Napoli è una città che disorienta per la sua eterogeneità. Il senso che domina il forestiero che non la conosce e la visita per la prima volta è quello di un profondo sperdimento: «sapere “dove si è ”non è certo facile a Napoli», scrive Raffaele La Capria (R. La Capria, L’occhio di Napoli, in Opere, Mondadori, p. 946). È impossibile, infatti, indovinare cosa si staglierà appena voltato l’angolo, durante una passeggiata, ma ogni passo permetterà di conoscere una nuova, diversa anima della città: dal suo cuore più verace, il centro storico, un reticolato di vie strette e gremite di cornetti per scacciare il malocchio, alle strade ariose e moderne della zona Chiaia, che ricordano di più Torino o Milano. E poi dal barocco della Chiesa del Gesù Nuovo, alle colorate maioliche del Monastero di Santa Chiara, passando per gli imponenti Maschio Angioino e Castel dell’Ovo, affacciati sul mare. Napoli è perfetta per chi ama la storia antica, con le rovine romane di Pompei ed Ercolano alle pendici del Vesuvio, ma anche per chi vuole godersi il mare, dalla esclusiva Capri alla meno frequentata Procida.

Immancabilmente, la città si presta anche per chi vuole fare una bella passeggiata nei luoghi della letteratura italiana. Molti, infatti, sono gli autori che hanno raccontato il capoluogo campano e che hanno
contribuito a fornire ulteriori prospettive da cui ammirarlo e interpretarlo, da Boccaccio, a Leopardi – sepolto, insieme a Virgilio, proprio a Napoli, all’interno del Parco Vergiliano – alla più contemporanea e
misteriosa Elena Ferrante. Nel novero degli scrittori napoletani rientra anche Raffaele La Capria, vincitore sia di numerosi premi alla carriera (Premio Campiello, Premio Chiara, Alabarda d’Oro, Brancati), sia, nel 1961, del Premio Strega con il suo più celebre romanzo Ferito a morte. La città è una parte consistente della sua narrativa e il rapporto che lo scrittore ha con essa è tormentato. Da un lato, La Capria ama il posto in cui è nato, soprattutto per il mare, onnipresente nei suoi libri, dall’altro ne rimane invischiato ed esso lo paralizza: «la mattina mi svegliavo col desiderio di intraprendere qualcosa, qualsiasi pur minima cosa rassomigliante a un lavoro, e sapevo che non avrei potuto far altro che girovagare per le strade della città senza concludere nulla» spiega ne L’occhio di Napoli. Perciò decide di lasciare Napoli e andare altrove, prima a Parigi, poi a Londra, poi ancora a Roma. Lo stesso accade a Massimo De Luca, protagonista di Ferito a morte e alter ego di La Capria, che, risucchiato dalla borghesia napoletana, è incapace di fare davvero qualcosa di diverso dall’errare tra un Circolo e un bar e, quindi, parte per Roma.

Importante è il punto di vista privilegiato da cui, nella giovinezza, l’autore ha potuto osservare e vivere la città: palazzo Donn’Anna, edificio simbolo del barocco napoletano che affaccia direttamente sul mare della borghese riviera di Posillipo. Il palazzo venne fatto costruire nel XVII secolo dal viceré di Napoli e duca di Medina don Ramiro Guzman per la moglie napoletana Anna Carafa. Donn’Anna, però, morì e la costruzione è rimasta ancora oggi incompiuta. L’autore abitò nello splendido edificio negli anni Trenta ed esso è lo scenario di molte pagine principali dei suoi romanzi. In Ferito a morte, ad esempio, per Massimo De Luca Palazzo donn’Anna diviene il simbolo della dicotomia tra Storia e Natura: la Storia è ciò di cui è artefice l’uomo, quindi l’edificio stesso, mentre la Natura, eterna nemesi della Storia, fa sì che il palazzo si avvii verso il declino, per mezzo del fenomeno denominato “bradisismo”. Il dualismo Storia – Natura è caratteristico dei libri dello scrittore e può essere considerato una modalità di comprensione di Napoli. Anche Gaetano, altro personaggio cardinale di Ferito a morte, ad esempio, propone un’opposizione tra Napoli, intesa come Foresta Vergine – quindi Natura – e Storia. Per spiegare meglio questo dualismo, ne L’occhio di Napoli l’autore ricorre alle Lettere Luterane di Pasolini: «Non è vero che comunque si vada avanti. Anzi assai spesso le società regrediscono o peggiorano» dice Pasolini a Gennariello, avvertendolo di non credere nella Storia e nel progresso.

Napoli è, appunto, un esempio magistrale di come la modernità possa essere una «mezza modernità», un «falso progresso», di come essa possa subire una battuta d’arresto, se minacciata dalla Natura. Natura che è da intendersi anche come natura umana, o meglio, napoletana. Infatti, anche la mentalità napoletana, secondo La Capria, concorre a rendere immobile la città e a impedirle di progredire per davvero: l’insistenza su un passato a cui si guarda sempre nostalgicamente, l’ostinazione ed esaltazione del dialetto e la borghesia con le sue giornate sempre uguali trascorse al Circolo Nautico sono alcune delle zavorre che ancorano Napoli a un tempo circolare, una lunga giornata che continua a ripetersi. Sebbene l’autore non possa fare a meno di scrivere della città che gli ha dato i natali, egli ritiene che la sua napoletanità sia un vero e proprio anatema. Essere uno scrittore nato a Napoli comporta un pedaggio da pagare: venire considerati sempre alla luce della città e dell’idea che si ha di essa. Parlare di Napoli ridimensiona l’autore agli occhi del lettore e del critico: «Se si parla di Pavese non si dice subito: scrittore piemontese. Se si nomina Gadda o Moravia non si dice subito: milanese, romano, e non è questo un predicato indispensabile per circoscriverne la risonanza, l’interesse e l’importanza» denuncia (R. La Capria, L’occhio di Napoli, p. 951). La città partenopea getta ombra sugli scrittori che ne parlano ed è, in ogni caso, difficile scriverne senza scadere nei soliti clichés, per questo, La Capria opta per lo scrivere di Napoli con la penna del demistificatore: sagace, ironico, crudo, alla stregua del Leopardi del periodo napoletano. Parla dei suoi problemi, ma anche delle sue bellezze e la difende da chi l’ha denigrata. Una frase diretta proprio a uno di questi denigratori, il poeta Guido Ceronetti, il quale sostiene che in nessun luogo come a Napoli sia così disumano e insopportabile vivere, cattura perfettamente il sentire dell’autore. Dopo aver spiegato il significato della parola greca deinós, usata per esprimere un sentimento insieme spaventevole e stupendo, La Capria, infatti, scrive: «Vorrei dire a Ceronetti: Guarda che anche Napoli è deinós, spaventevole e stupenda insieme. Ma questo ti sfugge» (R. La Capria, L’occhio di Napoli, p. 957).