La ferita di Cipro

In questi giorni i ministri degli esteri di Grecia, Turchia e Regno Unito si sono trovati a Ginevra per discutere sul tema di una possibile risoluzione pacifica della crisi cipriota. E’ la prima volta che i rappresentati della parte turca e di quella greca dell’isola si scambiano mappe concrete con alcune proposte di scambi territoriali. Cosa che fa ben sperare le Nazioni Unite.

Per capire il perché di tali trattative è necessario fare un balzo nella storia recente dell’isola, precisamente nel 1869, ovvero l’anno dell’inaugurazione del Canale di Suez.

Questo periodo storico vede il concludersi di un conflitto che perdurava da alcuni anni, la Guerra russo-turca, scontro che sancì la vittoria della Russia sull’Impero Ottomano ratificata con il successivo Congresso di Berlino. Nella capitale tedesca si scopri però che gli inglesi e gli ottomani avevano firmato segretamente la Conferenza di Costantinopoli. Tale accordo implicava il passaggio dell’isola mediterranea dall’Impero Ottomano al Regno Unito, il quale, avendo già saldi i possedimenti egiziani, si sarebbe accaparrato il quasi totale controllo dei traffici commerciali passanti per il Canale. In cambio del passaggio di proprietà l’Inghilterra assicurava il suo appoggio militare agli ottomani caso di nuovi conflitti con la Russia.

Cipro si ritrovò così possedimento inglese, fu annessa definitivamente all’Impero Britannico nel 1913, divenendo una vera e propria colonia nel 1925 in seguito alla dissoluzione finale dell’Impero Ottomano. Sotto il dominio inglese si fece sempre più forte la spinta da parte della compagine greca dell’isola verso l’annessione alla Grecia. Nacque così l’Enosis (Unione) un movimento che raccoglieva queste tendenze che erano state duramente represse sotto il dominio ottomano. Essere poterono rifiorire sotto il controllo della Corona che ripristinò parte delle libertà di espressione popolare. Il movimento crebbe a tal punto da influenzare perino gli amministratori inglesi con tanto di comizi pubblici riguardo alla “questione cipriota”.

L’isola del mediterraneo riuscì ad ottenere l’indipendenza dal Regno Unito solo il 16 agosto 1960, ed è qui che iniziarono a manifestarsi in modo tumultuoso le tensioni tra la parte greca e quella turca che non aveva mai visto di buon occhio il governo di Atene. A causa di ciò nella creazione della costituzione si misero in atto una serie di meccanismi in modo da non scontentare nessuno dei due schieramenti. Si stabilì infatti che il vicepresidente e il 30% del parlamento dovevano essere turco-ciprioti. Oltre a ciò la bandiera ufficiale vide il posarsi dell’isola sul bianco con vicini due rami di ulivo, da sempre simbolo di pace, ma nonostante questi accorgimenti la situazione degnerò fino alla frammentazione territoriale.

Infatti a seguito del colpo di stato greco sostenuto dalla Dittatura dei colonnelli, e la successiva volontà dei greco-ciprioti di modificare la costituzione e attuare l’unione con la Grecia, la Turchia, sulla base dei trattati firmati a Zurigo, interpretati unilateralmente, sbarcò su Cipro con l’esercito nella cosiddetta “Operazione Attila”. Occupando gran parte della zona settentrionale dell’Isola istituendo la “Repubblica Turca di Cipro de Nord.

Il primo atto del neonato pseudo-stato fu quello di procedere all’espulsione dei filo-greci dai confini dei territori occupati. A questo si aggiunse un imponente flusso di turchi provenienti dal sud dell’isola e dall’Anatolia, cosa che modificò profondamente la demografia insulare. Per contro si ebbe una vera e propria migrazione della popolazione greca verso i territori che stavano fuori dal controllo della Turchia.

Le Nazioni Unite inviarono tempestivamente contingenti di Caschi Blu, creando così una “zona cuscinetto” tra le truppe turche d’occupazione e i ciprioti-greci, forza militare che è ancora presente sull’isola.

Nonostante i numerosi tentativi di negoziazione, le due parti non sono mai riuscitea trovare un accordo per la creazione di un unico Stato. Dal momento della separazione territoriale la Repubblica di Cipro (abitata da greco-ciprioti) è riconosciuta come unica vera entità nazionale dalle Nazioni Unite. Al contrario la  cosiddetta “Repubblica Turca di Cipro del Nord” (formata da turco-ciprioti) non riconosce la Repubblica di Cipro proclamandosi indipendente, la quale però non è riconosciuta come tale dalle Nazioni Unite, ma soltanto e unicamente dalla Turchia.

