Ho percorso tanti chilometri alla ricerca di un’adrenalina che iniziava a mancarmi quando l’abitudine della quotidianità stava pervadendo le mie giornate. Ad ogni chilometro che lo schermo davanti a me segnava, mentre ero seduta sul volo di andata, sentivo un briciolo di libertà in più.
Il desiderio di scoperta, la voglia di sapere ed immergermi in un mondo che non conoscevo mi ha spinta e catapultata, per la prima volta, veramente lontano. Le ore di auto, di volo, di attesa, di autobus, mi hanno fatto perdere un po’ il senso del tempo: arrivare sulla costa nord orientale dello Sri Lanka partendo da un paesino lombardo non è molto rapido.
Ma quello che questo viaggio mi ha regalato ha ripagato ogni minuto di attesa, ogni attimo di stanchezza, ogni sensore di preoccupazione. Ad ogni incontro o paesaggio mozzafiato su cui i miei occhi si posavano, ho sentito qualcosa dentro di me che si arricchiva. Mi sono sentita ricca di tanti minimi istanti di vita.
Ho visto mani creare qualcosa di incredibile apparentemente senza sforzo; ho visto occhi dire parole che neanche con il privilegio di una lingua comune potevano essere espresse; ho visto la generosità che si può donare anche quando non si ha niente; ho visto sguardi ammaliati, curiosi e interessati, sguardi perplessi come a dire: “Tu che vieni dalla parte fortunata di mondo che ci fai qua?”.
Ho visto fedeli vestiti di bianco avvicinarsi ai templi per donare fiori a Buddha, porgendoli con le mani piene di amore. Ho visto la nostra guida nel Safari di Yala chiederci curioso i nomi degli animali che incontravamo in italiano per trascriverli nel suo taccuino. Ho visto un bambino indicarci con la bocca spalancata perché forse non aveva mai visto una persona bianca. Ho visto signore felice di farci provare gli abiti bellissimi che vendeva nel suo negozietto. Ho visto il cuoco di un hotel sperduto nelle colline di Ella riempirsi il sorriso con la nostra gratitudine per la colazione che aveva preparato solo per noi. Ho visto il nostro autista, che in 10 giorni di viaggio è diventato come un fratello, sorridere quando ci emozionavamo per qualcosa che lui aveva già visto mille volte. Ho visto l’impegno di un uomo nel trasformare un fiore in una collana solo per stupirci.
Ho imparato nomi di persone che rimarranno nel mio cuore per sempre, nomi di cibi di cui non dimenticherò mai il profumo e parole così piene di significato che non potrei tradurre in italiano.
Ho visto così tante opposizioni a distanza di poche ore o chilometri che sento di aver vissuto cento vite in un giorno. Non ho visto solo gli altri, anche un po’ la mia anima.
Noi vogliamo tutto. Cronache da una società indifferente, F. Carlini
La rabbia della consapevolezza
Pensate che la rabbia sia un sentimento negativo? Uno di quelli da placare, controllare, dosare; che è meglio non esprimere per rimanere composti, docili.
Lo pensavo anche io, eppure, Flavia Carlini, giovane attivista e divulgatrice politica, in Noi vogliamo tutto, la elogia, ne racconta la necessità e come usarla. Una rabbia che è protagonista o fine di tutti i capitoli. Quella rabbia, nata dalla consapevolezza e non dall’odio, da abbracciare ed usare per uscire dagli schemi dicotomici in cui ci troviamo piuttosto che accettarli passivamente.
«Ciò che leggerete è indicativo, anche se certamente non esaustivo, di un sistema di violenze in cui siamo cresciuti nella convinzione che il funzionamento della società ci prescinda e non sia direttamente influenzato dal comportamento di ognuno di noi. Questa è una menzogna.»
Noi vogliamo tutto, parla di potere, privilegio, corpi, storie di donne oppresse, coraggiose, dimenticate. Si parla di numeri e statistiche che, dopo ogni capitolo, rendono ancor più gravi e concrete le parole appena lette. Carlini dà voce a chi non ne ha o a chi, seppur urlando, non viene ascoltato. Anche attraverso le sue esperienze personali, racconta le discriminazioni di genere, lavorative, mediche e come vengono giustificate e legittimate dal sistema stesso che le produce e riproduce.
Con la scorrevolezza di un romanzo e la precisione di un saggio, mostra realtà del mondo occidentale che sono nascoste, così normalizzate che non vengono più notate, a cui siamo indifferenti perché è questo l’unico mondo che conosciamo.
Queste parole hanno avuto, su di me, un impatto forte, come un richiamo all’azione, come la spiegazione di qualcosa che sentivo, che sapevo esistesse ma che non avevo ben chiara. Ricordo la sensazione che ho provato mentre lo leggevo e la consapevolezza, mista ad amarezza e voglia di alzarmi e lottare, che mi ha pervasa leggendo questo libro. L’ho chiuso, una volta terminato, desiderando che tutte le persone che ho intorno potessero leggerlo per essere certa che anche loro si rendano conto della realtà, che possano mettere in discussione le proprie certezze o convinzioni, e che agiscano.
Ci affidiamo alla scienza, alla storia, ma ci siamo mai chiesti chi racconta la storia? Che storia e che scienza ci vengono fornite? Ci siamo mai domandati se le nostre stesse azioni abbiano mai contribuito a rafforzare una discriminazione o uno stereotipo?
Se ve lo siete mai chiesto, allora questo libro può darvi alcune risposte che cercate o, quantomeno, aprirvi una strada per approfondire i tanti temi che vengono proposti. Alla fine del libro l’autrice ha raccolto una bibliografia interessantissima (e necessaria!), che ha chiamato «l’anatomia della sua rabbia» in cui si trovano spunti da cui partire per guidare la vostra di rabbia.
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