La fredda cronaca che dà corpo alla tragica notte del 27 agosto 1950 è, oggi, storia ancora più fredda. In una stanza dell’Hotel Roma in via Carlo Felice a Torino, Cesare Pavese ha da poco finito di scrivere, su una pagina dei Dialoghi con Leucò, le sue ultime tredici parole: «Perdóno tutti e a tutti chiedo perdóno. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.». Ripone il libro e la penna sul tavolino accanto al letto. Si sdraia. Ingerisce dieci bustine di barbiturici. L’indomani viene ritrovato senza vita. Nei giorni seguenti, rovistando tra le sue carte, balzano fortunatamente fuori – per l’umanità – dieci poesie che daranno vita alla raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. La quinta poesia della silloge «You, wind of march» esordisce, come si direbbe in musica, con un fortissimo:

«Sei la vita e la morte». Punto.

Tu, in questo caso una donna (una metonimia dell’amore), sei la vita e la morte. Le prime tre parole chiave per comprendere l’opera in prosa e in versi di Pavese. La donna. La vita. La morte.

La poesia, dopo qualche verso, continua così:

«[…] Ora la terra e il cielo

sono un brivido forte,

la speranza li torce,

li sconvolge il tuo passo,

il tuo fiato d’aurora.

Sangue di primavera,

tutta la terra trema

di un antico tremore.»

La terra, intesa come campagna; o a volte chiamata semplicemente la vigna. Ecco la quarta parola chiave nella poetica di Pavese. La terra!

L’ultima parola è nascosta nella poesia seguente: Passerò per Piazza di Spagna

«S’aprirà quella strada,

le pietre canteranno,

il cuore batterà sussultando

come l’acqua nelle fontane –

sarà questa la voce

che salirà le tue scale.

Le finestre sapranno

l’odore della pietra e dell’aria

mattutina. S’aprirà una porta.

Il tumulto delle strade

sarà il tumulto del cuore

nella luce smarrita.

Sari tu – ferma e chiara.»

La città. La quinta parola chiave. È in questi cinque mondi che vive Cesare. Non lo troverete in quello politico, filosofico, sociologico e in nessun altro -ico. Ogni scrittore ha una tragedia da raccontare. La sua è racchiusa in queste cinque semplici parole.

Ora, per dovere di narrazione ritornerò alla fredda cronaca.

Questa – ahimé! per brevità di battute – ha inizio il 1° gennaio di quel 1950. Pavese nel suo diario, pubblicato postumo con il titolo Il mestiere di vivere, annota:

«Roma […] Passeggiata mattutina. Bel sole. Ma dove sono le impressioni del ’45-’46? Ritrovato a fatica gli spunti, ma niente di nuovo. Roma tace. Né le pietre né le piante dicono più gran che. […] Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo. L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire.».

È nei giorni successivi a queste parole che conosce l’attrice statunitense Constance Dowling, della quale si innamora. I due vivono una breve storia d’amore – più platonica probabilmente che, parafrasando Nietzsche, dionisiaca – prima che lei tronchi la loro relazione per ritornare definitivamente negli Stati Uniti.

Molti, forse anche troppi, non rispettando le ultime volontà dello scrittore, hanno spettegolato… attribuendo il climax dello spleen pavesiano a questo fulmineo – insperato per lui – abbandono.

È molto romantico, cinematografico quasi, pensarla così. È probabile che Hannah Arendt avesse un’enorme dose di ragione nel teorizzare la banalità del male. Spesso questo è vero: davanti ai fatti più tragici, alle morti più efferate, ai più grandi orrori commessi dall’uomo siamo tanto sopraffatti da doverli motivare per poterli accettare. A volte il male, insomma, è banale! Eccola lì. Quindi è probabile che Pavese si sia davvero suicidato per amore. Forse io la penso diversamente perché sono innamorato di Pavese. Perché, come mi ha chiesto, l’ho perdonato. E la mia motivazione per giustificare la banalità dietro al suo gesto inizia da questa domanda: uno degli scrittori più fulgidi che l’Italia del XX secolo abbia letto, ha tagliato il filo della sua vita per una delusione amorosa? Il male di Pavese era di sicuro banale… ma non così tanto, io credo. Era un male di vivere pervasivo, atavico; come chiunque abbia studiato la sua vita, il suo diario e la sua corrispondenza può intuire.