Solo negli ultimi anni la situazione si è distesa lasciando spazio a piccoli, ma pur sempre importanti segni di riconciliazione, uno dei quali lo stiamo vedendo in questi giorni a Ginevra.

 

I “Signori del Mondo”

Il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump è entrato a far parte di un circolo molto esclusivo formato da altri due personaggi. Sul primo si è già dibattuto abbastanza, per cui mi concentrerò sugli altri due. Xi Jinping, Presidente della Repubblica popolare cinese (RPC) e Vladimir Putin, Presidente della Federazione Russa. Dobbiamo imparare a conoscerli, o perlomeno conoscere a grandi linee le loro storie. Perché dalle loro decisioni, seppur indirettamente, dipendiamo anche noi abitanti dello stivale.

Xi Jinping

Forse il meno conosciuto dei due fa parte del gruppo dei Taizi, i “principi rossi”. Figli e nipoti di quelli che presero parte alla “Grande Marcia” e di chi fu direttamente coinvolto nella vittoria comunista del 1949. Nasce a Pechino nel 1943, figlio di un combattente comunista di lunga data. Dopo l’incarcerazione del padre (capo del dipartimento di propaganda del PCC) durante la Rivoluzione Culturale Cinese, Xi viene inviato in un gruppo di produzione nello Shanxi dove inizia la sua carriera politica. Nel 1971 entra nella Lega della gioventù comunista cinese, cosa che gli da la possibilità di iscriversi al Partito nel 1974. Dopo una breve esperienza di lavoro nella segreteria della Commissione militare centrale ha la possibilità di diventare presidente della Scuola di partito della città di Fuzhou, capitale della provincia del Fujian. Provincia di cui diventerà prima vice-governatore e poi governatore nel 1999. Il 2002 è l’anno del suo trasferimento nello Zhejiang, regione che, grazie alla capacità politica del nuovo sovrintendente di attirare investimenti stranieri, diventerà una delle zone più virtuose della Cina. Questa indole al tessere relazioni, sia nazionali che internazionali lo porta a Shangai dove prenderà il posto del segretario del Partito Chen Liangyu, risultando un politico fedele alle direttive del Governo Centrale. Nel 2007 si ha la vera svolta per il futuro Presidente, infatti viene eletto membro dell’Ufficio politico del partito e del Comitato Permanente dell’Ufficio politico, quindi nominato primo segretario della Segreteria del Comitato Centrale e ancora presidente della Scuola Centrale. Un anno dopo, sulla scorta dell’apprezzamento del suo operato da parte delle alte sfere del PCC, viene elevato unanimemente dall’Assemblea Popolare Nazionale alla vicepresidenza della Repubblica. Dimostrandosi durante la vicepresidenza degno erede allo scranno presidenziale, il 15 dicembre 2012, durante Il XVIII Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese, è eletto prima capo della Commissione Militare Centrale e poi segretario generale del Partito. Trattandosi delle due cariche più importanti appartenute prima al segretario-presidente uscente Hu Jintao il gesto sancisce il passaggio dei poteri dalla vecchia alla nuova leadership. Il 14 marzo 2013 Xi secondo consuetudine è eletto Presidente della Repubblica Popolare Cinese dall’Assemblea Nazionale del Popolo. Dopo l’elezione ha dato nei fatti la conferma di essere uno dei leader più carismatici e accorti del pianeta.

