessa. E’ la realtà intorno che preme, coi suoi ritmi e le sue richieste, che sembrano così più a portata di mano.

Ancora in cerca di una prospettiva, ho fatto qualche domanda a due attori, partendo dalle mie curiosità.

Partiamo da un momento peculiare della vita di un attore: gli applausi del pubblico. E’ una coincidenza che entrambi gli attori che ho intervistato abbiano citato questo momento spontaneamente? Erika dice che il momento più difficile per me è alla fine dello spettacolo, quando devo prendere gli applausi, in quel momento l’attore toglie la maschera e non ha più il personaggio a proteggerlo, e allora lì viene fuori Erika con tutta la sua fragilità e timidezza, ancora ho difficoltà a ricevere i complimenti. E Federico invece: durante il periodo di repliche il momento più bello è quello degli applausi. L’incontro con il pubblico.

Erika ha parlato di difficoltà a ricevere i complimenti e di maschere, ed ecco che ritornano a galla per me una serie di domande: il teatro aiuta a diventare più estroversi? Aiuta a superare timidezza e impaccio?  E’ una domanda comune, ma anche mal posta, e mi hanno aiutato a rifletterci in questo senso le parole di Federico: Il teatro fa bene, ti trasforma. È una buona medicina per la vita e sicuramente può rivelarsi utile anche per chi è introverso.[ ] La pratica del teatro riesce a toccare qualcosa di estremamente profondo. [ ]E la stessa utilità, ovviamente, vale anche per chi possiede un carattere più estroverso. La sua “apertura” verso il prossimo può sicuramente rivelarsi un’arma vincente dal punto di vista teatrale. È un’apertura verso i compagni in scena così come verso il pubblico.[ ] E quell’apertura che il teatro ti permette di esplorare, quell’ ascolto verso il prossimo, quella sensibilità che per forza deve essere il tuo terreno di gioco, riesci a portartela dietro nella vita di tutti i giorni.

Scendiamo ora dal palco e indaghiamo dietro le quinte: com’è la routine per un attore? Ha una routine? Mentre Federico mi risponde che più che altro ha una routine di lavoro – Lo studio continuo del testo, la memoria, le prove… – Erika pone l’attenzione su un aspetto del lavoro a volte sottovalutato: Ogni mattina faccio i 5 Tibetani, esercizi presi dallo yoga che lavorano sull’ equilibrio dei chakra. Sono per me un rituale che rafforza il corpo e lo spirito. Ritengo che l’attore debba fare un gran lavoro su di sé, prendendosi cura della sua anima e del tempio che la  custodisce: il corpo. L’attore è un’atleta.

Rimanendo sempre dietro le quinte: quando non si va in scena, i periodi di creazione e di prove come sono? Federico dice che il momento più significativo è proprio la ricerca, il momento delle prove. Lo stare in contatto con i colleghi e trovare insieme la meraviglia che riuscirà a far decollare il lavoro. E invece Erika testimonia una certa difficoltà – La cosa più faticosa sono i periodi di inattività teatrale – ma che si rivela alla fine fruttuosa:  la criticità del momento rende quei periodi in assoluto i più proficui e creativi. Io stessa in periodi del genere ho scritto pensieri che poi hanno portato alla nascita di uno spettacolo.

Usciamo ora dalla sala prove e parliamo dell’inizio di una carriera teatrale: come nasce un attore? Che difficoltà incontra? E qui di nuovo le risposte vanno d’accordo: Federico dice che i suoi genitori lo hanno sempre appoggiato, ma aggiunge: Devo dire, però, che da quando è diventato un mestiere è anche motivo di scontro. Mi hanno sempre implorato di trovare un piano B, perché capiscono che, ahimè, non è un lavoro che assicura una certa continuità. E Erika parla di appoggio totale dei suoi genitori, di sua madre che è la mia Fan numero uno e non vede l’ora di vedermi su Rai 1 a fare una “fiscion” come le chiama lei; ma ricorda anche come al primo anno di scuola di teatro suo padre le abbia detto: Con il teatro non si campa!. E aggiunge: A distanza di anni devo dargli ragione, io purtroppo non faccio solo l’attrice, e negli anni ho svolto così tanti lavori da dovermi creare un doppio Curriculum, quello artistico e quello civile!.

