Un giornalista sportivo ai tempi del Coronavirus: quattro chiacchiere con Riccardo Mancini

FOTO: Riccardo Mancini con Francesco Guidolin allo stadio di Wembley prima della finale di Carabao Cup 2017/18

Il Coronavirus, oltre che essere un dramma collettivo ed umano, ha generato per noi appassionati sportivi anche (e più banalmente) una conseguenza ben precisa: la totale assenza delle partite di calcio!

Ecco perché poter ripartire ha scatenato la “fame” dei tifosi, incollati ormai quotidianamente alla tv per assistere alle tante partite in programma. Proprio per questa ragione, molti di noi avranno ormai più familiari le voci di alcuni telecronisti che non quelle dei nostri genitori, fratelli e amici. Sono uomini e donne “appollaiati” negli stadi vuoti ad accompagnarci con le loro parole, ad “immergerci” (come direbbe Fabio Caressa) nell’atmosfera di sfide giocate sino all’ultimo respiro.

Tra questi, c’è sicuramente Riccardo Mancini. Giovane sì, ma anche esperto telecronista di DAZN, che per gli appassionati rappresenta il canale ideale per poter seguire da vicino non solo il calcio italiano ma anche e soprattutto il calcio estero. Proprio Riccardo ci ha concesso qualche minuto tra i mille impegni che in questo periodo affliggono anche lui, per raccontarsi e raccontarci il calcio che conta visto un po’ più da vicino. Buona lettura!

Ciao! Partiamo dalle basi: chi è Riccardo Mancini?

È un ragazzo a cui piacciono le cose semplici, che sa adattarsi più o meno a tutte le situazioni che gli si presentano di fronte, che ama il calcio sin da quando era piccolo, che non può restare troppo tempo senza il mare perché è cresciuto lì, che si sente a proprio agio quando intorno ha il calore delle persone che ama e che lo amano.

Chi è, invece, Riccardo Mancini il giornalista?

È un ragazzo che ha fatto tanti sacrifici per provare ad arrivare ad alto livello. Che è andato via da casa a 23 anni, senza punti di riferimento, che ha tentato la fortuna in una città in espansione ma totalmente sconosciuta come Milano. Che cerca di svolgere il proprio lavoro in modo professionale, che a volte è un po’ troppo pignolo con se stesso ma che non si pone limiti nelle ambizioni.

Chi non è “del settore” spesso immagina il giornalista come un silenzioso osservatore, un po’ “intellettualotto”, sempre con il taccuino in mano. È “solo” questo? Che cosa significa oggi esserlo, tra sacrifici, trasferte e tutto ciò che comporta?

Assolutamente no! Il giornalista è un silenzioso osservatore ma anche un pensatore e uno che cerca di farsi spazio in questo mondo con le sue idee. Poi chiaramente ognuno è fatto a modo proprio e interpreta la professione a seconda del background e degli insegnamenti che ha avuto, ma un giornalista di base è una persona curiosa, che vuole sapere, che ha fame di conoscenza e di cultura. E poi è anche una persona che conosce il valore del termine sacrificio: non è così facile arrivare a svolgere questo mestiere con continuità, per farlo devi essere bravo ma anche molto caparbio e fortunato.

Raccontaci la tua giornata-tipo a ridosso di una partita da commentare.

Durante la settimana precedente, preparo schede di ogni singolo giocatore, oltre a quelle di attualità sulle squadre coinvolte. Capita di commentare 2/3 partite a settimana (in questo periodo anche di più!) e il tempo è relativamente poco, ma, per come sono abituato io, non bisogna mai lasciare nulla al caso o dare qualcosa per scontato. Una ripassata al nuovo regolamento, per esempio, ogni tanto ci sta. È giusto non farsi trovare mai impreparati.

Da giornalista sportivo sei anche stato testimone diretto del calcio post-lockdown. Che effetto ti ha fatto tornare a commentare? Com’è il calcio senza tifosi?