Vladimir Putin 

Nato nel 1952, il 7 ottobre precisamente, vive un’infanzia di povertà in quanto figlio di madre operaia e padre ex-sommergibilista. Le strade di Leningrado e la loro violenza gli faranno da sfondo durante l’infanzia temprandolo. Lui, per sfuggirne, inizia a studiare diritto internazionale e lingua tedesca, laureandosi successivamente presso l’Università di Leningrado. Negli stessi anni si iscrive in una palestra di Judo, arte marziale che diventerà la sua vera passione. L’amore che prova da sempre per la forza e per la disciplina lo fa approdare nel KGB, dove entra nella sezione del controspionaggio. Dopo 10 anni di carriera nel dipartimento estero dei servizi segreti viene spedito a nella Germania dell’Est a Dresda. Questa esperienza che gli permetterà di vivere al di fuori dell’Unione Sovietica e di essere esperto nelle questioni di politica estera. Doti che lo porteranno a diventare il braccio destro di Anatoly Sobchack, l’integerrimo sindaco di Leningrado che restituirà alla città il nome di San Pietroburgo. Ritornato in Russia dopo la caduta del muro di Berlino, Vladimir si interessa di affari azionari, apre ai capitali tedeschi le aziende cittadine e diventa vicesindaco. La sua corsa al municipio però deve fermarsi quando Sobchack perde le elezioni nel 1996. La debacle del collega in realtà si trasforma in un volano per Putin che viene chiamato a Mosca da Anatoly Chubais, giovane politico ed economista che lo raccomanda a Boris Eltsin, all’epoca Presidente della Federazione Russa. La scalata alla vetta della Russia lo porta ad assumere in rapida successione tre cariche molto ambite. La prima è quella di vice di Pavel Borodin, gestore dei beni immobiliari del Cremlino. La seconda è l’essere nominato capo del Servizio Federale di Sicurezza, figlio del dissolto KGB. Mentre la terza e più importante lo consacrerà capo del Consiglio di Sicurezza Presidenziale. Il 9 agosto 1999 Boris Eltsin si ritira dalla presidenza. Vladimir che intanto è diventato primo ministro, dopo una breve campagna elettorale basata perlopiù sul disprezzo verso le altre compagini politiche, viene eletto presidente per la prima volta con il 50% dei voti. Si impegnerà per tutto il primo mandato alla spinosa questione dell’indipendenza cecena, la cui intransigenza sul reprimerla sarà la sua fortuna politica. Questa insieme alla rinnovata propensione ad un governo centrale e moscovita lo consacreranno come guida delle popolazioni convinte della causa russa contra omnes. Nel marzo 2004 viene eletto Presidente per un secondo mandato sull’onda del 71% dei consensi. Quattro anni più tardi il suo fedelissimo Dmitrij Medvedev gli da il cambio come capo della Federazione. Putin torna così alla carica di Primo Ministro. Successivamente, nel mese di marzo del 2012, come previsto da tutti, viene rieletto per la terza volta Capo dello Stato. Dimostrando ancora una volta la saldezza della sua politica e della sua leadership.

Perché gli attentati in Francia?

Il dolore di una nazione va rispettato, come vanno rispettate le vittime di questi scellerati attacchi alla quotidianità democratica dell’Europa. Però è necessario fare, nelle poche righe a disposizione, almeno degli esempi nella storia recente che hanno portato a questi sanguinosi avvenimenti.

Restando fermo il punto che le parole scritte qui non sono di critica ma semplici elementi di studio e confronto.

Nonostante i continui richiami alla pace tra i popoli proposti dalle organizzazioni umanitarie e dal mondo religioso, la Francia, supportata dall’UE, dagli Stati Uniti e dalla Nato, si è già pronunciata favorevole al vendicarsi nel merito degli attentati di questi anni. Charlie Hebdo e Bataclan, per citarne due, ma la lista sarebbe più lunga.

L’odio ha radici lontane che affondano nel terreno fertile dell’ostilità al colonialismo francese. Passando poi per le emarginazioni delle comunità islamiche nelle popolosissime banlieue, crescendo grazie alle ultime campagne militari messe in atto dalla Francia in Africa e in Medio Oriente.

Partiamo dal dire che i paesi nord e centroafricani covano da sempre sentimenti di rancore maggiori nei confronti della Francia, ancor più che verso gli Stati Uniti.

Il Marocco e la Tunisia, i due maggiori serbatoi di combattenti stranieri nell’Isis, l’Algeria con la sua lunga storia di sangue nella lotta per l’indipendenza, il Mali e in parte anche l’Egitto sono tutte ex colonie francesi. Infatti la maggior parte degli attentatori delle ultime stragi in Francia sono nati in famiglie provenienti da queste zone geografiche. Lo sfruttamento di risorse perpetrato dalla ex potenza coloniale non è mai stato gradito nel Sahel e nell’Africa nera. In aggiunta, l’Arabia Saudita e gli altri paesi del golfo, negli ultimi anni, hanno finanziato la crescita di moschee islamiche radicali e vedono con rabbia Parigi in qualità di capitale dello stato laico, ottenuto col sangue della rivoluzione francese in patria, ma imposto dall’alto nei possedimenti esteri.

