Storie dal Brasile

L’esperienza in Brasile è stata una delle più belle e travolgenti che abbia mai fatto nella mia vita, anzi forse è stata davvero quella più arricchente tra tutte, quella più di Vita (con la V maiuscola), quella che mi ha permesso di crescere e di capire qualcosa di più del mondo.
Sono stata per un mese vicino a Rio de Janeiro con Casa do Menor, un’associazione che si occupa di questa realtà così difficile cercando di portare dove può aiuto, solidarietà e presenza. In Brasile ho visto tante situazioni, incrociato molti sguardi, ascoltato racconti, e forse ho anche capito alcune cose, ma nemmeno a distanza di mesi sono riuscita a dare un senso a così tante diverse storie, diverse vite ed esperienze che mi sono state regalate o che per caso si sono incrociate alla mia.
Ciò che però ancora oggi trovo impossibile da assimilare è l’esperienza vissuta in Cracolandia. La Cracolandia è un posto non ben definito, un luogo in cui si insediano più o meno sensatamente persone che fanno uso di crack e a Rio ne esistono davvero molte.
Il crack è una sostanza stupefacente ricavata come scarto dalla lavorazione della cocaina e che, tramite processi chimici, assume le forme di una pietra che per essere utilizzata viene frantumata, da ciò il nome. Sono stata una mattinata in uno di questi luoghi, sono partita con molti pensieri ed aspettative, con il mio gruppo ci eravamo precedentemente preparati molto per affrontare al meglio questa esperienza, ma a nulla è servita la preparazione. Era una giornata calda e soleggiata, ma non afosa, e con una parte dei miei compagni ed alcuni volontari e responsabili abbiamo preso un pulmino e ci siamo avviati verso la periferia di Rio. Giunti quasi a destinazione ci siamo ripetutamente imbattuti in soldati armati e posti di blocco, mi preme ricordare come il Brasile stia vivendo ormai da anni una situazione molto critica in cui la violenza e i soprusi sono all’ordine del giorno e la presenza armata è forte soprattutto nel circondario di Rio. Inoltre questo contesto, già di per se difficile, è stato ulteriormente deturpato e scosso da tutta una serie di fatti e decisioni correlate ai Mondiali di calcio dell’estate 2014, generando ulteriore miseria e disperazione.
La Cracolandia dove sono stata è un grande marciapiede, largo abbastanza da permettere la costruzione di una fila di baracche composte da teli, lamiere e pannelli di legno che sembravano porte o ante di finestre. Ricordo l’odore forte, permeante, sgradevole che mi ha investita appena spalancato il portellone del pulmino, già dal primo respiro ho percepito un’aria diversa, carica, pesante. Mi guardavo attorno cercando di orientarmi, di trovare un punto di riferimento o semplicemente un appiglio perché ciò che stavo vedendo mi stava provocando un terremoto dentro, l’aiuto è giunto quasi tempestivamente per mia fortuna: uno scambio di sguardi incoraggianti con i miei compagni, sebbene tutti carichi di paura, è bastato per ricordarci il vero obiettivo comune ovvero il volersi rendere utili per quanto si poteva.
Messe da parte le iniziali pietrificanti emozioni mi sono addentrata in questo luogo così assurdo, ricordo teli e drappi appesi un po’ ovunque a mo’ di tende, uno spazio libero di circa un metro fungeva da corridoio tra le baracche da un lato e sedie, muretti di cemento, sgabelli e un divano dall’altro. L’odore dentro era tremendo, quasi insopportabile, il luogo era però stranamente colorato e paradossalmente armonico nella sua realtà. Si sentiva una musica provenire da un bar dal lato opposto della strada dove alcuni uomini seduti ad un tavolino bevevano quasi allegramente una birra, dal mezzo della Cracolandia un’altra musica più ritmata e prepotente risuonava da uno stereo. Grandi cartoni erano stesi a terra quasi a formare un angolo maggiormente riparato e apparentemente meno sporco. Simili a cucce erano anche le basse baracche, dove vecchi e malandati divani, materassi e teli occupavano gli spazi lasciando poca libertà di movimento all’interno. Circa a metà di questo corridoio, una costruzione simile a una bancarella sembrava essere il fulcro di tutto il complesso, da lì un uomo presentatosi come “il capo” smerciava oggetti di varia natura che andavano da accendini a bicchieri d’acqua sigillati a ciucci da neonato. Di quest’uomo mi colpì in particolare un’affermazione che quel giorno ci fece, ci tenne a precisare