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“Preferirei di no”. Mio fratello di Daniel Pennac

da Nadia Lazzaroni | 12 Marzo 2019 | Lo sguardo letterario | 0 commenti

Dopo la morte del fratello maggiore, Daniel Pennac si sente smarrito e, poiché privo dell’importante punto di riferimento, allenta la presa sul reale. Per riprendere le redini della propria vita, decide di scrivere un’opera in ricordo del defunto Bernard; la scrittura, dunque, diventa per lui un palliativo contro il dolore, un esercizio terapeutico il cui risultato è il volume Mio fratello.

Nel libro, ascrivibile a quel genere letterario caratteristico di Pennac in cui la saggistica, il memoir e la narrazione vera e propria vengono amalgamati, l’autore alterna gli aneddoti sul fratello alla propria riscrittura – sottoforma di monologo teatrale – del racconto Bartleby lo scrivano di Herman Melville. Per questo motivo, Mio fratello è anche un inno alla letteratura; essa costituisce per i due fratelli un humus comune, una zona franca a cui fare affidamento per evadere i momenti di eccessiva intimità, che Bernard non riesce a concedersi. A suggerire il richiamo al personaggio melvilliano è proprio il fratello dello scrittore francese, il quale, offrendo a Daniel un biscotto allo zenzero, gli chiede se gradisca “un Bartleby”; il significato di questa metonimia viene chiarito ricorrendo al racconto di Melville: lo scrivano sembra, infatti, nutrirsi esclusivamente di biscotti allo zenzero.

Bernard e Bartleby vengono, dunque, giustapposti; il primo, che in Diario di scuola era stato presentato da Daniel Pennac come l’unico con cui, quando era ancora un pessimo scolaro, riusciva a non chiudersi a riccio, è un uomo incline alla risata, rifugge le confidenze e, inspiegabilmente, tenta invano il suicidio; il secondo, invece, è un impiegato inadempiente e insolente, che declina ogni richiesta del notaio per cui lavora rispondendo puntualmente “preferirei di no” e, così facendo, lo ammattisce.

I traits d’union che affratellano i due personaggi sono numerosi: entrambi sono reticenti, enigmatici, impenetrabili e muoiono serbando nella tomba i loro segreti, ovvero le ragioni dei loro rispettivi comportamenti. Inoltre, sia Bernard sia lo scrivano si distinguono per l’ironia: uno è volutamente ironico, mentre l’altro, sclerotizzato nel suo “preferirei di no”, suscita in modo inevitabile il riso. Sono, infine, due figure magnetiche, perché attirano e incuriosiscono i personaggi che gravitano intorno a loro; il notaio di Melville, frustrato dall’impossibilità di risolvere l’enigma della condotta di Bartleby, da cui diviene sempre più ossessionato, giunge persino a meditarne l’omicidio.

L’autore, nella sua pièce tratta dal racconto di Melville, osserva lo scrivano dal punto di vista del notaio e sceglie, quindi, una focalizzazione interna, che rende credibile il fatto che la voce narrante non conosca a fondo il protagonista. Ma, ovviamente, il regista è Pennac: perciò le reazioni del notaio sono anche le sue e sono, allo stesso tempo, le stesse che provoca in lui l’atteggiamento esasperante del fratello; questo espediente rende meno brusca la cesura tra i capitoli dedicati a Bartleby e quelli dedicati a Bernard.

Il monologo teatrale è stato realmente messo in scena e, per riflettere sulla catarsi nella sua accezione aristotelica, nel libro vengono raccontati gli effetti che ha sortito sulla platea: la sua funzione taumaturgica, che ha silenziato i rumori dei corpi degli spettatori, durante la rappresentazione; la simpatia iniziale del pubblico nei confronti dello scrivano; la successiva incomprensione snervante, fino alla rabbia, e la compassione.

Pagina dopo pagina, il lettore rimane invischiato da Bernard e Bartleby, proprio per l’assenza di quel grimaldello che consentirebbe di inquadrarli, di spiegarli, anche di giustificarli; e ciò rende Mio fratello una lettura piacevole e divertente, ricca di satelliti, piuttosto che di veri e propri nuclei narrativi.

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