Poche parole aizzano le folle e le esaltano come: “Chiudere in cella e buttare via la chiave!”; poco importa quale sia l’odioso reato commesso. L’omicida, lo stupratore, il ladro (non l’evasore che è persona per cui è più facile sentire una strana e incomprensibile solidarietà), lo spacciatore o il politico corrotto devono marcire, chi più chi meno, in galera. La questione è delicata perché tocca da vicino le opinioni, mette in discussione la sicurezza personale del singolo, della propria famiglia e (oserei dire soprattutto) dei propri beni. Del resto, nessuno meglio di Fabrizio De André nel suo monologo in musica “Sogno numero due” ha sottolineato quale sia “il ruolo più eccitante della legge, quello che non protegge: la parte del boia”. Nell’ottica di chi è innocente e onesto, dal proprio punto di vista, consegnare alle forze dell’ordine i colpevoli o anche solo i sospettati di esserlo è una ulteriore garanzia di controllo e sicurezza, ma non è con la caccia all’uomo e il giustizialismo esasperato che una società può pensare di stare in piedi. Le norme e le leggi sono fatte per essere rispettate e la loro applicazione deve essere precisa, sensata e inflessibile. Detto ciò, il sistema carcerario italiano è ampiamente insufficiente e, anche se non è così immediato rendersene conto, addirittura pericoloso. La criminalità organizzata spesso si serve delle carceri per raccogliere manovalanza fedele, che non ha prospettive dopo il ritorno alla libertà, per i loro traffici illeciti. L’attuale polemica sul terrorismo dovrebbe far riflettere sul fatto che proprio le carceri sono la migliore palestra per l’indottrinamento, non certo di stampo religioso, ma improntato alla violenza e alla strage, nei confronti di sbandati, vittime di lavaggi del cervello al limite dell’alienazione. Insomma, le carceri vanno rivoluzionate per tentare di assicurare veramente i criminali alla giustizia. Ad oggi, la somiglianza con un covo di criminali ancora più pericolosi è la più fedele ed è, perciò, inaccettabile. In attesa che si apra un vero dibattito costruttivo a livello sociale e parlamentare, in barba a chi continua a spostare il centro dell’attenzione su altri argomenti in modo da poter essere sicuro che non si parli mai di niente, non resta che tentare di andare ad analizzare l’esempio di altri Paesi. Premesso che è doveroso pesare il contesto nella lettura dei dati tra i diversi Stati europei, salta immediatamente all’occhio il tasso di recidività a due anni in Norvegia è al 20% (fonte PLOS One, rivista peer-reviewed a libero accesso della Public Library of Science). In Italia la recidività si aggira addirittura attorno al 70%. Innegabile è il fatto che, quali ne siano le cause, il sistema detentivo italiano è un fallimento. In Norvegia gli accorgimenti sono relativamente semplici: ad esempio, le guardie carcerarie non fanno parte delle forze di polizia, ma compiono un percorso di studi a sé in cui seguono corsi, tra gli altri, di psicologia e la loro formazione è finalizzata al corretto rapporto con il detenuto. Purtroppo la questione centrale in Italia è il sovraffollamento, che contribuisce a creare un ambiente completamente ostile a chi è incarcerato. In Norvegia, che evidentemente non vive di questi problemi, si ritiene che la sola privazione della libertà (per tempi più o meno lunghi a seconda del reato) sia più che sufficiente come pena e quindi il sistema carcerario si adopera per dare l’opportunità a chi ha commesso crimini di uscire dalla propria cella definitivamente, con nuove competenze date dalla formazione sia scolastica che tecnica e, quindi, nuove possibilità nel vasto mondo fuori dal carcere. È tutt’altro che inusuale leggere di imprenditori norvegesi che hanno dato il via alla loro attività dopo essere usciti dal carcere. La prigione di Bastoy, isola formata da un gruppo di case in cui i detenuti sono liberi di lavorare in una segheria per mantenersi, dove si trovano soltanto cinque guardie non armate e il battello di congiunzione con la terraferma è guidato da uno dei detenuti stessi, è un modello internazionale, per chi deve scontare gli ultimi cinque anni di pena per determinati reati. C’è da dire che imitare semplicemente il programma norvegese sarebbe stupido, oltre che impensabile. Un Paese che non è capace di garantire opportunità serie e concrete neanche ai cittadini onesti, non si può permettere di farlo per chi è in carcere e quindi è andato contro alle leggi di quello stesso Paese. Però, non è più accettabile ad oggi che il carcere umili, alieni e prepari chi ci è detenuto a crimini ancora peggiori, se possibile. Nessuno ha le risposte in tasca: far partire progetti di lavoro e formazione che oggettivamente abbattono i tassi di recidività ha un costo importante e in un Paese che deve centellinare le proprie risorse, a fronte di livelli spaventosi di disoccupazione, di un’economia in deflazione e di un’emergenza migranti inedita, a cui vanno aggiunti gli inenarrabili sprechi, certamente verrebbe sollevata una polemica legittima. C’è chi ha provato a rispondere all’emergenza con attività di teatro con volontari, ma, ammesso che ciò abbia un’effettiva utilità, è un’ encomiabile azione minima, a cui va dato un seguito in termini molto più concreti. Forse cominciare a mettere in campo argomenti seri, costringere l’opinione pubblica a confrontarsi con la realtà del nostro sistema carcerario e della condizione della giustizia in Italia e provare a sostenere la tesi che urlare a squarciagola “In prigione, in prigione”è inutile e pericoloso. Perchè se continuiamo a voler buttare le chiavi siamo complici e colpevoli e potremo un giorno avere come la sensazione di sentire nelle orecchie un fastidioso sussurro: “In prigione, in prigione, proprio tu, andrai in prigione, e che ti serva da lezione!”.

Marco Brero