la sua posizione, volle sottolineare la sua onestà dicendo che lui non aveva mai rubato e che la droga se la procurava vendendo gli oggetti di quella bancarella agli stessi abitanti della Cracolandia, ma soprattutto espresse, con una forza tale da toccarmi violentemente, il desiderio di raccontarci la sua storia, affinché capissimo e potessimo raccontare di questo incontro e di lui nella speranza che giungesse agli orecchi dei suoi figli. Sperava di poter essere raggiunto da loro, desiderava rivederli e confidava nel loro aiuto per uscire da quel luogo; ci chiese di raccontare, di portare con noi la sua richiesta di aiuto e questa è la mia intenzione: raccontare di lui e di quelli che come lui ho incontrato quel giorno.
Ricordo molte cose di queste poche ore trascorse lì, il tempo mi sembrava dilatato e ho avuto la possibilità di osservare e vivere in modo molto intenso. Le persone della Cracolandia avevano occhi spenti, trasparenti, quasi vuoti, ma se con gentilezza provavi ad avvicinarti a loro, erano capaci di spalancarti una porta sulla loro anima. Ad impressionarmi maggiormente è stata la capacità di queste persone di raccontarsi, la forza di esprimere il disgusto per la vita da loro stessi condotta in quelle condizioni, il coraggio di riconoscersi schiavi della droga, deboli vittime incapaci di reagire davvero. Dalle testimonianze di queste persone è venuto fuori un elemento comune che li ha portati tutti a sperimentare l’illusoria consolazione della droga: la solitudine, il senso di abbandono e la mancanza d’amore. I cracudos che ho incontrato non erano cattive persone, mi hanno dato l’impressione di essere semplicemente esseri molto soli e tristi, succubi e immobilizzati. Ho conosciuto un uomo, non so dire quanti anni potesse avere ma sicuramente ne dimostrava molti più rispetto alla reale età, molto scuro di carnagione, non ricordo il suo nome, ma ricordo i suoi occhi lucidi e quasi bianchi, la sua voce bassa rotta da violenti colpi di tosse, le sue mani grandi con cui gesticolando cercava di esprimersi per permetterci di capire il più possibile; raccontandoci la sua storia ci espresse più volte il disagio che provava nel vivere in quella miseria, il rigetto per quella vita così poco dignitosa, ma al contempo ci disse della dipendenza così forte da sovrastare l’amore che provava per moglie e figli, una schiavitù così opprimente da far scegliere l’inferno piuttosto che rinunciare al crack. Mi fece un discorso sul senso della vita affermando di preferire la morte e di non sperare più in nulla se non nella misericordia di Dio, mi disse che pregava ogni giorno chiedendo di morire, pensava che lo avrebbe sicuramente reso più felice o perlomeno avrebbe messo fine a quella situazione di sofferenza, a quella sensazione di impotenza di fronte alla droga. Mi domandò se sarei stata felice di vedere uno dei miei compagni morto, risposi di no senza minimo dubbio e senza capire il senso della sua domanda, la sua risposta però mi raggelò: “Tu forse non ne saresti felice, ma lui sarebbe contento di essere morto”.
Mi spiegò che “la droga è egoista”, che ti costringe a rinunciare a tutto, persino alla tua condizione di essere umano e che ti lascia senza alternative perché l’unica cosa più forte di essa è la morte, disse che la vita nella Cracolandia è “surreale”, impossibile da comprendere se non la si vive in prima persona.
Nonostante quel suo enorme male di vivere questo ragazzo ci ha regalato tutta la sua umanità, ci ha aperto il cuore e dicendoci “Volevo ringraziarvi perché voi siete un dono”; questa affermazione mi ha permesso di capire che anche all’inferno la speranza non svanisce, che il sentimento umano dell’amore resiste nonostante le difficoltà dell’esistenza perché l’uomo è amore. Forse il fatto che uno di questi cracudos sia venuto via con noi quel giorno lo testimonia e lo esprime meglio di tante parole; per decidere di buttarsi nell’ignoto, affidarsi a persone totalmente sconosciute allontanandosi dalla propria realtà quotidiana credo debba aver percepito qualcosa di profondo, credo abbia visto una possibilità di riscatto e di cambiamento grazie all’aiuto e all’amore di altre persone. Noi siamo davvero un dono. Vero è che siamo niente confronto a chi ha donato la sua esistenza per questa causa e che le nostre azioni sono nulla confronto a quanto ci sarebbe da fare, ma qualcosa sarà sempre meglio di niente.

