La prima volta che si incontra una persona è consuetudine stringersi la mano e dire il proprio nome. Dietro quelle poche sillabe, scandite prima di ogni altra parola, è nascosta l’unicità di ogni essere umano. In effetti, quanto è triste quando non si è chiamati per nome, ma con un numero come la matricola in università, o solo con il pronome “tu”?
Chiamare per nome proprio una persona è creare un legame con l’altro che non è solo una caratteristica del proprio aspetto fisico, ad esempio “quello bionda” o “quella con gli occhi chiari”, né una capacità che ha saputo esprimere, “quello che sa far ridere” o “quella che canta bene”. Una persona, prima ancora di ogni aspetto a lei legato, è il suo nome e il suo nome è la sua storia. Etimologicamente il sostantivo nome porta con sè la sillaba “no” dal verbo latino nosco che significa “conoscere”. Infatti, ricordare il nome di una persona è dare spazio alla conoscenza dell’altra persona; è la prima porta per sapere chi è l’altro, per iniziare ad instaurare un dialogo con il prossimo. Insomma, per conoscerlo. Proprio da questo primo dialogo, da questi primi momenti di conoscenza, può aprirsi una possibilità ulteriore e più grande: l’amicizia.
In questo tempo è comune parlare di amicizia sui social network, ma si conosce ancora così tanto una persona da poter raccontare fino in fondo chi è questa? Quante volte succede di poter contattare un amico per condividere le proprie gioie ricevendo in cambio solo entusiasmo anziché gelosia? Quante persone sono disposte a spendere del tempo gratuitamente per il bene dell’altro?
Dietro questi momenti così apparentemente impegnativi che si condividono con gli amici, si nascondono quegli attimi di divertimento e spensieratezza che solo in amicizia si compiono pienamente: la partita di calcio davanti alla TV con una buona birra, le chiacchiere davanti ad un gelato, la serata a ballare o quella a ridere e scherzare in un pub, la giornata sugli sci o quella sulla spiaggia, un buon bicchiere di vino davanti ad un tagliere ricco di salumi.
L’amico è proprio colui di cui si ricorda il nome e di cui mai si scorderà il nome, perché quell’amico è quel nome, non è quel volto. È quel nome, non è quella capacità. È quel nome perché quel nome è la storia del legame che lega due persone, quel momento da cui tutto è iniziato e dal quale c’è una persona in più che guarda l’altro con gli occhi di chi vuole solo il bene altrui.
La grandezza massima dell’amicizia si compie nella sua castità: essendo libera da ogni legame affettivo amoroso e parentale, l’amicizia si pone nella massima libertà perché non c’è altro che si interpone tra due persone oltre il desiderio di volere un bene vicendevole per l’altro. Non c’è bacio, non c’è piacere fisico, non c’è alcun cordone ombelicale ad aver unito due amici. L’unico gesto di massima espressione fisica tra due amici è l’abbraccio: due braccia che avvolgono l’altro per accoglierlo nella sua totalità. Un gesto tanto semplice quanto colmo di significato: abbracciarsi è affidarsi all’altro, è gettarsi tra le mani dell’altro, è sorreggersi a vicenda. Proprio per questo Virgina Satir scriveva: “Ci servono 4 abbracci al giorno per sopravvivere. Ci servono 8 abbracci al giorno per mantenerci in salute. Ci servono 12 abbracci al giorno per crescere “.
Nel quadro “La danza” del pittore francese Matisse si può scorgere il prorompere inarrestabile della vita, il suo continuo rinnovarsi, il suo eterno movimento impersonato da cinque amici che, tenendosi per mano e con i piedi sul confine del mondo, si abbandonano al tempo della musica. La composizione esplode di gioia e si apprezza il dono dell’altro per abitare con entusiasmo il mondo, ovvero la vita: i cinque amici non ballano soli, ma in cerchio, e nel momento in cui le mani non sono unite tra due, uno si tende verso l’altro che lo attende con il braccio teso e la mano aperta.
In una delle sue ultime canzoni, Jovanotti canta:
“E ti capita mai
Di stare fermo senza respirare?
Per vedere com’è il mondo senza di te
Per sapere se esiste qualcuno
Che ti viene a cercare
Perché a te ci tiene
Per gridarti: Io ti voglio bene”
Ripensando a quali possano essere queste persone pronte a gridare “Io ti voglio bene”, il primo pensiero cade sugli amici più intimi, sugli amici di cui si conosce così tanto il nome da sapere quale sia la storia di vita che cela quel nome. Ancora di più, saranno sicuramente quegli amici che conosco la storia dell’altro a correre e ad urlare “Ti voglio bene”.
Questo potere di abitare con gioia la vita è un dono grande che scaturisce dal chiamarsi per nome che non è altro che ricordarsi a vicenda dell’unicità e del prodigio che ognuno è.
L’amicizia è un dono grande che ci è dato e tutto è più bello condividendo ogni momento con chi si chiama per nome. E diventare amici della propria vita è chiamare per nome ogni cosa, fare verità in se stessi. Gli amici servono a ricordarci anche questo.