Chi non ha mai visto, almeno una volta nella vita, qualche immagine del celebre “Il gladiatore”? E chi non si è mai fatto accarezzare dal fascino virile di Russell Crowe nei panni di una “celebrità”? Eh sì, nell’antica Roma il ruolo dei gladiatori era paragonabile a quello di vere e proprie celebrità. Alla loro entrata nell’arena un grido di esaltazione si levava dal pubblico, risvegliando gli interessi femminili grazie al loro particolare appeal. Per fama si potrebbero paragonare ai calciatori odierni, protagonisti dei “campi di battaglia” ma anche dei gossip sulla bocca di tutti gli appassionati. Giovenale, autore latino del I secolo d.C., ci narra di Eppia, moglie di un senatore, che fuggì con un famoso gladiatore chiamato Sergiolus. Eppure, di questo Adone Giovenale ne sottolinea l’aspetto fisico non propriamente “invitante”: aveva cicatrici su tutto il corpo, gli occhi pesti e il naso deformato dall’elmo.

Il mito del gladiatore non aveva nulla da invidiare ai campioni moderni, nemmeno per quanto riguarda il loro tifo e apprezzamento dal pubblico, dunque. D’altronde, i combattimenti tra gladiatori, i cosiddetti munera, erano l’evento più atteso della giornata al Colosseo, proprio come le domeniche calcistiche. Si raggiungeva quasi la capienza massima dell’imponente arena nel cuore della capitale, ovvero settantamila posti, per questi spettacoli. A patto che di spettacoli si possa parlare. Spettacoli di morte, per lo meno, che hanno reso il Colosseo il luogo sulla Terra dove è morta più gente su una superficie così stretta. Né Hiroshima né Nagasaki hanno prodotto una tale concentrazione di morte. Questo vuol dire che l’umanità dei romani ha giocato a nascondino per più di quattro secoli? Così sembrerebbe, eppure non era una stranezza per quei tempi.

I celti avevano l’abitudine di tagliare la testa ai nemici vinti e di inchiodarla alle travi di casa. Nel caso di nemici valorosi le teste venivano impregnate di olio di cedro ed erano conservate per intere generazioni. In Cina un soldato faceva carriera militare e sociale a seconda del numero di teste mozzate (per praticità facevano fede le coppie di orecchie tagliate e riportate al campo). In Centroamerica gli aztechi vendevano schiavi nemici da usare per i sacrifici (di cui Mel Gibson si è divertito a darci una cruenta immagine in “Apocalypto”). Gli etruschi anche, al loro tempo, facevano sacrifici umani.

E noi? In che modo sfoghiamo i nostri impulsi corporei? Il supplizio è ancora una forma di spettacolo?

La nostra innata curiosità che ci trattiene di fronte ad un programma televisivo che esalta la sofferenza come spettacolo sembra confermare la nostra non-lontananza dai costumi dei Romani. Amélie Nothomb dipinge un’inquietante immagine di un lager moderno ed interattivo tra le pagine del suo romanzo “Acido Solforico”, dove l’intrattenimento planetario scavalca e ammazza quasi definitivamente il senso di umanità di fronte alla sofferenza a portata di schermo televisivo.

L’esigenza istintiva di poter scaraventare fuori di noi i problemi di tutti i giorni non è scomparsa attraverso i secoli, sembra dirci velatamente la scrittrice belga. E ce lo insegnano anche i gladiatori d’oggi, le cui azioni sportive sono spesso messe in secondo piano da eventi di disagio pubblico negli stadi e immediatamente fuori. Gli esempi di attualità sono a portata di mano: un’occasione d’oro per esaltare i valori dello sport e la solidarietà di un’Europa in crisi come i Campionati europei di calcio si è invece trasformata in teatro di disordine sociale e molestia dilagante, come i fiumi di alcol che scorrono senza indugio (nonostante le apposite leggi) tra le mani dei presunti “supporters sportivi”. Gli stadi odierni non hanno nulla da invidiare alle arene antiche, se non per il fatto di aver vestito con gusto moderno l’orrore della sofferenza provocata dallo sfogo irrazionale dei propri impulsi.