La dissoluzione dell’Impero Ottomano e la successiva spartizione dei suoi territori nelle zone di influenza di Francia e Gran Bretagna è stata utilizzata molto nella propaganda del neonato Stato Islamico, che si propone di ridisegnare i confini scossi dalle primavere arabe, e di far saltare gli stati costruiti a tavolino durante l’accordo di Sykes-Picot nel 1916. Accordo segreto che vide i francesi e gli inglesi dividersi le carni della carcassa ottomana.

Le proteste arabe del 2011 hanno permesso a Sarkozy e Hollande di ristrutturare la politica estera francese in chiave militarista e interventista. Le politiche adottate dalla Repubblica portarono alla destituzione di Gheddafi in Libia e a maggiori ingerenze economiche in Siria e in Nord Africa arrivando a finanziare pericolosi gruppi di ribelli contro il regime di Damasco. Questo ha destabilizzato ancora di più la crisi mediorientale spargendo altra benzina sul fuoco del fondamentalismo. In più dopo gli attentati jihadisti in Francia, Hollande si è esposto alla rappresaglia dell’IS intensificando i raid sul territorio iracheno e bombardando anche in Siria.

I cruenti scontri successivi all’attentato del 13 novembre 2015 hanno portato all’imposizione dello stato di emergenza, misura che non ha comunque impedito la strage condotta con spietato cinismo sulla Promenade des Anglais a Nizza. Lo stato di emergenza era già stato utilizzato dalle autorità francesi 1955 durante la guerra in Algeria, con altrettanti scarsi risultati. Senza dimenticare che di episodi di terrore, seppur di minore intensità, la Francia ne aveva già avuti negli anni 90. Questi attacchi nacquero in seno alla nuova crisi algerina che portò all’estromissione dal governo francese degli esponenti islamisti.

A causa dell’importanza di queste politiche interne, non bisogna dimenticare il fronte fondamentalista che sta entro i confini della realtà statale francese. Rispetto all’Italia, le cellule terroristiche hanno migliori coperture e possono contare sull’appoggio delle periferie cittadine, per quanto riguarda il proselitismo di nuovi Jihadisti, i quali non sempre sono di origine islamica. Queste nel corso di decenni di mancata integrazione sono diventate delle città nelle città, fucine di rancore e risentimento. Non a caso la Repubblica Francese spicca come primo serbatoio europeo di Foreign Fighters, oltre 1500.

Molti dei lupi solitari coinvolti nelle aggressioni del 2015 e nel 2016 avevano alle spalle esistenze di disagio. Provenivano quasi tutti dagli arrondissement esterni alla capitale e dalle banlieue di altre città. Queste sono da tempo il nervo scoperto dell’antiterrorismo d’oltralpe, fuori dal controllo delle forze dell’ordine in cui l’attività di monitoraggio è particolarmente difficile. Per tutto ciò il problema del radicalismo islamico di matrice terroristica è lontano dall’essere risolto.

Why so Syria?