Giulia Risso

I superpoteri dell’amore

Cosa c’è di più forte del legame tra padre e figlio? Spesso lo diamo per scontato, ma quanto straordinaria sia quella forza che unisce indissolubilmente due esseri ce lo dimostrano un padre e un figlio un po’ speciali, Dick e Rick Hoyt.

Rick nasce nel 1962 con una paralisi celebrale, che gli impedisce di parlare e di camminare; i medici consigliarono ai genitori di ricoverarlo in una clinica specializzata perché le possibilità per lui di avere una vita “normale” erano poche; Dick e Judy però non si arresero e crebbero Rick come gli altri loro due figli: facendoli giocare, nuotare, imparare assieme…grazie ad uno speciale rilevatore ottico Rick infatti riesce a comunicare con il resto del mondo, rivelando un’intelligenza vivace.

Nella primavera del 1977 Rick chiese a suo padre di partecipare a una corsa di beneficenza in favore di un giocatore di lacrosse rimasto paralizzato. Nonostante Dick non avesse mai corso in vita sua, decise si accontentare il figlio, spingendolo in carrozzina per tutte le 5 miglia del percorso, concludendo la gara all’ultimo posto.

La sera, tornati a casa, Dick disse a suo padre: “Papà, quando corro, mi sembra di non essere disabile”.

Queste parole colpirono profondamente Dick, che da quel momento iniziò ad allenarsi duramente ogni giorno, correndo con pesi alle caviglie e uno zaino pieno di sassi sulle spalle per abituarsi a sopportare il peso del figlio.

Sebbene all’inizio la loro partecipazione alle gare fosse osteggiata dagli organizzatori perché non rientravano in nessuna categoria, Rick e Dick cominciarono a correre maratone, biathlon, triathlon.

Nelle competizioni di triathlon, Dick trascina Rick in un gommone con una corda attaccata al suo torace per la parte di nuoto, per la bici Rick guida un mezzo speciale a due posti, mentre per la corsa Dick spinge Rick in una carrozzina costruita da lui personalmente.

Nel 1992 il Team Hoyt, come i due hanno iniziato a essere chiamati, hanno attraversato gli Sati Uniti coast-to-coast di corsa e in bici, percorrendo 3735 miglia in 45 giorni.

Nel frattempo Rick è riuscito ad essere ammesso al liceo e poi all’università di Boston, laureandosi nel 1993 in Educazione per disabili.

Il team ha continuato a correre, partecipando a più di 1100 gare, tra le quali sei IronMan.

Nel 2012 Dick ha mantenuto fede a una promessa fatta quasi quarant’anni fa quando partecipavano alle prime gare: compiere 70 anni correndo la maratona di Boston, la corsa preferita di Rick.

Un giornalista una volta chiese a Rick: “Se potessi dare qualcosa a tuo padre, cosa sarebbe?” e Rick rispose: “ La cosa che mi piacerebbe di più per mio padre sarebbe farlo sedere cosicché possa spingerlo io per una volta” .

Il team Hoyt non ha alcuna intenzione di andare in pensione, e si sta allenando per l’edizione 2015 della maratona di Boston.