Quest’ultima amara affermazione non significa che Erika non consideri il teatro un mestiere, anzi alle mie domande, risponde che è la professione più bella e insieme più difficile e che per l’attore far teatro è insieme passione e lavoro.  E Federico aggiunge che deve essere considerato come tale, non solo da noi artisti ma da chiunque e che come per tutte le cose, anche in teatro serve un valido percorso d’istruzione, e poi chiaramente la pratica. Nonostante questo anche lui, come Erika, dice che la cosa più faticosa è vivere di questo mestiere.

Entrambi aprono il delicato discorso del lavoro teatrale in Italia: Erika dice che è molto complicato fare l’attore, almeno in Italia, non ci sono tutele adeguate ed è un continuo stare sulla fune; Federico, parlando dei lavoratori teatrali e della situazione critica del lavoro oggi, dice: la nostra categoria sembra risentirne più delle altre. È giunto il momento di dare maggiore dignità alla figura dell’attore, ma mi sento di dire dell’artista in generale. Fare teatro, sì, è un mestiere. E come tale deve essere regolarmente retribuito. E deve avere garanzie. E deve avere tutele.

Per finire, mi hanno molto colpito, a proposito della difficoltà di questo mestiere, alcune affermazioni: quelle di Erika sulla difficoltà di accettare che era questo il suo “Sogno”: sin da piccola mi sono sempre vista donna in carriera, impegnata. Ho fatto diversi cambi all’università prima di comprendere che la mia strada era il palcoscenico. Sono passata da Scienze Biologiche a Giurisprudenza! Ma non fare quello che desideravo mi faceva stare male. E, tornando alla situazione di oggi, Federico parla di una passione che ci brucia dentro che impedisce di rassegnarsi, del bisogno di far sentire la propria voce, trovare insieme una soluzione, e non dimentica il pubblico: “Mai come ora il pubblico ha bisogno di noi, e figuriamoci: mai come ora noi abbiamo bisogno di pubblico. Perché altrimenti il nostro mestiere puf, svanisce in un attimo. Se non c’è pubblico non c’è teatro.

Probabilmente non definitiva, ma ecco la prospettiva a cui sono giunta: l’approccio migliore per chi ama il teatro (ma direi l’arte in generale) è considerare l’artista (*) un esempio di “lavoratore alla Marx”, uno dei pochi rimasti, stimarlo, ma non perciò, tramite la mitizzazione, negargli le sue sembianze di un lavoratore con dei bisogni, come tutti gli altri. Questo aggraverebbe una crisi del teatro (e dell’arte), che oggi è stata messa ancor più in risalto dalla pandemia, dall’assenza di misure per tutelare la classe dei lavoratori artisti. E’ una crisi di considerazione del teatro (e dell’arte), che si riflette oggi nel “ma non è un’attività fondamentale”; non credo che sarebbe azzardato dire che questa crisi, iniziata ormai da anni, ha uno dei suoi motivi principali nell’idea che l’arte, ”lavoro alla Marx”, non produce niente di concretamente visibile, di misurabile in termini di quantità; ma è un lavoro che dà vita – vita! Non oggetti inanimati –  a spazi di condivisione e libertà.

 

(*) si sono usati i termini “artista” e “attore” come equivalenti della totalità di tutti gli artisti e attori indipendentemente del loro genere

Ringrazio molto Erika La Ragione e Federico Palumeri per aver risposto alla mie domande, ampiamente e con piacere.