È un calcio diverso, sarei un bugiardo a dire il contrario. Il calcio è dei tifosi e della loro passione, sono loro che portano avanti questa giostra coi loro sacrifici e i loro investimenti. Chiaro che è sempre bello veder rotolare un pallone su un prato, ascoltare i dialoghi in campo, ma il calore della gente è qualcosa che non può e non deve mai mancare. Speriamo torni presto.

Chi, forse, aveva più di tutti voglia di tornare in campo era il Liverpool, alla ricerca di quel titolo mancato per moltissimi anni e che rischiava di sfumare per la pandemia. Tu, da grande appassionato ed esperto di calcio inglese, come hai vissuto trionfo della banda di Klopp?

Il Liverpool e i suoi tifosi meritavano questa gioia. È stato un campionato straordinario, una stagione, seppur interrotta, portata a casa in modo totalmente meritato, per la forza tecnica, fisica, emotiva che il gruppo di Klopp ha dimostrato di avere, oltre che naturalmente per la qualità dei singoli. A memoria ricordo poche squadre forti come questa nell’era della Premier League. Credo che grazie a Klopp e ai suoi ragazzi, ad Anfield, possano pensare di aver aperto un ciclo vincente che durerà per diversi anni.

Dal Liverpool al Benevento. Spesso a Dazn ti è capitato di commentare la Serie B, dove le Streghe hanno vissuto una stagione da schiacciasassi proprio come i Reds. Potranno fare bene in A? Inzaghi saprà finalmente consacrarsi nel calcio dei grandi come tecnico?

A entrambe le cose ti rispondo sì! Perché il presidente Vigorito, oltre che un padre per tutto l’ambiente Benevento, è anche uno che è pronto a investire per allestire una squadra che sia paragonabile al Verona di quest’anno. Che non faccia quindi solo da comparsa ma che sappia anche recitare un ruolo da protagonista. Chiaramente per il Benevento il prossimo anno l’importante sarà mantenere la categoria ed evitare figuracce come quella di qualche anno fa. E poi credo che Inzaghi sia garanzia di continuità. Ogni suo giocatore ne parla benissimo, il suo essere “martello” è la sua vera forza. Credo proprio che Benevento sia l’ambiente ideale per lui: passionale al punto giusto e rappresentato da un gruppo di ragazzi eccezionale. Vedo un Inzaghi in rampa perché questa stagione può davvero rappresentare per lui l’ascensore per i prossimi anni.

La Serie A 2019/20, invece, ti è piaciuta? Chi ti ha colpito?

Forse scontato dire Atalanta ma devo fare i complimenti, oltre che ai giocatori e a Gasperini, anche ai preparatori dei nerazzurri. È una squadra che gioca un calcio intenso da diversi anni, non da qualche mese. Sembra quasi una squadra inglese. A livello di singoli mi ha colpito molto Kulusevski. Commentai una delle sue prime partite in A, quella contro il Cagliari, in cui il Parma perse 1-3, era settembre. Lui, nonostante la sconfitta, brillò. Credo sia destinato ad arrivare lontano.

Atalanta, Napoli e Juventus: quante possibilità dai loro in Champions?

Il compito più difficile spetta al Napoli. Al Barcellona sono ancora arrabbiati per aver perso in quel modo la Liga e non faranno sconti. L’Atalanta deve fare attenzione a non sottovalutare il PSG. È vero che da mesi non gioca una partita ufficiale, ma è comunque una delle squadre più forti del pianeta. La Juve è quella che vedo un po’ più avanti a livello di pronostico ma la squadra di Sarri dovrà essere brava a riconquistare una condizione fisica migliore rispetto a quella attuale.

In ultimo, domanda banale ma mai troppo: in un’intervista in passato hai svelato che il tuo sogno “professionale” sarebbe quello di commentare una finale dei Mondiali. Confermi? Magari, Italia-Inghilterra?

Sarebbe un sogno! Ma anche commentare una partita decisiva per il titolo, stile City-QPR di qualche anno fa, non sarebbe male.

