Un nome di donna spicca all’interno di una letteratura quasi di monopolio maschile quale quella italiana. Il nome è Elsa, il cognome Morante. Segni particolari? Grandissima capacità affabulatoria, per merito della quale sono nate vere e proprie pietre miliari della narrativa del Novecento come Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo e La storia.

Elsa Morante nasce a Roma e qui muove i suoi primi passi da scrittrice. Sempre nella capitale, conosce lo scrittore e futuro marito Alberto Moravia e frequenta i più importanti ambienti intellettuali. Sebbene profondamente immersa nella città natia, l’autrice legò il suo nome anche a un altro affascinante luogo: Procida, un’isola tutta limoni e colori che contorna Napoli.

È il 1955 quando dalla penna di Elsa, nel giardino dell’Albergo Eldorado di Procida, nasce L’isola di Arturo, che Asor Rosa considera il suo risultato più alto e poetico e che, nel 1957, vince il Premio Strega. Procida è il palcoscenico su cui si muovono i personaggi del libro, ma non rimane un semplice sfondo: acquista un ruolo di rilievo per il significato che assume per il protagonista e narratore, Arturo Gerace. Arturo, orfano di madre e quasi abbandonato dal padre giramondo, vede nello spazio chiuso e ben delimitato dell’isola una sorta di grembo materno in cui rifugiarsi. Questo si comprende fin dalle prime pagine, in cui il narratore, dopo essersi presentato, dedica un capitoletto intero alla sua isola: disegna le strade, il porto, le botteghe, la chiesa, parla del penitenziario – nota triste e dissonante in questa musica festosa che è Procida – e della sua abitazione, la Casa dei Guaglioni. La descrizione è particolareggiata ed estremamente realistica e la vita sull’isola corrisponde all’infanzia e adolescenza di Arturo, trascorse in assoluta serenità: «La felicità per me era sempre stata una compagna naturale del mio sangue», conferma la voce narrante.

Arturo vive in uno stato di robinsonismo selvaggio: «Avrei voluto, con questo libro, scrivere una storia che somigli un poco in certe cose a Robinson Crusoe, cioè la storia di un ragazzo che scopre per la prima volta tutte le cose più grandi, più belle e anche quelle brutte della vita» dichiara la Morante (in un’intervista che compare all’interno del documentario di Francesca Comencini). Egli è in sintonia con la natura e totalmente ostile nei confronti delle donne, eccezion fatta per la sua cagna Immacolatella: «esse mi parevano figure goffe, quasi informi. Erano sempre affaccendate, sfuggenti, si vergognavano di se stesse, forse perché erano così brutte […] certo io non mi sarei mai innamorato di una di loro, e non volevo sposare nessuna». Le uniche figure femminili che lo interessano sono quelle «regali e stupende» delle sue letture, ma è convinto che siano una mera invenzione libresca. Tale misoginia è un tratto ereditato dal padre, Wilhelm Gerace, che Arturo eleva ad eroe: «La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza, ma nei brevi intervalli che trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane». Se si considera il romanzo un sistema di pianeti, Arturo è un satellite che orbita attorno al padre, mentre Wilhelm è attratto da un altro personaggiopianeta, il carcerato Tonino Stella. Astro a parte è invece Nunziatella, il terzo elemento che mette in crisi l’equilibrio creatosi tra Arturo e il padre, incrinando definitivamente anche l’adolescenza del protagonista: il tre non è mai un numero felice, come ci insegna Le affinità elettive.

Nunziatella entra nella Casa dei Guaglioni in qualità di giovanissima sposa del padre, ma anche lei è totalmente trascurata da Wilhelm. Inizialmente, come in una sorta di strambo teatrino edipico, Arturo è avverso a Nunziatella perché viene a inserirsi tra lui e il padre e perché, facendo entrare una donna nella loro casa, Wilhelm va contro alla misoginia che il figlio condivide con lui. Ma l’avversione iniziale si tramuta in amore: Arturo arriva a dichiararsi a Nunziatella e a perdere quella serenità che aveva caratterizzato la sua vita fino al suo arrivo. Tenta addirittura di compiere un gesto disperato quale il suicidio, che, per fortuna, non va in porto. Alla fine, Arturo è costretto ad abbandonare la sua isola felice – ormai non più tale -, ovvero l’adolescenza, per salpare verso l’età della coscienza e della maturità: il romanzo si chiude con Procida che si nasconde alla vista del ragazzo, mentre lui e il balio Silvestro si stanno allontanando in nave.

L’isola di Arturo è dunque un Bildungsroman, un romanzo di formazione, in cui sono innestati alcuni motivi fiabeschi. Il protagonista, infatti, affronta una serie di prove iniziatiche, molte legate alla sua prima pulsione amorosa, che lo traghettano verso la maturità; inoltre, come rileva Giovanna Rosa (G. Rosa, Elsa Morante), sono presenti nella narrazione alcuni oggetti-amuleti che scandiscono l’avventura iniziatica di Arturo: l’orologio del padre, l’anello di Silvestro, gli orecchini di Nunziatella. Anche Procida, seppure isola reale ed evocata con dovizia di particolari realistici, assume le fattezze di un luogo fantastico e mitico: «Nelle figurazioni dei miti eroici, l’isola rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la tentazione delle terre ignote. L’isola, dunque, è il punto di una scelta: e a tale scelta finale, attraverso le varie prove necessarie, si prepara qui nella sua isola l’eroe-ragazzo Arturo» (E. Morante, quarta di copertina della riedizione negli Struzzi del ‘75).

Insomma, l’astuzia della Morante è consistita nel prendere un luogo concreto e vestirlo di caratteristiche simboliche, per farne la concretizzazione della ridente giovinezza che il protagonista deve salutare.