“Yes you can”, il loro motto, ci ricorda quante paure e ostacoli prima ritenuti insormontabili possano essere superati, se l’amore è il motore delle nostre azioni.

Agnese Lerda

Liceali ai tempi di WhatsApp

Alleanza-di-CoppiaLui e lei sono due compagni di classe liceali.
Lui non vuole passare alla storia come la generazione delle spunte blu di WhatsApp. Lei si chiede perché il problema maggiore di sua mamma sia la foto profilo di WhatsApp.

Lui non vuole essere chiamato “bamboccione”. Lei si chiede perché si preferisce un “Mi piace” ad un abbraccio.

Lui si cerca negli occhi degli altri. Lei si guarda allo specchio per guardarsi dentro.

Lui si mette in gioco. Lei si chiede qual sia lo spazio dei giovani.

A volte non si sa che cosa accada, che cosa succeda. Si sa solo che sia Amore che scelse. E ciò che fa Amore non ha eguali, non può essere contrastato. Va accettato, va vissuto. Per stare al passo delle scelte di Amore è amare.

È come il più che incontra il meno. Si sono sempre cercati loro, ora si sono uniti. C’è un mistero. Non si sa nulla, lo si chiama Amore. I due si accettano per quello che sono, compresi i difetti. Si donano l’uno all’altro. Si completano. Si amano.

Anche se lei non risponde appena visualizza il messaggio, lui sa che lei c’è. Anche se la mamma ogni tanto manca di attenzione, lei sa che lui c’è.

Lei lo ama per le sue idee e gli bacia la fronte perché crede di donare affetto ai suoi pensieri. Lui la abbraccia, racchiudendo in quel gesto lei per quello che veramente è: le sue esperienze, la sua storia, le sue idee.

Lui si trova nel suo sguardo innocente. Lei sa che le sue pagine interiori lui le sta sfogliando, sottolineando e ammirando ogni minimo dettaglio.

Lui ha la forza per non mollare nei progetti in cui si è tuffato. Lei ha capito che l’adulto è l’adolescente di oggi. Guarda Facebook e WhatsApp. Cambia idea ogni momento ed è geloso degli altri. L’unico spazio che le rimane sembrava essere la notte, ma grazie ad Amore con lui ha capito che il suo spazio è la vita.

Scuola del cuore

fonte: eosarte.eu

fonte: eosarte.eu

Si chiama Yusuf. E’ nigeriano e a causa del terrorismo di Boko Haram ha perso suo fratello minore otto mesi fa. Suo padre è morto di colera e la mamma cerca di allevare al meglio gli altri tre figli, lavorando nella notte come sarta e educando i figli durante il giorno giorno. La situazione si è fatta sempre più insostenibile e, quando ha perso il lavoro per la sua fede e non riusciva più a portare il pane a casa, ha preso la decisione di fuggire. Di scappare perché è venuta meno la sua dignità come uomo, sperando che in altri luoghi si ricordassero che, a prescindere dal colore e dalla fede, anche lui è un essere umano. Yusuf è sbarcato a Lampedusa da due giorni. Come ha incontrato le forze di polizia nel centro di accoglienza si è lasciato andare, sfogandosi in un monologo interiore di una delicatezza fortemente toccante.

“Ho pagato 1800 dollari per la traversata. Sono stato rinchiuso in un capannone in Libia tre giorni, ammassato, senza acqua nè cibo. Poi di corsa su una zattera a motore, stipato con altre 160 persone. Il mare era molto mosso. Ora posso dire troppo. Faceva molto freddo. Ora posso dire troppo. In tutti noi, che non siamo nè ladri né persone cattive, c’era tanta speranza. Ora posso dire troppa. Sono partito dalla Nigeria con un fratello morto in un attentato. Sono arrivato in Italia con 130 fratelli morti assiderati. Mi stupisce pensare che entrambi siano morti in un viaggio alla ricerca della speranza: spirituale e terrena.