6 buone ragioni per guardare The Last Dance (articolo per non appassionati)

È la serie del momento, noi appassionati l’abbiamo già divorata ma, ve lo assicuriamo, vale la pena guardarla indipendentemente dal proprio tifo sportivo o dalla propria vicinanza al basket.

Chi scrive, personalmente, l’ha terminata solo da qualche ora ed ha ancora il cuore e gli occhi pieni di emozioni e giocate uniche. Ma quel che conta sta fuori dal campo. Perché The last dance, il prodotto televisivo di cui tutti parlano, già da tutti riconosciuta come la serie tv sportiva migliore di sempre, è molto più del racconto di un’epopea cestistica.

È tanto altro. Che cosa nello specifico? Abbiamo provato a sintetizzarlo così, con i 6 buoni motivi per cui chiunque dovrebbe guardarla. Sei, come i titoli vinti dai Chicago Bulls e raccontati nel corso della serie.

La trama. Già, perché c’è una trama, esattamente come in una serie tv che si rispetti. C’è un intreccio complesso, per il quale occorrerebbe scomodare i principali studi sulla narrazione classica. C’è un protagonista assoluto, che non a caso compare costantemente e attorno al quale ruota l’intera narrazione. Ci sono i suoi aiutanti, ci sono gli antagonisti e quelli che Greimas avrebbe definito come “opponenti” verso la conquista dell’oggetto di valore, rappresentato dalla seconda “three-peat”, ovvero la vittoria per tre anni consecutivi del titolo di campioni NBA dei Chicago Bulls. E vi sveliamo una cosa: non è finzione, è pura realtà!

MJ. Ovviamente c’è lui, Michael Jordan. Sarebbe riduttivo, forse, definirlo come il più grande cestista della storia e uno dei più grandi atleti mai visti nel corso del ventesimo secolo. Michael Jordan ha rappresentato un’icona per il suo modo di stare nel rettangolo di gioco, di comportarsi al di fuori di esso, di dialogare e discutere con compagni e media. Davvero, se volete capire come nasce un mito, The Last Dance ve lo dirà, attraverso immagini uniche e inedite che raccontano tutto, dalla vita privata al rapporto con le forze dell’ordine, fino ai punti di forza (l’allenamento, la passione, la voglia di primeggiare) e i punti deboli (la morte del padre, il gioco d’azzardo, il carattere talvolta discutibile).

Lo star system (americano). Michael Jackson, Madonna, Elvis Presley, Lady Gaga. C’è un po’ di tutti loro in un serie tv che attraverso la scalata di Michael Jordan e dei Bulls ci racconta passo dopo passo che cosa significa essere un divo. È lo star system inteso all’americana nel suo pieno svolgimento. Il ragazzo di periferia (e di colore) che diventa il più forte di tutti. Basteranno i numeri a certificarlo, come nel caso delle snickers vendute con il nome di Jordan nel primo anno di collaborazione con la Nike (che deve di fatto la sua fama solo ed esclusivamente a lui). Un sistema senza via d’uscita, con i suoi elementi negativi, talmente accentuati da spingere un campione a preferire il silenzio e il ritiro dall’attività (temporanei) alla celebrità quotidiana.

La seconda metà del Novecento in 10 puntate. C’è uno sportivo che ha fatto storia in The Last Dance, ma c’è soprattutto la storia che passa attraverso le gesta di uno sportivo. Già, perché in dieci puntate vi accorgerete di come gran parte delle vicende narrate sono strettamente connesse ai grandi fatti della storia (americana e non) dal Secondo Dopoguerra ad oggi. Dalle proteste studentesche del 1968 alla guerra in Libano, passando per le discriminazioni razziali e l’avvento del consumo di massa. Il quadro di una generazione.

