Sono entrati nell’ambulatorio in tre. Madre, padre, figlio. C’erano due sedie. Il figlio appoggiato al muro. Struttura portante. In successione padre e madre. Lui riempiva tutta la sedia, lei solo metà. Magra, sulle mani il decorso delle vene. Negli occhi di tutti e tre quello che rimane delle lacrime.

-Signora, lo sa cosa sta succedendo? Cosa le hanno detto?
Apre bocca lei, lei con capelli neri profumati, gli occhi lucidi perfettamente truccati, sulle labbra il rossetto, ad incorniciare le parole. La pelle abbronzata e vuota, che si lascia scivolare in basso da fuori. La voce misurata da una paura controllata. Sono stati fatti degli esami, sono state trovate delle lesioni. Alterazioni della mucosa dell’intestino. La prima, grande. La seconda, piccola, rimossa con l’endoscopio. La terza, insidiosa. Né piccola, né grande. Per ora, incomprensibile. La prima e la terza, in due parti opposte dell’intestino.
Ci gira intorno per poi andare dritta al sodo.
-Dottore, parliamoci chiaro, che possibilità ho di sopravvivere?
Lei, signora curata e dignitosa, non le si addice lo status di malata. Ben tenuta, ricercata e profumata, sa di tutto meno di cancro. Ma lei vuole comunque sincerità e trasparenza. Lei sente di gente che scopre di essere malata, rimane ottimista, positiva e combattiva. E poi muore. Non capisce il senso di tutto questo. Non vede i benefici della forza e del coraggio.
-Signora, se partiamo già così non ci siamo.

Figlio e padre, strutture non più portanti, cercando di farle forza, osservano che non ci sono ancora metastasi al fegato e ai polmoni e che la tecnologia in questi ultimi anni ha fatto passi da gigante nella terapia e nel controllo del dolore. Cercano conferma nelle parole del dottore, inventando una complicità nella ricerca di sguardi estranei. Una timida e insicura voce, su cui si attacca la flebile speranza del bicchiere mezzo pieno, come un foglio di carta in equilibrio sui fili del bucato. Senza mollette. Vogliono essere di nuovo strutture portanti. Ma lei non ascolta e si lascia scivolare in basso da dentro.

– Mi dica lei, voglio sapere le alternative all’intervento. Ma non ce ne sono. L’unica via possibile per la vita deve passare attraverso i ferri e le cicatrici.

-Ma che qualità di vita? Lei con due pezzi di colon, pensa di perdere la dignità.
-Ma guardi, prima di tutto c’è la vita.- Il chirurgo.
-No, per me, prima di tutto c’è la qualità della vita.- La paziente che non vuole essere malata.
-Io non ho mai sentito pazienti che si siano lamentati della loro vita dopo l’operazione.- Il chirurgo
Ma lei non ha chiesto questo. Lei ha chiesto come e cosa dovrà mangiare dopo, il dolore che sentirà, il disagio di cenare fuori casa, la normalità e la libertà che perderà. Oppure il sollievo che avrà. In quanto tempo si riprenderà.

-Sono praticamente piena, questo non ce lo aspettavamo. È un’invasione. Lo ammette per la prima volta esterrefatta, ma non lo combatte, non vede ancora le sue armi.
-Se il dolore può far paura le dico che esistono dei cateteri peridurali che hanno lo scopo di rilasciare sostanze antidolorifiche gradualmente che riducono notevolmente il dolore durante e dopo l’intervento.
Ma a lei non fa paura il dolore. Lei ha paura di morire. Glielo si legge negli occhi, nella pelle, nel viso truccato che dice quanto si vuole bene e proprio per questo si capisce che lei ha paura di morire, e di perdere quello che rende di sua proprietà la sua stessa esistenza.

Lei si alza dalla sedia, insieme a lui. Porgono gentilmente la mano al medico. Si sono fatti bastare quelle rassicurazioni. Ringraziano educatamente. Escono. La porta rimane aperta, per accogliere il prossimo paziente.

Il sottile pugno nello stomaco tra la vita e la qualità della vita. Lei che ora ha qualità, lei che altrimenti non sarebbe vita.

-Fidatevi di me, dopo un po’ non ne potrete più di dare cattive notizie. – Il chirurgo abbassa gli occhi dicendoci questo. Li rialza quando arriva l’ultimo paziente.

Entra da sola una donna anziana. Muro portante di se stessa. Non riesce a togliersi la giacca. Puzza. Ha gli occhi storti – fortunata lei, che vede più mondo contemporaneamente. Ha una voce priva di qualsiasi tragicità. Ha l’aria trascurata, ma accenna sorrisi. Martedì deve operarsi e siamo a venerdì. Ma non ha paura di morire. La sua paura è di non riuscire a prepararsi correttamente, di sbagliare le medicine, di mangiare troppo o troppo poco. Questo perché non ha nessuno, è davvero sola. Lo dice lei stessa. Ma non ha occhi velati. Dice che martedì prenderà il primo autobus per arrivare in ospedale. E dopo sarà pronta. Muro portante di se stessa, per quei cinque minuti di fragilità, durante la visita sotto le mani esperte di chirurghi magari frustrati, ma non soli.

Corridoio del blocco blu. Piano terra. Tra la folla dell’ora di pranzo, si avvicina una carrozzina, la spinge una ragazza. Seduto un uomo, dal volto famigliare, ma scheletrito. Lo riconosco all’ultimo, gli sorrido sfuggente, con un cenno di mano. Mi torna indietro un sorriso riflesso, senza cenni di mano. Non credo mi abbia riconosciuta. Lo scopro una settimana dopo, ricoverato al sesto piano. Un amico di mio padre, sclerosi laterale amiotrofica, malattia degenerativa che colpisce progressivamente tutti i muscoli. Ecco perché non poteva più salutarmi con la mano. Non può più mangiare, né tenere alta la testa. Non riesce più a parlare. Non riuscirà più a respirare. Già adesso è completamente dipendente dalla madre, che ha 80 anni, vedova da 13. Comunica con una lavagnetta. Scrive parole, domande e risposte. Si sforza di esserci ancora nel mondo. Reagisce. Continua a vivere. Scrive, a distanza di una settimana, di avermi riconosciuta, in mezzo alla folla dell’ora di pranzo, venirgli incontro nel mio fresco camice bianco con i miei giovani compagni, lui spinto su una carrozzina da una ragazza. Mi ha visto sorridergli di sfuggita e alzargli la mano. Il suo sorriso – si, un uomo ridotto così può ancora sorridere- era un saluto.
È una malattia terribile quella. Ti prende pian piano tutti i muscoli e nell’arco di un anno ti rende estraneo al tuo stesso corpo. Per ogni tua necessità si inizia a dipendere dal prossimo.

Il sottile pugno nello stomaco tra la vita e la qualità della vita. Lui che ora è vita, lui che altrimenti non avrebbe qualità.

Il sottile pugno nello stomaco tra la vita e la qualità della vita blocca i pasti a metà. Fa rimbombare nel cervello i mille interrogativi della gente dei chissà, che rimbalzano da una situazione all’altra, sul muro di risposte mancanti a domande soddisfatte solo a metà.