«Uccidete gli uomini, ma rispettate le opere d’arte. È il patrimonio del genere umano».

È il 1914, e lo scrittore Romain Rollan si rivolge così al drammaturgo Gerhart Hauptmann, proprio nel momento in cui la Germania aveva appena bombardato il Belgio e incendiato Leuven. Ma chi è Romain Rolland? Sicuramente non un mostro come potrebbe apparire agli occhi di qualcuno, ma un riconosciuto umanista ed un fervente pacifista. I Rubens di Malines e i tesori di Leuven, storica cittadina universitaria delle Fiandre, simbolo del genio di una nazione, dovrebbe dunque valere più delle vite umane? Se volgiamo il nostro sguardo ad Est, verso i tesori di Palmira, sotto i bombardamenti dei territori siriani, ci viene mai da chiederci se debbano essere oggetto di un’attenzione superiore a quella che riserbiamo agli abitanti di quei luoghi, anche loro minacciati dai colpi di mortaio? La risposta risplende nel cielo della nostra coscienza, ma non senza qualche nuvola.

« Bisogna salvare gli uomini perché solo loro possono ricostruire. Ma allo stesso tempo sono le opere che fanno gli uomini. Evolvendo attraverso le opere, l’uomo si sviluppa e cresce. Un’opera non muore per nulla, il suo ricordo può essere all’origine della creazione di un altro capolavoro », sostiene la storica Véronique Grandpierre. D’altronde, quali sono i ricordi più tangibili di tutte le civiltà passate? Non bastano libri su libri di scuola come attestato di tutte le testimonianze che l’essere umano ha voluto lasciare nel tempo. Già nei miti dell’epica classica emerge costantemente un elemento che differenzia gli umani dagli irraggiungibili Dei: l’eternità. La vita eterna è una delle massime aspirazioni di ogni essere umano con un briciolo di egocentrismo. Eppure, una volta che ci arrendiamo all’innegabile destino della vita, o per meglio dire della morte, affiora un’unica possibilità che possa sopperire ai nostri desideri: lasciare il segno. Il sogno di molti, l’obiettivo di una vita.

“In futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti”, affermava Andy Warhol nel lontano 1968. Ma sicuramente non avrebbe pensato lo stesso John Keats, poeta romantico inglese, morto prematuramente a 25 anni, avvolto dalla disperazione per non aver raggiunto il successo personale a cui aveva sempre puntato ( “If I should die I have left no immortal work behind me, nothing to make my friends proud of my memory” ). Affetto da tubercolosi, Keats scelse nel 1921, per sua precisa volontà, di trascorrere gli ultimi mesi della sua geniale vita nella capitale dell’antico Impero Romano, di cui aveva saputo apprezzare tutti i grandi capolavori che l’avevano resa centro indiscusso di cultura. Roma rappresentava per lui quasi una sorta di bower (pergolato), riprendendo il celebre inizio del poema “Endymion” del 1818, in cui la bellezza, sentimentale e delicata, partorisce l’attività poetica ed eroica. Una via di fuga dalla realtà umana nella culla dell’arte, soavemente accudita dalla poesia che emerge come la primavera dal profondo della verità. Avrebbe quindi la risposta a portata di mano, John Keats, se potesse osservare adesso la distruzione di sei siti patrimonio dell’umanità in Siria? Probabilmente, nel mio immaginario di liceale affascinato dalla poesia inglese, per riflettere a fondo sul valore delle vite umane rispetto a quello delle opere d’arte, Keats si sdraierebbe su un morbido prato per scrutare il cielo, consigliere di mille sognatori. Un cielo in cui la risposta appare chiara, come per tutti noi, ma in cui lo sguardo del poeta viene attratto dalla magia della nuvole. Nonostante provino per un attimo ad oscurare il cielo della propria coscienza, nel suo cuore simboleggiano l’eternità che si nasconde solo nella bellezza più pura. « Beauty is Truth, Truth beauty-that is all you know on earth and all you need to know ». La stessa beauty racchiusa dalle opere d’arte che ci hanno permesso di lasciare il segno attraverso il tempo, che ci fanno sognare e che ci permettono per un istante di dimenticare le tragedie in corso nel mondo…per farci cullare dai soffici contorni di una nuvola. Dopotutto, c’è un Magritte in tutti noi.