Dennis Rodman. Se non vi entusiasma MJ, esaltato come meritava e forse anche più del dovuto; se non vi affascina più di tanto la storia di una squadra che giocò più di vent’anni fa, beh, fatelo per Dennis Rodman. Di gran lunga il principale candidato ad un’immaginaria palma per il miglior attore non protagonista, Dennis in meno di dieci ore di video è tutto: il folle, il cattivo, l’uomo vinto dalla sua stessa fama, il ragazzo che non riesce a liberarsi dal suo passato ma anche e soprattutto l’atleta capace di azioni al limite del sovrannaturale. Dennis è la storia di uno come noi (oddio, forse un po’ più matto) che arriva in alto con la forza ma che non si allontana dal suo modo di essere.

Barack Obama. Chiudiamo così, con il nome del primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti d’America. In politica, quando un personaggio famoso “scende in campo” per esprimere il proprio consenso ad un politico, si parla di endorsement. Qui, è accaduto il contrario: Obama ci ha messo la faccia, comparendo in alcune puntate, per confermare che quando si parla di Michael Jordan e dei “suoi” Chicago Bulls si sta sfogliando una delle pagine più gloriose della storia USA del Novecento. E se lo dice lui…

Nota a margine. Vi diamo una settima ragione, ahinoi drammaticamente “fresca”. Guardare The Last Dance significa comprendere che cosa rappresenta il basket per gli USA, anche da un punto di vista sociale. Capirete così perché conta davvero tanto una maglietta indossata da Lebron James con su scritto “I can’t breathe”.

6 buone ragioni per guardare The Last Dance (articolo per non appassionati)

È la serie del momento, noi appassionati l’abbiamo già divorata ma, ve lo assicuriamo, vale la pena guardarla indipendentemente dal proprio tifo sportivo o dalla propria vicinanza al basket.

Chi scrive, personalmente, l’ha terminata solo da qualche ora ed ha ancora il cuore e gli occhi pieni di emozioni e giocate uniche. Ma quel che conta sta fuori dal campo. Perché The last dance, il prodotto televisivo di cui tutti parlano, già da tutti riconosciuta come la serie tv sportiva migliore di sempre, è molto più del racconto di un’epopea cestistica.

È tanto altro. Che cosa nello specifico? Abbiamo provato a sintetizzarlo così, con i 6 buoni motivi per cui chiunque dovrebbe guardarla. Sei, come i titoli vinti dai Chicago Bulls e raccontati nel corso della serie.

La trama. Già, perché c’è una trama, esattamente come in una serie tv che si rispetti. C’è un intreccio complesso, per il quale occorrerebbe scomodare i principali studi sulla narrazione classica. C’è un protagonista assoluto, che non a caso compare costantemente e attorno al quale ruota l’intera narrazione. Ci sono i suoi aiutanti, ci sono gli antagonisti e quelli che Greimas avrebbe definito come “opponenti” verso la conquista dell’oggetto di valore, rappresentato dalla seconda “three-peat”, ovvero la vittoria per tre anni consecutivi del titolo di campioni NBA dei Chicago Bulls. E vi sveliamo una cosa: non è finzione, è pura realtà!

MJ. Ovviamente c’è lui, Michael Jordan. Sarebbe riduttivo, forse, definirlo come il più grande cestista della storia e uno dei più grandi atleti mai visti nel corso del ventesimo secolo. Michael Jordan ha rappresentato un’icona per il suo modo di stare nel rettangolo di gioco, di comportarsi al di fuori di esso, di dialogare e discutere con compagni e media. Davvero, se volete capire come nasce un mito, The Last Dance ve lo dirà, attraverso immagini uniche e inedite che raccontano tutto, dalla vita privata al rapporto con le forze dell’ordine, fino ai punti di forza (l’allenamento, la passione, la voglia di primeggiare) e i punti deboli (la morte del padre, il gioco d’azzardo, il carattere talvolta discutibile).