Le radici del conflitto che imperversa in Siria da ormai 5 anni trovano la loro linfa vitale nei processi politici che hanno caratterizzato lo stato siriano nel corso di tutto il XX secolo.
Il 7 aprile 1947 nasce il Partito Ba’th, che veicola le spinte di due correnti politiche emergenti nel panorama medio-orientale, il socialismo arabo, di matrice espressamente laica, e il panarabismo. La neo forza politica è la risultante di un processo interconfessionale che prende ispirazione appunto dai suoi ideatori: un alawita, un cristiano ortodosso ed un musulmano sunnita.
Il Ba’th trova, nella dissoluzione della Repubblica Araba Unita (RAU), avvenuta nel 1961 e nel successivo caos politico, il terreno fertile per consolidare le sue posizioni all’interno del panorama politico siriano.
Il 1962 è un anno di forti tensioni sociali che sfociano in una serie di colpi di stato militari. Al fine di impedirne altri il fragile governo dichiara lo stato d’emergenza. La maggior parte dei diritti costituzionali dei cittadini è sospesa e viene a definirsi una nuova classe dirigente all’interno della società siriana.
L’8 marzo 1963 un nuovo colpo di stato, sotto il sostegno del neonato “Comando Rivoluzionario del Consiglio Nazionale”, composto da ufficiali dell’esercito e funzionari civili, porta Hafiz al-Asad, massimo esponente del Partito Ba’th, ad una posizione di rilievo nella politica del paese. Questo permette ad Hafiz di esercitare molte pressioni sul governo fino al 1966, anno in cui un nuovo golpe pone il Ba’th come forza politica dominante eliminando di fatto gli altri partiti. al-Asad diventa così il nuovo ministro della Difesa.
La debolezza del governo viene amplificata dalla sconfitta da parte di Israele durante la guerra dei 6 giorni. Il 13 novembre 1970 Hafiz, approfittando della perdita di popolarità nel vecchio ordinamento politico, conquista la guida del Partito e la conseguente presidenza della repubblica.
Gli anni che seguono sono segnati da un relativa stabilità politica, sociale ed economica, lo stato è ormai retto da un sistema verticistico, monopartitico e repressivo con il progressivo instaurarsi di un vero e proprio culto della personalità del presidente. La stabilità nazionale e internazionale, garantita dall’appoggio dell’URSS, permette notevoli riforme infrastrutturali e il Ba’th si pone come garante della laicità e della libertà religiosa permettendo il fiorire di numerose comunità confessionali di minoranza. Nel 1982 però al-Asad si trova ad affrontare una grande insurrezione di matrice islamica capeggiata dai Fratelli Musulmani che si conclude con l’assedio di Hama e la repressione degli insorti. Secondo le stime dell’epoca riportate dal New York Times 10.000 civili vennero uccisi, mentre il Comitato siriano per i Diritti Umani riporta nei sui dossier ben 40.000 vittime di cui 1.000 soldati.
Gli anni 90, successivi alla caduta del blocco sovietico, portano la Siria ad un avvicinamento all’occidente. Questa propensione viene dimostrata nei fatti dal sostegno di Hafiz nei confronti dell’operazione Desert Storm ,messa in atto dagli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein, e dal tentativo di pace con Israele.
Il 1999 è un altro anno di tensioni, al-Asad designa come successore il figlio Bashar. Violente proteste scoppiano nella località di Lattakia tra la polizia di stato e i sostenitori del fratello di Hafiz Rifa’at al-Asad che più che mai era intenzionato ad ottenere la presidenza. Dopo la conseguente sconfitta di Rifa’at, e la morte di Hafiz per malattia, succede alla presidenza, come da programma, Bashar al-Asad che viene eletto con il 99,7 % dei voti.
Il neo presidente inizia il suo mandato nel 2000 e si trova già da subito a gestire la difficile situazione dell’indipendentismo curdo. Nel 2004 scoppiano una serie di rivolte al Nord della Siria. La più grave è quella avvenuta nella città di Kamichlié, ove la violenta repressione della polizia fa almeno una trentina di vittime tra i manifestanti curdi. La protesta così dilaga in molti altri centri urbani coinvolgendo anche una larga parte della comunità araba. Il capo di stato non modifica la struttura di controllo della popolazione, rimane in vigore la censura e non viene ripristinata la libertà politica di creare nuovi partiti. Vi è anche un progressivo riallontanamento dalle politiche occidentali. Questo a causa del sostegno di Bashar a Saddam Hussein durante la guerra all’Iraq nel 2003, il conseguente suo appoggio a movimenti di ispirazione terroristica come Hezbollah e Hamas insieme al coinvolgimento nell’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri.
Bashar comunque dichiara che lo stato Siriano sarebbe rimasto immune dalle proteste di massa che si stavano manifestando in Egitto in quegli anni.
Non poteva prevedere che di li a poco, nel giro di circa 7 anni, la somma delle proteste degli indipendentisti curdi, l’insofferenza della comunità islamica sfogatasi attraverso le primavere arabe e la continua repressione dei propri avversari politici, avrebbe portato ad una serie infinita di scontri armati e di morti. Che il 2011 sarebbe stato l’anno l’inizio di un conflitto internazionale che dura ancora oggi e che ha portato ad un acuirsi delle tensioni tra gli stati, soprattuto sul fronte USA-Russia. Producendo una crisi umanitaria che ha inghiottito migliaia di civili. Crisi che ha condotto più della metà della popolazione siriana ad un esodo forzato verso quella che ai loro occhi pareva essere un porto sicuro. L’Unione Europea.

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