“Thanks for vaselina” di Carrozzeria Orfeo: descrizione sincera di un’umanità travagliata ma che sa ancora amare

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

Questi famosissimi versi della poesia Itaca di K. Kavafis esprimono lo spirito dello spettacolo teatrale Thanks for vaselina, con cui ormai da sette anni Carrozzeria Orfeo delizia il suo pubblico: la dolcezza con cui racconta un pezzo di storia di Fil, Charlie, Wanda, Lucia e Annalisa; la determinazione con cui ci mostra i difetti umani, ma anche la possibilità di riscattarsi e le potenzialità nascoste; la speranza con cui ci lascia alla fine.

Carrozzeria Orfeo, compagnia nata a Mantova nel 2007, tra febbraio e i primi di marzo è passata allo Stabile di Torino, con Thanks for vaselina (2013), ma anche con altre due produzioni più recenti: Animali da bar (2015) e Cous Cous Klan (2017); per poi continuare un tour nei maggiori teatri italiani. Di loro dicono: «Nel nostro lavoro abbiamo deciso di stare su quel fragile confine dove, all’improvviso, tutto può inevitabilmente risolversi o precipitare, provando a fotografare un’umanità socialmente instabile, carica di nevrosi e debolezze, attraverso un occhio sempre divertito e, soprattutto, innamorato dei personaggi che racconta». Dal 2007 hanno realizzato otto spettacoli, di cui Thanks for vaselina è il sesto, vincendo numerosi premi.
È uno spettacolo difficile da raccontare: le emozioni impediscono una sintesi chiara e concisa. Incominciando da una trama di base che tuttavia non rende onore a quello che lo spettacolo è, direi: Fil e Charlie (che appaiono fin dall’inizio opposti, l’uno cinico, l’altro idealista, ma lo spettacolo ci riserberà sorprese) sono soci nel progetto di esportare marijuana dall’Italia al Messico (in un immaginario scenario in cui l’America ha bombardato il Messico per estendere lì la sua democrazia, distruggendo tutte le piantagioni del luogo). Tuttavia il primo tentativo di iniziare l’affare è da poco andato a finire male: infatti un pluricitato carlino (che mai si vede in scena, questo rende il tutto così spassoso!) vaga per le strade della città dopo essere scappato dall’aeroporto dove stava per essere inviato in Messico. In quel carlino c’è la marijuana. I due, con la madre di Fil, Lucia, e una grassa e insicura ragazza di nome Wanda, escogiteranno e cercheranno di mettere in pratica un nuovo piano, mentre improvvisamente si presenterà a casa il padre di Fil, anni prima scappato di casa.
Si vede subito che lo spettacolo punta a farci ridere, fin da quando Fil si lamenta urlando contro Charlie: «Dovevi proprio scegliere un carlino con l’anca rifatta, un carlino handicappato?». E Charlie: «Disabile, non handicappato!». Ma poi quando Wanda, divenuta parte del nuovo piano, inizia a parlarci della sua vita, lo spettacolo prende quella curva delicata che non perderà mai per il resto della performance, diventa racconto delle fragilità e delle potenzialità umane. Anche Lucia è un personaggio che rispecchia la doppia natura dello spettacolo: ha col figlio un rapporto disastroso, ma nasconde un legame che solo a fine spettacolo si scoprirà; è da poco uscita da una cura per ludopatici, che non sembra abbia molto funzionato, perché continua a chiedere in giro spiccioli per giocare. Ma appare subito un donna generosa, infatti si occupa di una prozia malata, e altruista: non appena Wanda entra nelle loro vite, se ne prende cura e la incoraggia a lottare contro la sua insicurezza.