Lo star system (americano). Michael Jackson, Madonna, Elvis Presley, Lady Gaga. C’è un po’ di tutti loro in un serie tv che attraverso la scalata di Michael Jordan e dei Bulls ci racconta passo dopo passo che cosa significa essere un divo. È lo star system inteso all’americana nel suo pieno svolgimento. Il ragazzo di periferia (e di colore) che diventa il più forte di tutti. Basteranno i numeri a certificarlo, come nel caso delle snickers vendute con il nome di Jordan nel primo anno di collaborazione con la Nike (che deve di fatto la sua fama solo ed esclusivamente a lui). Un sistema senza via d’uscita, con i suoi elementi negativi, talmente accentuati da spingere un campione a preferire il silenzio e il ritiro dall’attività (temporanei) alla celebrità quotidiana.

La seconda metà del Novecento in 10 puntate. C’è uno sportivo che ha fatto storia in The Last Dance, ma c’è soprattutto la storia che passa attraverso le gesta di uno sportivo. Già, perché in dieci puntate vi accorgerete di come gran parte delle vicende narrate sono strettamente connesse ai grandi fatti della storia (americana e non) dal Secondo Dopoguerra ad oggi. Dalle proteste studentesche del 1968 alla guerra in Libano, passando per le discriminazioni razziali e l’avvento del consumo di massa. Il quadro di una generazione.

Dennis Rodman. Se non vi entusiasma MJ, esaltato come meritava e forse anche più del dovuto; se non vi affascina più di tanto la storia di una squadra che giocò più di vent’anni fa, beh, fatelo per Dennis Rodman. Di gran lunga il principale candidato ad un’immaginaria palma per il miglior attore non protagonista, Dennis in meno di dieci ore di video è tutto: il folle, il cattivo, l’uomo vinto dalla sua stessa fama, il ragazzo che non riesce a liberarsi dal suo passato ma anche e soprattutto l’atleta capace di azioni al limite del sovrannaturale. Dennis è la storia di uno come noi (oddio, forse un po’ più matto) che arriva in alto con la forza ma che non si allontana dal suo modo di essere.

Barack Obama. Chiudiamo così, con il nome del primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti d’America. In politica, quando un personaggio famoso “scende in campo” per esprimere il proprio consenso ad un politico, si parla di endorsement. Qui, è accaduto il contrario: Obama ci ha messo la faccia, comparendo in alcune puntate, per confermare che quando si parla di Michael Jordan e dei “suoi” Chicago Bulls si sta sfogliando una delle pagine più gloriose della storia USA del Novecento. E se lo dice lui…

Nota a margine. Vi diamo una settima ragione, ahinoi drammaticamente “fresca”. Guardare The Last Dance significa comprendere che cosa rappresenta il basket per gli USA, anche da un punto di vista sociale. Capirete così perché conta davvero tanto una maglietta indossata da Lebron James con su scritto “I can’t breathe”.

Morti per la libertà

(Foto: Bruno Neri rifiuta il saluto romano nel corso dell’inaugurazione dello Stadio “Giovanni Berta” di Firenze, 1931)

C’è Armando, che morì con la tessera della Fiorentina nella tasca della divisa. C’è Carlo, che preferì immolarsi, pur di non veder morire il padre. C’è Rino, che con la banda più multietnica che si potesse immaginare al tempo fece tremare la Francia occupata, prima di essere giustiziato.

È lunga, la lista dei calciatori che quasi ottant’anni fa scelsero di non omologarsi e di dire no, forti anche del loro ruolo di esempi (non ancora così marcato come oggi, ma certamente già rilevante). Preferirono morire per la libertà, nonostante lo status raggiunto garantisse loro, in molti casi, la tutela da parte del regime.

L’elenco dei campioni morti perché in dissenso, più o meno accentuato, con il regime fascista è molto ampio, ma le storie che racconta sono tutte a modo loro eccezionali.

Quella di Bruno Neri, ad esempio, è la storia di un antifascismo lungo vent’anni, maturato sui campi di calcio e giunto a compimento sulle montagne tosco-emiliane. Nato a Faenza nel 1910, Bruno fu un mediano di qualità, molto apprezzato per lo spirito al sacrificio. Collezionò quasi 200 presenze alla Fiorentina, che lo aveva acquistato per 100mila lire, prima di trasferirsi a Lucchese e Torino, con cui riuscì anche a guadagnarsi la convocazione nella nazionale italiana in tre occasioni.