Ripeto però: è molto romantico rendersi conto che le ultime fatiche da scrittore siano stati i versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. La raccolta, infatti, si apre con questa poesia, datata 22 marzo 1950: To C. from C. (A Constance da Cesare), scritta interamente in inglese. Le nove poesie d’amore (otto in italiano e un’altra in inglese) che seguono sono, tutte, l’ovvia testimonianza del suo amore per l’attrice. Nonché il compendio di tutta la sua tragica, celestiale, romantica produzione: la città; la cui insonnia era vista come una medicina per lenire la sua tristezza e al tempo stesso un groviglio nel quale era impossibile vivere. La donna; una sublimazione di un ideale più che carne e ossa; un essere angelico, idilliaco. Eppure, o proprio per questo, avvertito come inavvicinabile, impossibile da raggiungere. La terra, «la vigna» ultimo baluardo, estrema ancora di salvezza a cui aggrapparsi per non soccombere ma luogo stretto, castrante. Tre parole chiave. Tre simboli della Vita e della Morte. Tre materializzazioni della sua incapacità di stare al mondo, di interagire e vivere insieme a queste entità, rendendole parti a sé affini e non in antitesi… delle nemesi contro le quali lottare fino a perdere il senno.

Se fossimo all’oscuro della vita di Pavese, e del suo tragico epilogo, la sua opera sembrerebbe quella di un uomo che non ha ancora bruciato tutta la sua candela. Questi sono, infatti, i versi conclusivi di You, wind of March

«La speranza si torce,

e ti attende ti chiama.

Sei la vita e la morte.

Il tuo passo è leggero.»

Le sue – da quel poco che fin qui avete letto – sono parole ariose, chiare, semplici… Panteistiche come in Whitman a volte. In loro c’è tristezza, è vero.. ma anche tensione di superamento, forte volontà. Leggendole, una ad una, si ha come la sensazione che qualcosa in quella vita si sia irrimediabilmente incagliato; eppure vanno avanti. Camminano con grazia. Sono parole piene di speranza, fiducia, amore.

Le parole di Pavese sono come le sue vigne, come la terra. Tutto muore ma tutto si rigenera. Tutto scorre nei suoi versi. Panta rei. Tutto risorge.

La bellezza interiore della Parola, quando questa è vera e valida, risiede nell’umano desiderio di essere eterno; di sconfiggere il Tempo. Di uccidere la Morte. Pavese è morto… ma se ci sono io qui a scrivere e un tu o un voi lì a leggere, allora la sua candela è ancora accesa.

La fredda cronaca di quel caldo 1950 piemontese è mancante di poco altro. Nell’aprile di quell’anno fu pubblicato uno dei suoi capolavori – per me Il suo capolavoro – in prosa La luna e i falò, dove, sulla seconda di copertina, compare una dedica:

«for C.

Ripeness in all».

A giugno ritira il Premio Strega per il romanzo La bella estate. In agosto, dalla sua residenza estiva, scrive – alla diciottenne Romilda Bollati, con la quale stava vivendo una storia d’amore – queste poche righe, piene di parole vere, lucide, semplici, perfette… come, già detto, tutta la sua Opera.

«Bocca di Magra. Agosto 1950

Cara Pierina,

[…] Il motivo immediato è il disagio di questa rincorsa dove non ballando e non guidando resto sempre perdente. Ma c’è una ragione più vera. Io sono come si dice… alla fine della candela […] se mi sono innamorato di te non è soltanto perché, come si dice, ti desiderassi, ma perché tu sei della mia stessa levatura e ti muovi e parli come, da uomo, farei io, se invece di imparare a scrivere avessi avuto il tempo di imparare a stare al mondo […] Ma tu per quanto inaridita e quasi cinica, non sei alla fine della candela come me. Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che ero io a ventotto anni quando, risoluto di uccidermi per non so che delusione, non lo feci – ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia, come avere il diabete o il cancro dei fumatori. Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo? E ricordarti che, per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi e la fantasia pronta e precisa, e il gusto delle confidenze altrui? E che sono al mondo da quarantadue anni? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto. Tutto questo te lo dico non per impietosirti – so che cosa vale la pietà, in questi casi – ma per chiarezza, perché tu non creda che quando avevo il broncio lo facessi per sport o per rendermi interessante. Sono ormai di là della politica. L’amore è come la grazia di Dio – l’astuzia non serve. Quanto a me, ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo – ma mi chiedo sovente che cosa ti consiglierei se fossi tuo fratello. Purtroppo non lo sono. Amore.».

Il resto della cronaca lo conoscete.

Carlo Di Giovanni