Emergono spaccati di vita emozionanti, in particolare dall’ingenua Wanda e dall’ex marito di Lucia e padre di Fil: non credo che potrò mai dimenticare la sensazione provata guardando la scena in cui parla con Lucia seduto sul divano. Non credo che mai dimenticherò il racconto dell’atto di amore di Wanda verso suo fratello.
Il valore di una vita, la cura uno per l’altro, il difficile rapporto tra figli e genitori, le scelte personali portate avanti con convinzione per la propria vocazione, il riscatto dalle difficoltà. Sono tante le cose che mi rimarranno nel cuore di questo spettacolo, grazie soprattutto alla sincerità delicata con cui i personaggi sono descritti e fatti interagire. Sembra davvero che siano stati amati dal regista e dagli attori stessi – protagonisti di una recitazione impeccabilmente coinvolgente – che infatti a fine spettacolo hanno accompagnato il pubblico nelle lacrime. Il senso generale che mi ha dato è stato di tristezza, ma mi sono sentita anche spinta a riflettere sul valore della vita, sulle proprie scelte, sul ricercare il proprio benessere. E cercherò in tutti i modi di andare a vedere altri spettacoli di Carrozzeria Orfeo, se questo è il risultato, e invito tutti voi a fare altrettanto. Aspettando che ripassino qui in Piemonte.

Visto domenica 9 febbraio 2020 al teatro Gobetti, Torino.

drammaturgia Gabriele Di Luca
con Gabriele Di Luca, Pierluigi Pasino, Massimiliano Setti, Beatrice Schiros, Francesca Turrini
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
musiche originali Massimiliano Setti
luci Diego Sacchi
costumi e scene Nicole Marsano
e Giovanna Ferrara
Carrozzeria Orfeo – Marche Teatro

Per info su Carrozzeria Orfeo e lo spettacolo: https://www.carrozzeriaorfeo.it/ ; https://www.carrozzeriaorfeo.it/spettacolo/thanks-for-vaselina

“Zio Vanja” di Kriszta Székely: la satira di Čechov come potenziamento della vita

Una veranda di vetro trasparente che dà su un podere della campagna russa. All’interno sei personaggi ululanti di risentimento, legati da arzigogolati legami familiari e triangoli sentimentali. Una distesa senza fine, non degli alberi che tanto ama il medico e amante dei boschi Astrov (l’unico che in qualche modo riesce a vedere al di là del proprio naso e dell’asfissiante veranda), ma di monologhi senza fiducia in risposte altrui.

Produzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, ad opera della regista ungherese Kriszta Székely, Zio Vanja di Čechov, debuttato nel lontano 1900, rivive per noi al teatro Carignano di Torino a gennaio.

Serebrjakov, intellettuale in pensione che da una vita riceve i proventi della tenuta senza essersene mai occupato, è da poco tornato in campagna con la seconda moglie, la bellissima Jelena. Qui ad aspettare l’anziano ci sono l’odio di Vanja, fratello della prima moglie defunta, che da anni si occupa del podere; e l’ossequenza di Sonia, sua figlia di primo letto, e della nonnina Maria Vassiljevna, madre della prima moglie, che hanno passato gli ultimi anni a seguire estasiate le sue attività. Il quadro si complica con l’affascinante e originale medico Astrov, chiamato per i presunti sintomi di malattia di Serebrjakov. La convivenza è segnata da trame sentimentali segrete, ma soprattutto, come si diceva, di tesi discorsi sul futuro e sul passato. E di cosa vaneggiano questi personaggi? Infatti non dialogano con gli altri, che forse sarebbe l’unica possibilità di una prospettiva di comune felicità, ma pensano ad alta voce. Vaneggiano: su come hanno sprecato il loro passato e non sanno da dove ricominciare per un futuro diverso; sulla vecchiaia; sulle scelte sbagliate e l’infelicità; sull’ottusità dell’umanità che distrugge senza prevedere le conseguenze.

Sembrerebbe una miscela capace di farti deprimere al primo istante, ma personalmente sia il testo di Čechov sia la messa in scena di questa emergente regista hanno avuto un effetto catartico. Su un pubblico giovane questo effetto è prevedibile: dal contrasto tra tutti questi rimpianti e la sensazione di avere il proprio futuro in mano, un giovane non può che uscirne rafforzato e rinvigorito. Čechov scrisse: < Io non ho scritto (le mie opere) per far piangere la gente.[ ] Volevo soltanto dire onestamente alla gente. “Dovete capire in che modo noioso e terribile vivete!” Cosa c’è da piangere su questo? > Credo che in questa frase si nasconda lo sguardo ironico che punta sui suoi personaggi, ironia espressa in questa messa in scena, nata da una scelta di riadattare un testo che è più che mai attuale: non solo per l’universo umano oggetto del testo, che si conferma immutato, ma anche per il bisogno che abbiamo di guardare alla realtà in una maniera satirica, che aveva Čechov, come abbiamo noi oggi.