La storia, però, la fece come “Berni”, il nome di battaglia assunto una volta entrato nel Battaglione Ravenna. Morì in uno scontro a fuoco con i fascisti il 10 maggio 1944, presso l’eremo di Gamogna. Il seme dell’antifascismo, però, Bruno lo aveva già gettato nel 1931, quando di fronte ad una folla estasiata per l’inaugurazione del nuovo stadio di Firenze rifiutò di alzare il braccio per il saluto fascista alle autorità. Un gesto immortalato in una foto che divenne da subito simbolo di lotta.

Nella sua breve parentesi a Lucca, “Berni” conobbe Arpad Weisz, ungherese di origine, ebreo di famiglia, che negli anni Trenta aveva fatto molto parlare di sé come allenatore del Bologna, vincitore di due scudetti e di cui si disse “che tremare il mondo fa”. Arpad fu vittima delle persecuzioni razziali, si rifugiò nei Paesi Bassi ma fu catturato e morì ad Auschwitz il 31 gennaio 1944. La sua grandezza sportiva, però, ne ha reso eterno il mito.

Fu un sacrificio, invece, quello di Carlo Castellani, forse fra i più noti calciatori caduti per la libertà, essendo il suo nome legato allo stadio di Empoli. Proprio dell’Empoli degli anni Venti e Trenta fu attaccante simbolo, realizzando 61 reti in maglia azzurra. Simpatizzante socialista, Carlo aveva ereditato la passione politica dal padre e prima ancora dal nonno David, dichiaratamente socialista e, secondo i repubblichini, mente dello sciopero generale indetto dal Cln nel 1944.

In risposta a quello sciopero le Brigate Nere organizzarono un rastrellamento, che aveva lo scopo di raggiungere e giustiziare lo stesso David. Alla retata, però, si presentò il nipote Carlo, autoaccusandosi al posto del nonno e del padre. Fu arrestato e deportato al campo di concentramento di Gusen, dove morì di dissenteria pochi mesi dopo, l’11 agosto 1944.

Carlo amava il calcio, a cui dedicò la sua breve vita, proprio come Armando Frigo, centrocampista, nato negli Stati Uniti da famiglia italiana e morto per combattere il nemico nazista. Giocò per Vicenza, Fiorentina e Spezia, prima di diventare ufficiale del Regio Esercito. Dopo l’8 settembre 1943, Armando, che si trovava in Dalmazia, combatté da eroe insieme ad altri 39 soldati per difendere la città di Crkvice: resistette per un lungo mese, favorendo l’avanzata della Brigata Alpina Taurinense, prima di soccombere alla Wermacht, che lo fucilò il 10 ottobre 1943, dopo un processo sommario.

Nel portafoglio sottratto al suo cadavere fu rinvenuta, come primo oggetto del caduto, la tessera da calciatore della Fiorentina di Armando. Armando amava il calcio, simbolo di libertà.

Pizzaballa, Il feroce Saladino e altri eroi: benvenuti nel magico mondo delle figurine!

Te ne innamori da piccolo, le annusi, le accarezzi, le guardi e le riguardi. Poi, forse anche un po’ per sentirti grande, fai finta di non averle mai viste da adolescente e le dimentichi in qualche cassetto. Quindi, una volta adulto, le recuperi, le rispolveri e da lì non le lasci più.

Il rapporto con le figurine, soprattutto per noi ragazzi italiani, è un po’ questo, da sessant’anni a questa parte. Mio padre tifa Inter e ricorda di averci giocato con i suoi amici per potersi accaparrare Ivano Bordon, secondo portiere introvabile a inizio anni Settanta: ci si sedeva in corridoio a scuola, si lanciavano le figurine e se la tua finiva su quella di un altro, in automatico la sua diventava tua. Mio cugino non ha mai tifato fino in fondo, eppure qua e là, un po’ impolverato, qualche album, magari non completo, ce l’ha. Io ricordo di aver iniziato nei primi anni Duemila, ho smesso ma ora sono tornato ad amarle e molte di quelle di un tempo mi rievocano ancora le sensazioni di vent’anni fa: il profumo dei chewing gum che le accompagnavano, l’odore dell’album appena comprato, mia mamma che tornava dalla spesa con due pacchetti e mi riempiva di gioia.