Sono triste e desolato perché sono partito senza niente, ora niente mi rimane se non me stesso. E se la mia povertà non mi consente di alzare la testa, la mia dignità non mi permette di abbassarla. Ma cosa faccio ora? Sono consapevole che in un momento come questo per il vostro paese posso essere un di troppo, ma in altri stati forse no. Però sono certo di essere un “eccesso”, se così si può definire un uomo, solo a livello economico, perché per tutti coloro che hanno un cuore non posso essere altro che un fratello da accogliere. Un uomo con due occhi, una bocca, un naso, nato dal rapporto d’amore tre due persone come tutti, in cerca di vita e dignità umana. E queste due cose non si imparano dal maestro di scuola o di ballo, ma alla scuola del cuore. E per fortuna ognuno ne ha uno, quindi può sempre imparare.

Se non c’è posto per me, ditemelo, non accusatemi. In Nigeria non c’era spazio per me, non rispeditemi indietro come un pacco arrivato rotto o fallato. Sono intero e pieno di vita. Indicatemi un altro luogo dove andare. Per il momento, però, accoglietemi per quello che sono e suggeritemi cosa fare. Mai come in questo momento ho bisogno di te, fratello bianco. Non a livello economico, ma a livello umano. Perché anche se non ho un conto in banca e uno stipendio, ho una dignità da ritrovare e una vita da scrivere. Per il resto mi basta un tozzo di pane e un bicchiere d’acqua.

Forse per i pochi che governano il mondo io e la mia storia non siamo altro che una goccia nell’oceano. In realtà questa goccia è una persona che ha un cuore. E al cuore non si comanda, anzi, tutto quello che esce da qui è contagioso. Per questo sono convinto di potercela fare.”

 

Luca Lazzari

 

Il racconto è frutto della sola immaginazione di me scrittore. E’ una semplice riflessione sullo stato d’animo di un immigrato, inconsapevole e ignaro, come me, di tutte le dinamiche politiche, economiche e di interesse che si nascondono dietro il traffico di persone umane.

La forza delle parole

Ci sono parole che non vanno sprecate, vanno prese e accostate all’immagine che si vuole esprimere solo se questa è degna di tale significato. La parola è l’anima di un discorso, è emozione che non può essere sprecata. È sentimento che colpisce chi ascolta, che penetra chi la fa sua fino nel profondo.
Innumerevoli sono stati i discorsi fatti in questi giorni: Renzi-Ue, Jobs Act, caso Cucchi, comportamento della polizia alle manifestazioni,… Eppure molte parole sono state scritte solo a rigor di cronaca. Per riempire uno spazio bianco che altrimenti sarebbe stato vuoto.
Parole parole parole… A volte perfino prive di dignità. Cosa potrebbe dire Stefano Cucchi se fosse ancora qui? Non lo sapremo mai. Possiamo fidarci solo di quanto è riferito dalla famiglia, dai testimoni e dalla magistratura. Invece tutti ne parlano, accusando l’uno o l’altro.
Non pretendo di decifrare cosa sia successo e fare giustizia, ma credo che il rispetto e la dignità siano parole da accostare a queste situazioni. Quindi uno spazio bianco in più è una scritta in meno, soprattutto da chi non è chiamato in causa, possono portare a una degna riflessione su un caso che chiede solamente tanto rispetto, non urla da stadio.
Perché a volte è inutile fare gli indomabili per qualche giorno e poi tacere per sempre. È utile tacere, riflettere e ridare dignità a un qualcosa, che in qualunque modo sia andato, non deve più ripetersi.
Avere a cuore un qualcosa non vuol dire solo provare passione, quel furore che non fa più ragionare, ma anche amore: farlo proprio e portarlo dentro con sè. E anche se non grida fuori da ognuno di noi, è fondamentale che stia dentro.
Le parole giuste, come in questo caso, portano anche al giusto comportamento. Infatti non tutto deve essere rumoroso, confusionario o esagerato. Perché, come dice un detto cinese, fa rumore un albero quando cade, non una foresta quando cresce.

Luca Lazzari

 

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