Quindi non ho potuto che uscire dalla sala con un sorriso beffardo per la forte sensazione di presa sulla mia di vita, in contrasto con tutta la confusione dei personaggi sul palco. E questo nonostante un finale che non alleggerisce la tensione della prima parte, anzi la conferma coprendola con un velo di accettazione. Si tratta di un finale che non ci si dimentica, che vale tutto lo spettacolo, pieno di rassegnazione dolorante ma ispirata. Sonia ripete stancamente: “Io credo, zio, credo, con tutte le mie forze, con tutta l’anima, credo…”, “Riposeremo!” Buio.

Visto il 15 gennaio 2020 al Teatro Carignano di Torino.

di Anton Čechov
adattamento Ármin Szabó-Székely e Kriszta Székely
traduzione Tamara Török
curata da Emanuele Aldrovandi
con Paolo Pierobon, Lucrezia Guidone, Beatrice Vecchione, Ivan Alovisio, Ivano Marescotti, Ariella Reggio, Franco Ravera, Federica Fabiani
regia Kriszta Székely
scene Renátó Cseh
costumi Dóra Pattantyus
luci Pasquale Mari
suono Claudio Tortorici
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Per avere informazioni sullo spettacolo visita il: https://www.teatrostabiletorino.it/portfolio-items/zio-vanja-7-26-gennaio-2020/

 

“Lucido” di Jurij Ferrini: quando il passato torna a mettere in crisi la nostra lucidità

Urla. Scontri. Malintesi. In questo spettacolo teatrale ce ne sono fin troppi. Al punto da credere di avere davanti agli occhi un universo non reale, un sogno o una visione distorta della realtà. Sicuramente l’esagerazione con cui i tre personaggi di “Lucido” se le danno di santa ragione con le parole non è priva di effetti godibili: lo spettatore ride entusiasta, una battuta dietro l’altra.

E’ proprio sulla risata che JuriJ Ferrini punta nella sua trasposizione dell’opera Lucido del regista argentino Rafael Spregelburd, Premio Ubu 2011 come nuovo testo straniero: «Per apprezzare nella sua interezza un’opera di Spregelburd occorre ridere; ridere molto, lasciarsi andare» .«La risata, anche amara o atroce, è l’unica porta d’ingresso nel suo mondo, nella sua realtà scenica». L’opera del “teatrista” argentino si è già affermata nel panorama internazionale, venendo molto ben recepita in Italia, dove già numerose compagnie l’hanno messa in scena. E ora Ferrini, debuttando a dicembre 2019, la porta nuovamente in giro per l’Italia in una produzione TPE – Teatro Piemonte Europa e Progetto U.R.T. per la stagione TPE 19.20 del Teatro Astra.

In scena: ai giorni nostri, un’esile madre, Teté, e i suoi due figli, ormai adulti, Lucrezia e Luca. E una vicenda del passato che torna a galla, con il ritorno di Lucrezia, e scatena il finimondo. O almeno sembra. Perché non si è mai certi se ci troviamo in un sogno, in particolare di Luca, che sta seguendo un terapista che lo allena al sogno lucido, o nella realtà. Ma di inganni in questo spettacolo ce ne sono molti, e si finisce di scoprirli solo alla fine, con il fiato sospeso. Assistendo a come i tre personaggi, ai quali se ne aggiunge un quarto (che rimane però dai contorni un po’ sfumati, quasi a volerci dire “guardate che questa non può essere la realtà”), cercano di districarsi nel pasticcio venuto a galla, assistiamo a molteplici narrazioni, oniriche o reali poco importa, perché ad un certo punto tutto si mescola. Sottesa c’è l’idea che la realtà e il passato siano rivisitabili infinite volte da una mente umana e possano essere ricostruiti a proprio piacimento. La mente è un’infinita fonte di narrazioni, lineari o distorte. E se pensiamo al titolo, ci viene da chiederci se ci sia qualcuno di lucido in scena o se la lucidità, intesa come oggettività universale nel narrare i fatti accaduti, non sia esclusa da qualunque universo umano.