Ecco perché un po’ tutti, in un modo o nell’altro, dobbiamo alle figurine una fetta dei nostri ricordi, più o meno lontani nel tempo.

Eppure, nel 2020, le figurine sono anche e soprattutto un fenomeno da business unico nel suo genere. Una bustina, oggi, costa 80 centesimi e ne contiene 6, a inizio anni Sessanta costava 10 lire, ma è il mercato delle figurine di un tempo a far girare la più grande quantità di denaro. Perché? Perché alcune, per ragioni a volte misteriose, sono rare o rarissime.

Il primo scandalo. La prima introvabile, in realtà, non aveva nulla a che vedere con il calcio e tanto meno con la Panini, che oggi ha legato indissolubilmente il suo nome ai volti dei calciatori ovunque nel mondo. Era Il Feroce Saladino, uno dei tanti personaggi immaginari e storici presenti nella collezione promossa da Buitoni e da Perugina nel 1937. Letteralmente introvabile, o poco meno. A differenza degli altri protagonisti della raccolta (Tarzan, Cleopatra, ecc.) era stato forse volutamente stampato in minore quantità e i bambini del tempo impazzirono per trovarlo.

La prima. Oggi vale centinaia di euro la figurina di Bruno Bolchi, milanese classe 1940. Non perché entusiasmasse in campo (vinse ma non fu un fuoriclasse), quanto perché leggenda vuole che sia stata la sua la prima figurina stampata, nell’autunno del 1961. Era capitano dell’Inter e per qualche strana ragione i fratelli Panini di Modena scelsero di partire da lui per una raccolta che avrebbe rivoluzionato per sempre il mondo del collezionismo e la vita dei ragazzi.

Pier Luigi Pizzaballa e gli altri anonimi indimenticati. La vera leggenda del “celo celo manca” è però nata intorno a loro: gli introvabili degli anni Sessanta e Settanta. Su tutti, il nome più noto è quello di Pier Luigi Pizzaballa, ovvero la figurina numero 1 della stagione 1963/64 e di qualche annata successiva, perché portiere dell’Atalanta, prima squadra in ordine alfabetico. Era difficile da trovare e, soprattutto, non averlo significava non avere il volto che apriva la raccolta: ecco perché qualcuno gridò allo scandalo, accusando la Panini di averne stampata in minore quantità. La risposta? La stessa ancora oggi: “Stampiamo in egual numero tutte le figurine”. È tutt’ora un mistero affascinante.

La coccoina. È domanda da quiz televisivo: “che cos’è la coccoina?”. Nulla a che vedere con la droga, nonostante l’assonanza. La coccoina è una pasta bianca, a base di fecola di patate ed acqua, prodotta da una ditta di Voghera e resa celebre proprio perché era utilizzata (fino al 1971/72) per incollare le figurine, che al tempo non avevano ancora la velina adesiva che le ha poi rese uniche.

La più cara. Infine, la più cara. Ci sono tante ragioni perché una figurina risulti più preziosa di altre: la rarità, un errore a cui è legata oppure, per le più recenti, l’assenza nel magazzino Panini (è il caso, ad esempio, della figurina di Del Piero numero 166 del 2003/04, esaurita!). Ma la più cara in assoluto… riguarda il baseball! È quella di Honus Wagner, giocatore di Pittsburgh a inizio Ventesimo secolo. La sua figurina, prodotta sui pacchetti di sigarette nel 1909 è letteralmente introvabile, perché il giocatore stesso ne bloccò le riproduzioni: non voleva che il suo volto inducesse i ragazzini a fumare!

Numero di esemplari integri oggi? 57.

Valore commerciale? Tenetevi forte… 3 milioni di dollari!

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