Uno spettacolo che va visto per l’ottima recitazione, che riesce ad emozionare senza essere troppo affettata, soprattutto quella della madre – interpretata da Rebecca Rossetti –, e di Luca – Federico Palumeri. E soprattutto per la frizzante costruzione testuale di Spregelburd, di cui Ferrini dice: «La sua comicità non è mai banale, è caustica, spietata, scorretta verso gli abitanti di quella parte del globo che risponde al nome di “occidente”. Sbugiarda i falsi valori e l’ipocrisia su cui si impernia il nostro patto sociale». Un testo che vale la pena leggere, per farsene un’idea al di là di questa trasposizione.

L’effetto infine è di un loop infinito di battute ripetute più e più volte, passando ininterrottamente dal sogno alla realtà. Si ride. Ma c’è qualcosa che stona, si crea una certa tensione. Stremati dal cercarne un senso, il ritmo è diventato insostenibile: il finale, che in fondo forse preferivamo rimandare, pone una conclusione amara a questa esagerazione. Il grido di Teté infatti ci fa capire tutto: tutti i pezzi si ricompongono, mentre vediamo già la luce oltre la porta; giungiamo così a leggere il libro che è sempre stato in scena. Buio.

Visto il 6 dicembre 2019 al Teatro Astra di Torino

Regia di Jurij Ferrini

Tetè / Rebecca Rossetti
Lucrezia / Agnese Mercati
Luca / Federico Palumeri
Dario / Jurij Ferrini

traduzione di Valentina Cattaneo e Roberto Rustioni
luci e suono 
Gian Andrea Francescutti
assistente alla regia Andrea Peron
foto di scena Stefano Roggero

promozione e distribuzione Chiara Attorre
produzione esecutiva Wilma Sciutto

L’opera Lucido ha vinto il PREMIO UBU 2011 – Nuovo testo straniero

I diritti dell’opera Lucido di Rafael Spregelburd sono concessi da Zachar International, Milano

UNA PRODUZIONE PROGETTO U.R.T. CON IL SOSTEGNO DI REGIONE PIEMONTE

Lo spettacolo è stato presentato a fine ottobre 2018 in forma di studio per effettuare riprese video e per avere qualche presentazione giornalistica. Lo spettacolo debutta a dicembre 2019 al TPE – Teatro Piemonte Europa.

Le citazioni sono state tratte dal sito, dove puoi trovare il calendario della tournée e la presentazione dello spettacolo: http://www.progettourt.it/lucido/

“Theo – Storia del cane che guardava le stelle”: di uccellini, tigri volanti e giganti. Cosa vuol dire crescere?

«Quando muore un eroe, per quanto tempo viene ricordato? E la spalla dell’eroe? Per quanto tempo viene ricordata?”: queste le domande ispiratrici che, insieme alle lettere che Vincent Van Gogh scriveva al fratello Theo, guidano la narrazione in “Theo – Storia del cane che guardava le stelle.»

Monologo teatrale debuttato a maggio 2019 al Torino Fringe Festival, questa nuova produzione di Anomalia Teatro si rivela ricca, originale, coinvolgente, al pari delle precedenti opere di questo gruppo di artisti, formatosi a Torino nel 2016 con il progetto di «stringersi insieme per percorrere la strada del teatro, che spesso si rivela impervia», come sono soliti esordire quando si presentano. L’idea da cui nasce è indagare il dietro le quinte dei geni della Storia: il «braccio destro», la «spalla sinistra, che spesso viene relegata a poco più che una semplice comparsa destinata ad essere dimenticata dalla Storia». In scena, l’agile Marco Gottardello interpreta alternativamente l’«eroe», Vincent, e la «spalla» nell’ombra, Theo Van Gogh. Dietro di lui una scenografia minima, ma d’impatto: il rosso e il giallo, un’abat-jour a sinistra e una lucina in gabbia a destra, in mezzo una cassapanca che regalerà colpi di scena. Certo è che la performance a cui assistiamo sul palco non è solo la narrazione nel tempo di un rapporto tra l’eroe e la sua spalla nell’ombra – anche perché eroe Vincent Van Gogh lo diventò solo dopo la sua morte ma  molto di più.

È prima di tutto una dolcissima narrazione di un rapporto bambino. Ci sono gare a chi tiene più il fiato in piscina. Ci sono fedeltà in società segrete immaginarie: «Io sapevo che se Vincent avesse creato una società segreta, sarei stato il suo primo fedelissimo». C’è una stanzetta al buio, con i suoi lettini uno accanto all’altro e le lucine, nella quale due fratelli parlano nella notte. Se già allora Vincent mostrava segni di una personalità originale, nel voler superare un record impossibile di respiro trattenuto sott’acqua o voler provare il caffè amaro, Theo era con lui, era il suo primo alleato, senza troppi se o ma. Ma l’infanzia non dura per sempre. E allora la performance si trasforma nella narrazione di una crescita travagliata: di Vincent, di Theo, del loro rapporto. Abbiamo un uccellino che sbatte contro le sbarre della gabbia, in un continuo sforzo per trovare ciò in cui realizzarsi; un altro rimane tranquillo nella gabbia, sulla strada segnata. Abbiamo tigri volanti, corse per raggiungere giganti. Abbiamo l’espressione corrucciata e pensierosa di Vincent che ben mostra i suoi mille pensieri: «Bello!» dice davanti al mistero dell’abat-jour; il buio, Dio, le stelle, le foglie secche diventano oggetto di riflessione.

Di fronte al palco si passa così, dopo aver apprezzato la bellezza dei ricordi bambini, a riflettere sulla crescita. Non solo del caso di una crescita come quella di Theo Van Gogh, sempre al confine tra l’ingombranza del fratello e l’istinto di prenderlo come ispirazione, sempre in bilico tra l’amore di sé e l’ammirazione per Vincent. In scena vengono fuori tutte le crescite, che per essere vere crescite abbisognano di uno scontro con l’altro, di una misura tra chi sono “io” e chi è “l’altro”. Viene messa in luce l’importanza di uno sguardo critico ma che sappia comprendere l’altro, invece che giudicarlo, che sappia prendere da lui spunti per lavorare sui propri lati negativi: non invidia mascherata da incomprensione, ma sguardo aperto su cosa io e l’altro possiamo donarci a vicenda.

Uno spettacolo che inizia sott’acqua, continua sotto un mare di coriandoli, è quasi giunto alla sua conclusione “in giallo” e finisce circolarmente dove è iniziato. E se non capiamo fin dall’inizio questo Theo che piange (o non piange?) il fratello morto (e per questo ci piace così tanto), alla fine lo capiamo benissimo: «Io, cane bastardo, sono andato a guardare le stelle», quello che solo Vincent riusciva a fare per ore. Buio.

 

Di e con Marco Gottardello
Drammaturgia Debora Benincasa
Regia Amedeo Anfuso
Scenografia Alessandro Rivoir
Progetto grafico Nachos

Foto e video Antonio Giacometti
La comunicazione è stata realizzata con il contributo di Valerio Cancellier (tattoo)

Visto il 17 ottobre 2019 al circolo ARCI Molo di Lillith, Torino

Le citazioni presenti in questo articolo sono tratte dallo spettacolo e dalla sua presentazione reperibile qui: http://www.anomaliateatro.it/spettacoli/theo-storia-del-cane-che-guardava-le-stelle/

Per conoscere il lavoro e le altre produzioni di Anomalia Teatro visita il sito http://www.anomaliateatro.it/ e segui Anomalia Teatro su FB.

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